Qual è il significato dell’essere sopravvissuti?
L’esplosione atomica colpisce a casaccio, dilania un po’ tutto di quel che trova sulla strada della propria deflagrazione, è una forza cieca che non fa distinzioni di sesso, razza o religione; l’epicentro della distruzione si disperde nei chilometri quadrati del suo raggio d’azione, confondendo edifici e veicoli, esseri umani con animali, strade e mura. L’esplosione atomica è pura anarchia, puro nichilismo in movimento.
Nel momento stesso in cui la popolazione della città viene disintegrata dalla Bomba, in quel modo orribile e incomprensibile, ecco che il ruolo dello hibakusha, del “sopravvissuto”, prende una forma imperscrutabile, essendo egli testimone e vittima totalmente solitaria del proprio dramma.
Il ruolo dello hibakusha diviene immediatamente il silenzio.
Egli mal sopporta di diventare una statistica in mano ai gruppi affiliati al movimento antinucleare, così come mal sopporta la tendenza dei gruppi a sostegno della proliferazione a identificarlo con la prova che la Bomba non uccide tutti, che ad essa si può sopravvivere. Lo hibakusha detesta d’esser manipolato, da parte dell’una o dell’altra parte.
Un esterno trova che questo comportamento, cioè il non volersi riconoscere in fazioni che si occupano del nucleare, sia del tutto irrazionale: pensa che, dopo quel che è successo, la volontà del sopravvissuto debba esser quella di venire difeso da coloro che osteggiano la bomba, o di essere portato in palmo di mano da coloro che invece la sostengono.
Ma tutto ciò accade perché l’esterno non può immaginare, non ha la sensibilità (e nessuno la possiede) per capire l’evento della Bomba, il cataclisma dei cataclismi, l’inferno che sale alla superficie dopo essere sceso dal cielo.
Lo hibakusha è un uomo del silenzio, parla una lingua sconosciuta a noi che ancora non abbiamo vissuto la Bomba.
Egli si trova nella piazza centrale di Hiroshima ad ascoltare le voci di coloro che manifestano contro la proliferazione nucleare, ascolta le vuote parole dei politicanti, vede gli studenti che gridano “pace! pace!”, i comunisti che vorrebbero il “disarmo parziale”, i fascisti che vorrebbero il riarmo totale, gli americani che scattano foto incuriositi; l’unica cosa che in realtà percepisce distintamente è il silenzio disgregato degli altri hibakusha, dei suoi simili, che ormai non sono più esseri umani, che hanno fatto un salto di qualità, che non esprimono più ciò che sono attraverso le parole, bensì grazie ad un idioma sconosciuto a chi sotto la Bomba non s’è mai trovato: il mutismo.
Ma i politicanti questo non riescono a vederlo, essi continuano a fare conferenze sul disarmo, sul riarmo, sulla pace e sulla guerra, soltanto con l’intento di non scontentare le proprie lobbies, di curarne l’interesse, di favorire i gruppi politici più influenti; essi sono convinti di curare le volontà dei sopravvissuti, di favorirne il “riscatto”, portano all’ennesimo congresso paroloni strappalacrime per smuovere i cuori della popolazione, parlando delle loro amicizie con le vittime irredente della Bomba, parlando della loro sensibilità nei confronti della situazione che essi hanno vissuto e stanno vivendo. Cazzate da palcoscenico.
Lo hibakusha resta silenzioso, comunicando così con i propri simili l’indifferenza più totale.
Non esiste possibilità di movimento antiatomico che prenda come soggetti costitutivi gli hibakusha, perché essi non sono interessati alle parole né ai fatti, non sono interessati al disarmo né al riarmo, non alla pace né alla guerra: essi sono, ai nostri occhi, contenitori d’immagini laceranti, silenziosi nel loro testimoniare l’esplosione, senza opinioni a riguardo dell’Ordigno. Essi sono il meglio e il peggio creato dal Manhattan Project, sono il nulla e il suo superamento.
Non esiste possibilità di distruggere la Bomba dialogando con i sopravvissuti di Hiroshima o Nagasaki, perché essi, alle tue calde esortazioni, risponderanno con un cenno enigmatico del capo, gireranno i tacchi con un rispettoso saluto e torneranno nelle proprie case, desiderosi soltanto di mostrare al mondo che essi vivono: vivono nonostante tutto, vivono con la loro paura inconscia di una conta esagerata di globuli bianchi (che il più delle volte si presenta, prima o poi), vivono mettendo la mondo figli con i loro partner (spesso hibakusha), vivono alla faccia di chi quella vita volle negarla nel modo più orribile, con un portellone aperto e il fischio del duro metallo che sfreccia a 45 metri al secondo verso l’epicentro.
Nel silenzio, essi vivono, essi sentono e amano.
E noi, che vogliamo distruggere la bomba e i distruttori del mondo, non possiamo permetterci il lusso politico di averli dalla nostra parte, non possiamo chiedere loro di mettersi in gioco per combattere, perché combattono ogni giorno contro il frastuono che da 50 anni a questa parte il mondo dedica loro.
Lasciamo che gli hibakusha vivano la loro vita, le loro speranze, le loro paure. Lasciamoli nel loro silenzio, rispettiamolo.
E mettiamo in gioco noi stessi, da “non-ancora-hibakusha“, al servizio del nostro futuro più prossimo, combattendo la Bomba, con le nostre fresche forze ed intatte volontà, affinché non si ripeta mai più, in ogni parte del mondo, l’orrore indescrivibile (e indescritto) di Hiroshima e Nagasaki.
L’immagine: L’immagine: Ulisse (olio su tela, cm 80×60) di Mauro Filippini, per gentile concessione dell’artista.
Riccardo Dal Ferro
(LucidaMente, anno IV, n. 46, ottobre 2009)