L’esposizione, frutto di una collaborazione fra il Museo e la Fondazione De Vito, è un viaggio attraverso patrimoni pubblici e collezioni private, che testimonia la ricchezza artistica del periodo partenopeo
«L’intento della mostra è far dialogare una scelta di opere provenienti da due collezioni». Così specificano Nadia Bastogi e Rita Iacopino, curatrici dell’esposizione Dopo Caravaggio. Il Seicento napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito. Ospitata nel Museo del palazzo pratense dal 14 dicembre 2019, rimarrà aperta al pubblico fino a lunedì 13 aprile 2020.
Un’occasione per ammirare l’eredità, nella pittura partenopea (e non solo) dell’epoca, della lezione di Michelangelo Merisi; il valore aggiunto è quello di poter fruire di un patrimonio altrimenti privato, organizzato con grande coerenza cronologica e didascalica. Il percorso è frutto di una felice collaborazione fra il Museo di Palazzo Pretorio e la Fondazione Giuseppe e Margaret De Vito, di cui Iacopino e Bastogi sono le rispettive direttrici scientifiche. La Fondazione De Vito, formatasi negli anni Settanta sulle colline fiorentine, resta fra le più ricche raccolte private di pittura seicentesca partenopea. Le curatrici, con il patrocinio del Comune di Prato, hanno scelto di valorizzare l’approccio collezionistico dell’iniziativa, ricercando le impronte lasciate da un Caravaggio esule in Campania. Il pittore lombardo passò da Napoli in due occasioni: dapprima, in fuga dal papa, tra l’ottobre 1606 e il novembre 1607; in seguito, dal 1609 al 1610, di ritorno da Malta.
Nel proprio continuo e disperato errare, Caravaggio lasciò agli spettatori partenopei alcuni dei suoi capolavori, fra cui le due Salomé con la testa di Giovanni Battista (ora collocate a Londra e a Madrid). La sua narrazione cruda, realistica e sofisticata venne accolta e studiata, fino alle più tarde rielaborazioni in chiave classicista e barocca. La mostra di Palazzo Pretorio ricostruisce la lunga e prolifica eredità del Merisi, organizzandola attorno a quattro sezioni. La prima riporta al 1618, con due tele di Giovanni Battista Caracciolo, influente esempio per i pittori successivi. Noli me tangere (1618) e San Giovannino (1627-1630) presentano soluzioni luministiche e di taglio obliquo atte ad accentuare il legame emotivo delle mezze figure. Si passa poi allo spagnolo Jusepe de Ribera, attivo a Napoli fra il 1616 e il 1652 e maestro del naturalismo; ad affiancarlo, nel percorso, l’anonimo Maestro dell’Annuncio ai pastori.
A chiudere la prima metà del secolo in considerazione, nella terza sezione, dipinti a soggetto femminile. Da Bernardo Cavallino con Santa Lucia (1645-1648) si passa al Cristo e la Samaritana (1645) di Antonio De Bellis: una rassegna di rappresentazioni più aperte al gusto classico e neoveneto, sotto il segno di Artemisia Gentileschi. La conclusione della mostra, non eccessiva per quantità di opere ma accurata nella selezione, si concentra su Mattia Preti. Protagonista della seconda metà del Seicento partenopeo, con opere quali Deposizione di Cristo dalla croce (1675), ha contribuito a portare le influenze caravaggesche verso il barocco. Si apre così, per lo spettatore di una mostra vivamente consigliata, il nuovo secolo del Settecento. In cui, affermano Bastogi e Iacopino: «il clima è ormai mutato, ma gli artisti napoletani […] continueranno ad avere un ruolo di primo piano nelle corti europee».
Le immagini: Battista Caracciolo, Noli me tangere (1618, collezione di Palazzo Pretorio); Maestro dell’Annuncio ai pastori, Giovane che odora una rosa (1640-1645, collezione De Vito); Mattia Preti, Deposizione di Cristo dalla croce (1675, collezione De Vito). Si ringrazia per la concessione delle immagini l’addetta stampa Maddalena Torricelli.
Michele Piatti
(LucidaMente, anno XV, n. 170, febbraio 2020)