Anna Laura Millacci accusa di violenza il compagno Massimo di Cataldo e divide la rete. Qualche riflessione
Lei è Anna Laura Millacci, visual artist con galleria d’arte a Roma, stimata e nota nell’ambiente. Lui, il suo compagno e padre di sua figlia, è Massimo di Cataldo, cantante romano, di discreta fama negli anni Novanta, ora sulla via dell’anonimato. Poi ci sono gli altri, tutti. Il popolo di Facebook.
Lei pubblica su Facebook alcune foto del proprio volto insanguinato e tumefatto, accusando il compagno di violenza. Pubblica anche, e questo è il dettaglio più impressionante, la foto di un bidè con dentro dei resti organici: il prodotto, spiega, di un aborto spontaneo, provocato dalle percosse. Foto di venti giorni fa, dichiara, pubblicate soltanto ora, dopo lunghe riflessioni. Nel giro di poche ore decine di condivisioni, centinaia di commenti. La prima reazione, quella istintiva, di pancia: il linciaggio. Lui è un violento, un porco, un animale, uno schifoso, deve pagarla cara, non merita di vivere. Il messaggio passa velocemente di bacheca in bacheca.
Facebook ci rende tutti pecoroni? Sì, abbastanza. Più o meno quanto lo siamo nella vita vera, forse, ma meno trattenuti dalla prudenza, dalla paura di esporsi. Perché da dietro uno schermo schierarsi, giudicare, accusare è più facile. Gli indignati da pc, gli eroi da tastiera sono tanti: basta un invio per condannare, basta un condividi o un cancelletto per sentirsi parte di qualcosa di grande. Siamo pecoroni, sì, ma è anche un istinto: quello della difesa del più debole, o di chi appare tale. Di fronte ad un volto ferito, a una richiesta d’aiuto, a un gesto di disperazione, il primo istinto è la difesa. Quello stesso istinto che spinge molti a condividere foto, spesso false, di cani torturati o bambini malati. Compassione a buon mercato, che per un attimo fa sentire buoni, con poca fatica.
La diffidenza esce fuori solo dopo, frutto della riflessione e dell’esperienza. Così, pian piano, anche dalla virtuale folla inferocita nascono voci di dissenso, prima isolate, poi sempre più numerose. Dubbi, interrogativi. Perché questa donna esce allo scoperto su Facebook e non con la sua famiglia, i suoi amici e soprattutto davanti alla legge? Perché pubblica le foto solo ora? Perché, se lui è un violento, ci è stata insieme tredici anni? Perché non ha ancora sporto denuncia? Perché non è andata al Pronto soccorso? Perché non tutela sua figlia gestendo la cosa con discrezione? Anche le foto, a ben guardare, non convincono. Il viso, qualcuno azzarda, più che tumefatto, sembra soltanto sporco. Sangue finto, sangue mestruale, semplice epistassi? E poi, quel grumo, sarà davvero un feto? Non sarebbe difficile, specie per un’artista materica come lei, riprodurre in modo artificiale qualcosa di simile; bastano un po’ di acqua, farina e tempera colorata.
Così, poco per volta, la vittima diventa carnefice, la donna maltrattata diventa una manipolatrice, una bugiarda, una madre snaturata. La notizia rimbalza su Twitter e sulla stampa, alcuni noti blogger si schierano, altri invitano alla riflessione. Anche l’interessato, Di Cataldo, si difende tramite Facebook, grida alla diffamazione. Riceve commenti di solidarietà. Molti di quelli che prima gridavano “al mostro” iniziano a interrogarsi, cambiano punto di vista oppure tacciono. Si arriva anche alla dietrologia, alle ipotesi azzardate: è tutto finto, i due sono d’accordo, è solo un trucco per ravvivare le rispettive carriere.
Sono troppi i punti oscuri e troppo poche le prove certe per azzardare un’ipotesi. Però questa vicenda ci offre innumerevoli spunti di riflessione. Sugli uomini, sulle donne, su Facebook e su noi stessi. A ben guardare, ogni cosa ha un senso, per quanto distorto. Ha senso gridare il proprio dolore su un social network, e non ai propri cari o all’autorità giudiziaria? Sì, ha senso, specie se dai parenti non ti senti ascoltato, se dalla legge non ti senti protetto. Una foto su Facebook è una bomba sganciata in una piazza piena di gente: comunque vada, dopo non potrai tornare indietro. E mentre la lancerai avrai davanti solo lo schermo di un pc, non occhi dubbiosi, parole accondiscendenti, minacce, tentativi di dissuasione, inviti a lasciar perdere, a capire, a perdonare, a pensare al bene degli altri. Quindi no, non è assurdo, come non è assurdo sopportare prepotenze per tanti anni e poi un giorno svegliarsi, come da un lungo sonno, e dire basta. Sbagliato di certo, ma non assurdo.
Anche altre possibilità però non sono così assurde come sembrano. Ad esempio è vero che, come gli uomini maltrattano, altrettanto le donne simulano. Sembra strano, ma purtroppo accade e questo, oltre a danneggiare uomini innocenti, toglie credibilità alle denunce delle donne realmente maltrattate. I motivi? Il principale forse è lo stesso che spinge gli uomini alla violenza: la non accettazione dell’abbandono. Dove da una parte c’è l’eliminazione fisica della vittima, dall’altra c’è la distruzione del suo riconoscimento sociale.
Cosa traspare dal comportamento della Millacci, a una più attenta osservazione? La volontà di punire il suo carnefice, di certo, ma soprattutto di rendere visibile la propria sofferenza. Una sofferenza senza dubbio reale, anche se le cause precise non sono dimostrate. Sono avvenute davvero quelle percosse, o quel sangue è solo la rappresentazione che un’artista usa per rendere visibile un dolore psicologico? E quanto il compagno è consapevole di aver causato quel dolore? Quanto ne è realmente colpevole? E se invece le percosse fossero vere, ma risalenti ad anni prima, così come l’aborto? Se tutto ciò che è stato a suo tempo sopportato “per amore”, per dipendenza affettiva o per speranza di redimere l’altro, fosse ora, davanti alla fine del rapporto, a un abbandono che sancisce l’inutilità di tutta quella sopportazione, diventato insostenibile? In questo caso, saremmo nel campo della giustizia o della vendetta? E se fosse accaduto qualcosa di reale ma non più dimostrabile, sarebbe eticamente, per quanto non giuridicamente, lecito falsificare le prove pur di dimostrarlo?
«Quando ho abortito ho preso tutto quello che il mio corpo stava espellendo e l’ho messo su un quadro che si chiama Le cose che ho perso L’ho fatto per non dimenticare e lo guarderò ogni volta che mi verrà la tentazione di perdonare. Se non mi crederanno, troveranno tutto nel mio quadro che ora è nascosto nell’armadio» ha dichiarato Anna Laura in un’intervista d un noto blog. Andando a vedere il suo sito internet, però, quel quadro, Le cose che ho perso, è in catalogo e risulta essere stato realizzato nel 2010. Forse un armadio tenuto chiuso troppo a lungo, in cui la realtà si è trasfigurata nella rabbia e nell’arte? O la giusta reazione di una donna che finalmente trova la forza di ribellarsi?
La verità probabilmente non la sapremo mai. Possiamo solo auspicare che in qualche modo sia fatta giustizia, o che tutti trovino pace. Intanto è arrivata l’estate, si va in vacanza e su Facebook sta nascendo una nuova moda: fotografare i propri piedi insabbiati che si stagliano all’orizzonte, sulla spiaggia, tra cielo e mare. La vita continua.
Le immagini: dalla pagina facebook di Anna Laura Millacci (https://www.facebook.com/anna.millacci?fref=ts) e dal sito ufficiale di Massimo Di Cataldo (http://www.massimodicataldo.com/Sito/).
Viviana Viviani
(LucidaMente, anno VIII, n. 91, luglio 2013)