Se n’è andato il nostro caro amico Giordano Villani, di Budrio (Bologna). Un galantuomo d’altri tempi. Una persona per bene, gentile, educata e onesta. Autore di zirudèle e racconti, amante della propria pianura budriese, artigiano fino alla pensione, “campagnolo”, fotografo e cicloamatore. I funerali si terranno oggi, venerdì 6 settembre 2013, alle 10, presso la parrocchia di Dugliolo di Budrio. In suo onore, riproponiamo un suo racconto pubblicato su “LucidaMente“. Ciao, Giordano
Cosa succede? Dove ci troviamo? “La palude” onirica di Giordano Villani
Che cosa c’è di più prezioso al mondo della salute? Se poi si ha la fortuna di vivere dove c’è pace e amicizia e si dispone di quel poco di denaro che permette di condurre un’esistenza dignitosa e serena, che cos’altro si può desiderare? Ricchezza e potere? Non fanno certo per me. Cultore come sono della privacy, della vita libera, all’aria aperta, amo essere circondato dai miei cari, dagli amici di sempre e pochi altri. Quale bene incommensurabile sia la propria integrità psicofisica, spesso si è in grado di valutarlo solamente quando la si perde. Certamente io non mi posso lamentare, poiché fino ad ora sono stato molto bene. Ho visto l’ospedale una sola volta nella vita, per operare le tonsille, ma ero troppo piccolo e non me lo ricordo neppure, segno che in me non ha lasciato traumi di alcun genere. Mi piace molto occuparmi del mio cortile, estirpando le erbe infestanti, passando regolarmente il rasaerba e il decespugliatore al fine di mantenerlo ad un livello di cura e manutenzione accettabile. Amo molto praticare regolarmente lo sport ed in special modo il ciclismo. Recentemente ho acquistato una mountain bike, una vera occasione, e, da allora, non c’è sentiero, argine o strada sterrata del circondario che non abbia percorso almeno una volta. Conduco una vita molto regolare, non bevo superalcolici, non fumo… E, allora, perché mi è venuto questo nodulo alla gola, che a toccarlo mi fa male? Guardandomi allo specchio noto in corrispondenza del punto in cui si trova una macchia scura, di colore violaceo che non fa presagire nulla di buono! «Meglio fare una Tac,» mi disse il medico specialista al quale mi ero rivolto con grande apprensione «senza questo esame non sono in grado di diagnosticare di quale natura sia il nodulo che le si è formato, perciò le faccio subito la richiesta». «Ma dottore, mi dica almeno quale idea si è fatta a tale proposito!». «Non posso azzardare ipotesi, tanto più che lei non è neppure un fumatore! Se avesse fumato potrei dire con relativa certezza che è una neoplasia causata dalla nicotina, ma così… non ho elementi sufficienti per pronunciarmi!». «Accidenti, sembra quasi che il non aver fumato sia una colpa!». «Vada tranquillamente all’ospedale Bellaria, a San Lazzaro di Savena,» riprese il medico, vedendomi pensieroso «là sapranno diagnosticare con certezza, alla luce dei risultati dell’esame, la natura del suo problema». «Meglio che mi metta un maglione con il collo alto, almeno la gente non vedrà quell’orribile macchia nera che ho sul collo! Non che sia una colpa essere malato, ma non fa neppure piacere mostrare il segno così evidente della propria malattia, senza neppure conoscerne la natura. Chissà cosa ci sarà scritto sul referto, spero che non si parli di cosa grave! Di solito lo consegnano in busta chiusa, all’attenzione del proprio medico curante, ma penso che non resisterò senza conoscere la verità!… Oppure no, lascerò che sia il medico a spiegarmi la natura del mio male. Chissà che non trovi le parole per farmi accettare la realtà senza farla cadere su di me come una tremenda mazzata!». Mentre questi pensieri mi scorrevano per la mente, mi ritrovai al volante della mia amata autovettura, che, con i suoi undici anni di età portati molto bene, ormai faceva parte della mia vita e non l’avrei cambiata nemmeno con l’ultimo modello di fuoriserie. Mai mi aveva deluso, lasciandomi in panne, anzi, ogni volta che giravo la chiave di accensione, appena scoccata la scintilla nella candela del primo cilindro, faceva udire il rumore inconfondibile del suo motore, quasi fosse l’esecuzione di un famoso brano di musica classica, l’ascolto del quale infondeva in chi si metteva al volante un senso di grande affidabilità. Tuttavia, questa volta c’è qualcosa che non va, conosco così bene il mormorio del motore della mia auto da poter affermare con certezza che… che… sono in panne! Scesi e, dopo averla chiusa accuratamente, proseguii a piedi. «Prenderò l’autobus, tanto sono quasi arrivato a San Lazzaro ed il capolinea non è molto distante; al ritorno troverò un meccanico disposto ad aiutarmi a rimetterla in moto». Intanto il collo mi faceva sempre più male e, toccandomi il punto dove c’era quella brutta macchia, mi pareva di sentire come una membrana sottilissima e sotto di essa il vuoto. «Eppure dovrei essere quasi giunto al capolinea, infatti ho già percorso tanti chilometri in questa strana palude senza vedere né case né anima viva!».«Quale palude!,» risposi a me stesso «a San Lazzaro non ci sono paludi!».
San Lazzaro di Savena, ridente cittadina alle porte di Bologna, è separata dal capoluogo proprio dal torrente Savena da cui prende il nome. È stracolma di palazzi, di ville inerpicate sulle colline retrostanti, attraversata da grandi viali con giardini pieni di persone che vanno e vengono molto frettolose, essendo una zona dove è molto fiorente l’industria ed il commercio. Recentemente, da un sondaggio, è risultata essere ai primi posti per la qualità della vita, per il reddito pro capite e per l’efficienza dei servizi che l’amministrazione pubblica riesce a dare al cittadino. In questo contesto è evidente che non possono mancare i mezzi pubblici… ma come mai, allora, non riuscivo a trovarne uno? Intanto camminavo da quasi un’ora in questo pantano, dove i piedi affondavano fino alle caviglie con il rischio di non riuscire ad estrarre la scarpa affondata nella melma putrida e maleodorante. Il dolore al collo si faceva più intenso e, non riuscendo più ad avanzare, mi sedetti su un tronco di un salice sradicato da chissà quale calamità naturale, che ora si trovava parzialmente affondato nel fango. Affaticato da quel lungo cammino in condizioni disagiate, il respiro diventava sempre più affannoso ed il dolore al collo sempre più insopportabile, forte a tal punto da sentirmi mancare. Ad un tratto, sentii che la membrana che ricopriva la parte dolorante si stava rompendo, permettendomi di respirare attraverso il foro che si è venuto a creare. «Ma cosa mi sta succedendo!,» pensai assalito dalla disperazione «almeno riuscissi ad arrivare in ospedale… almeno incontrassi qualcuno a cui poter chiedere soccorso! Ma non c’è proprio nessuno in questa maledetta palude che mi può aiutare!». La nebbia stava scendendo ed il paesaggio circostante prendeva un aspetto ancor più lugubre e tetro. Le piante acquatiche, con il loro ondeggiare lambite dal vento, assumevano sembianze di sinistre figure ed il rumore provocato dalle fronde pareva un lamento di fantasmi, intenti a spaventare le persone in qualche sperduto castello scozzese. Si intravedevano in lontananza alcuni ruderi di una costruzione che in passato doveva essere stata imponente, ma che ora si trovava semisommersa nella palude. Alcune colonne riverse le une sulle altre lasciavano intravedere tra di loro i resti di enormi cornicioni, misti a capitelli di varie forme, come quelli dei portici di Bologna. Qualcuno si sta avvicinando! Finalmente una presenza umana in questa desolazione! «Aiuto! Sto male e mi sono perduto! Da questa parte, sono qua!». «Che ti succede amico? Non ti spaventare! Presto tutto passerà e ti sentirai meglio!». «Meglio un accidente! Sto sempre peggio! E poi tu chi sei… come fai a sapere che cosa mi sta succedendo?». «Perché è già capitato anche a me… e a tutti quelli che stanno arrivando ora». Alzai lo sguardo, distogliendo la concentrazione per un momento dal mio dolore, e mi guardai intorno; altre figure con uno strano abbigliamento si avvicinavano disponendosi un poco alla volta in cerchio intorno a noi.Il mio interlocutore, che fino a quel momento era rimasto avvolto dal buio, si tolse il cappuccio che gli ricopriva la testa e si sbottonò il mantello che portava adagiato sulle spalle scoprendo la gola.
Con mia grande sorpresa scoprii che aveva due fori nello stesso punto di quello che si era appena formato sul mio collo. «Vedi,» continuò dopo una breve pausa «noi stiamo subendo una mutazione irreversibile, una cosa tremenda, ma contro la quale la medicina si trova impotente». «Mutazione? Ma cosa stai dicendo? Sono cose che si leggono soltanto nei libri di fantascienza! – replicai». «Se avrai la pazienza di ascoltarmi, ti spiegherò ogni cosa! Ricordi quella esplosione di cui si è tanto parlato, avvenuta a San Lazzaro alcuni mesi fa? Si disse che era stata causata dallo scoppio di una centrale del metano, ma in realtà così non è, anche se la centrale è veramente saltata in aria. Invece si è trattato di un attentato messo in atto da un gruppo di estremisti, usando un ordigno micidiale che, oltre a produrre una tremenda deflagrazione, ha sparso nell’ambiente un’enorme quantità di un prodotto chimico fino ad ora sconosciuto alla scienza, che ha creato una grande mortalità di persone e animali nel raggio di molti chilometri». «Avevo appreso con grande sgomento questa notizia dai telegiornali,» intervenni nuovamente, sempre più sconcertato dalle sue rivelazioni «soccombere è una cosa che, pur se molto tragica, fa parte della natura umana, ma subire una mutazione…». «Devi sapere che lo scoppio ha liberato un’enorme quantità di gas metano, infatti per molte settimane i tecnici non sono riusciti a mettere sotto controllo l’impianto, essendo fuori uso tutti i sistemi di emergenza. Si è così creata una miscela di questo gas e di prodotti chimici sconosciuti, che sono all’origine di questo fenomeno per chi ne ha respirato una certa quantità». «Ma io non abito a San Lazzaro,» dissi con un filo di voce «vivo distante parecchi chilometri, in direzione nord!». «Ricordi che direzione aveva il vento in quel periodo? E soffiava anche molto forte!». «Accidenti, ecco cos’era quell’odore strano ed insopportabile che mi ha fatto tanto tossire alcuni mesi fa! Ma c’è ancora una cosa che non riesco a capire: perché questa mutazione mi ha colpito da una sola parte del collo, creando questo orribile condotto verso la trachea, mentre a voi ne ha creato uno da entrambe le parti?». «Questione di tempo, figliolo, specchiati nell’acqua della palude e capirai!». Mi avvicinai ad un punto dove potermi specchiare e inorridii guardando l’immagine che vidi riflessa! Una macchia scura mi si era formata sul collo dall’altra parte! «Per favore, aiutatemi! Portatemi all’ospedale Bellaria, mi stanno aspettando… ho una prenotazione urgente per eseguire una Tac; forse riescono ancora a trovare un rimedio!». «L’ospedale Bellaria? Non devi camminare molto per arrivarci! Infatti ce l’hai davanti! Vedi quelle rovine laggiù? Sono tutto quello che ne resta! Qua intorno non c’è nient’altro che la palude! Il torrente Savena, non riuscendo a far defluire regolarmente le sue acque in seguito al nuovo assetto del territorio, ha allagato tutta la pianura circostante, rendendola una grande distesa di acqua stagnante». «La palude… ecco il nostro futuro… stiamo diventando anfibi!». In quel momento capii che non c’era più nulla da fare e la disperazione ebbe il sopravvento sulla mia razionalità di sempre. Mi accasciai al suolo poggiando la schiena al tronco di salice, del quale ora conosco bene anche la storia, e non riuscii a trattenere le lacrime. «Coraggio amico, non sei solo! Coraggio, siamo uniti dallo stesso destino!». «Coraggio, non sei solo, siamo tutti qua! Ormai tutto è passato!». Aprii un occhio per volta cercando di scoprire quale realtà stessi vivendo. La camera era piccola ma luminosa. Un raggio di sole penetrava all’interno da una vetrata diffondendo una luce abbagliante, per cui non riuscivo a vedere intorno a me che delle ombre scure. «Siamo noi, papà! C’è la mamma, il nonno e tutta l’équipe medica che ti ha operato!». «Come sta il nostro paziente?» disse il chirurgo che indossava ancora il camice verde. «L’intervento è andato benissimo e tra qualche giorno la manderemo a casa!». Mi vollero ancora alcuni minuti per capire, con l’aiuto di mia moglie che cosa mi era capitato. «Ricordi che sei entrato all’ospedale Bellaria per togliere quel piccolo nodulo che avevi alla gola?». «Certo, ora ricordo tutto, sai… prima ero ancora sotto l’effetto dell’anestesia». «L’intervento è andato benissimo… ti hanno asportato una piccola cisti di natura benigna, ora te lo dirà anche il dottore». «Certamente,» disse il chirurgo «lei non si deve preoccupare! In breve tempo non si ricorderà neppure di questo piccolo incidente». «Meno male dottore, sa… ho fatto uno strano sogno!».«Ma che dice! Sotto anestesia non si sogna!».
(La palude)
Giordano Villani
Cinquantotto anni portati benissimo, l’autore è nato a Dugliolo di Budrio, piccolo paese della Bassa bolognese, in una casa situata in aperta campagna dove tuttora risiede con la famiglia. Attualmente pensionato e, per la serie “non è mai troppo tardi”, studente ai corsi serali di Elettrotecnica, a completamento di un’attività lavorativa svolta nel settore tecnico, sia come dipendente che in proprio.
La passione per il ciclismo amatoriale, con il passare degli anni, ha lasciato il posto ad un grande desiderio di contatto con la natura, lontano dalle strade trafficate, desiderio che trova appagamento nelle lunghe passeggiate in mountain bike. Grande è il suo interesse per il dialetto – che spesso trova concretizzazione con componimenti, sia in prosa che in rima, secondo le regole della lirica bolognese, la cosiddetta zirudèla, cui abbiamo dedicato un servizio in questo stesso numero di LucidaMente – e per la storia locale, per il momento ancora sotto forma di una serie di appunti da riordinare.
I suoi desideri per il futuro? Vivere serenamente con la propria famiglia, con la società e in armonia con quella sterminata pianura della Bassa, della quale si sente parte integrante.
IL COMMENTO CRITICO
Che cosa sono i sogni e cosa rappresentano realmente? Scrittori e filosofi hanno da sempre dibattuto intorno alla loro natura, fin dall’età antica (Aristotele ci dedicò perfino un paio di saggi). E, nel corso del tempo, c’è stato chi ha sostenuto, come William Shakeaspeare, che «noi siamo della stessa materia di cui son fatti i sogni», o, come Arthur Schopenhauer, che «la vita e i sogni sono pagine dello stesso libro».
D’altro canto, gli psicanalisti ci hanno fornito disparate interpretazioni dei fenomeni onirici: se, da un lato, Sigmund Freud ha specificato che «il sogno è un fenomeno psichico pienamente valido e precisamente l’appagamento di un desiderio», Erich Fromm ne ha parlato come un «linguaggio dimenticato», attraverso cui «approdiamo a una profonda penetrazione dell’essenza di altri e di noi stessi».
Senza avere la pretesa di spiegare in questa sede la complessa attività psichica che è sottesa alla creazione dei sogni, ci limitiamo a ricordare che l’esperienza onirica è altrettanto importante di quella reale nell’esistenza di ciascuno di noi, soprattutto in considerazione del fatto che circa un terzo della nostra vita lo trascorriamo dormendo e che, mentre sogniamo, continuiamo a ragionare e a provare sentimenti e sensazioni.
Similmente all’esplosione dei pestiferi bubboni nel Griso di manzoniana memoria, anche l’io narrante de La palude accoglie nel sogno le sensazioni patologiche del corpo, rivivendole, trasformandole, proiettandole.
Tra sogno e realtà – Il racconto di Villani, dalla prosa essenziale ma efficace, dopo un incipit realistico e apparentemente confortante, ci proietta improvvisamente nella dimensione assurda e angosciante dell’incubo, che – come in alcune allucinanti situazioni descritte da Franz Kafka o da Edgar Allan Poe – potrebbe non essere solo il frutto della fantasia onirica dell’io narrante, se è vero ciò che il chirurgo afferma alla fine della storia: «Sotto anestesia non si sogna!» (del resto, chiunque sia stato narcotizzato può confermare tale assunto). Si tratta, dunque, di “percezioni extrasensoriali”, collegabili ad un’esistenza parallela? O, semplicemente, di un’eccezione che conferma la suddetta regola? Il senso ultimo della vicenda – come, più in generale, il significato della vita – ci rimane ignoto. Ma non è questo, in fondo, ciò che conta. Lo scrittore ci vuole comunicare ben altro: il disagio dell’odierna condizione umana, la perdita irrimediabile del rapporto con la natura, il dilagare di una violenza insensata e megalomane, l’inesorabile degrado della modernità che porterà certamente alla rovina il mondo, trasformandolo in una «grande distesa di acqua stagnante» (in senso non soltanto metaforico, viste le continue alluvioni e lo scioglimento dei ghiacciai, provocati dal noto “effetto serra”, contro cui si fa poco o nulla).
Pessimismo e compassione – Gli uomini, nella funesta visione di Villani, sembrano destinati a diventare “anfibi”, in altre parole a trasformarsi in esseri deformi, condannati ad adattarsi a condizioni sempre più precarie e mutevoli d’esistenza, nelle quali le certezze acquisite saranno continuamente messe in discussione, in senso sia materiale, sia morale. Un pessimismo di tipo leopardiano, pertanto, sembra pervadere la Weltanschauung dell’autore, sebbene un barlume di speranza s’intraveda tra le righe del suo racconto. È la solidarietà umana, la compassione che nasce dal grido: «Coraggio amico, non sei solo! Coraggio, siamo uniti dallo stesso destino!». Talvolta, infatti, basta poco per confortare l’esistenza: il calore dell’amicizia e degli affetti familiari, le “illusioni” di foscoliana memoria, cui ci si deve necessariamente appigliare per non sprofondare nella melmosa palude dell’indifferenza, del gretto egoismo, della solitudine. È questo, a nostro parere, l’unico rimedio efficace per quello che Eugenio Montale ha definito il “male di vivere”. A meno che non si scelgano altre effimere consolazioni, quali la ricchezza e il potere, che peraltro Villani – nel prologo del racconto – esclude categoricamente dal novero delle proprie aspettative esistenziali.
L’immagine: creazione fotografica e altre foto dell’autore del racconto.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno I, n. 6, 15 giugno 2006)