Il documentario della regista siriana Waad Al-Khateab è un inno alla vita e alla resistenza in un mondo di morte e distruzione
«Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla: in guerra la vera immagine di Sarajevo era la vita», scrive il giornalista Paolo Rumiz nel suo libro Maschere per un massacro (Feltrinelli, 2011, pp. 208, € 8,00), un saggio tanto dettagliato quanto brutale sulla guerra nella ex Jugoslavia. L’assedio di Sarajevo e questa frase ci sono tornati alla memoria dopo aver visto For Sama. Alla mia piccola Sama di Waad Al-Khateab, il documentario-rivelazione candidato agli Oscar 2020 come miglior documentario.
La giovane regista siriana ha filmato la sua vita ad Aleppo dal 2011, raccontando l’inizio dei rivolgimenti e la successiva guerra, l’assedio e l’esilio. Il film è una dichiarazione di amore verso sua figlia Sama, nata sotto le bombe russe e gli attacchi del regime di Bashar Al-Assad, in uno sgangherato ospedale costruito dal padre medico, in una città distrutta, assediata, bombardata, dove la morte e la sofferenza sono protagoniste. Una dichiarazione che è anche la spiegazione del perché i suoi genitori abbiano deciso di farla venire al mondo in un contesto in cui la vita è così fragile da essere messa in pericolo ogni singolo minuto. Una madre-regista che racconta alla propria figlia le scelte dei genitori, le loro emozioni, le loro paure, le ansie, i dubbi, il rimorso per aver deciso di farla nascere in uno scenario così devastante. Il film è poi un racconto straziante e brutale della guerra, dell’assedio di Aleppo, delle difficoltà quotidiane per trovare cibo e medicine, dei tentativi di proteggere i bambini, trovando escamotage per “distrarli” dall’orrore. Ecco che un autobus distrutto diventa un quadro da dipingere e un mezzo per volare via con la fantasia, anche se solo per qualche ora.
È il racconto della vita e della lotta per la sopravvivenza in un ospedale improvvisato, nato dalla testardaggine di medici, infermieri e semplici cittadini che, nella più totale disorganizzazione, assenza di medicine, strutture e strumentazione, provano senza sosta a salvare esseri umani, anche se non sempre ci riescono. Un tale attaccamento e rispetto per la vita si manifestano probabilmente soltanto in situazioni estreme e disumane quali i conflitti, come ci ricorda il libro Sopravvivere a Sarajevo del gruppo di artisti Fama Collection (Bèbert Edizioni, 2017, pp. 150, € 15,00): una raccolta di testimonianze dei cittadini della capitale bosniaca durante i quattro anni di assedio. Una città in cui i teatri sono aperti, si celebrano le festività, si va a scuola e al lavoro, si organizzano concorsi di bellezza e spettacoli; dove si inventano mille e più soluzioni per preservare la quotidianità e, soprattutto, non lasciarsi andare alla paura e alla disperazione.
La stessa cosa succede nella Aleppo assediata: Waad ci rende testimoni della sua storia d’amore con Hamza, prima amico e poi marito; ci racconta il suo matrimonio, la nascita della figlia, le visite ai suoi cari, i lavori di giardinaggio; ci presenta gli amici e le loro famiglie, ci guida in giro per la città. Alterna a queste scene di vita “normale” immagini di feriti e morti, il lavoro straziante in ospedale, le bombe sulla città e sull’ospedale stesso, per non farci dimenticare che la guerra è lì, non se ne va, ma non piega la volontà di nessuno. Ci mostra una comunità unita, che sfida la morte ogni secondo, che è in condizioni estreme e precarie, ma resiste e resta unita. Un parallelismo, quello tra Aleppo e Sarajevo, che può sembrare strano, ma che è dato dall’attaccamento forte alla vita, alla speranza, alla resistenza dimostrato dagli abitanti di entrambe le città: noi che non abbiamo mai vissuto esperienze del genere non possiamo capire e nemmeno provare a spiegare le motivazioni che spingano a restare e a continuare a lottare in tali condizioni di disumanità.
Contesti e periodi diversi che, però, sono accomunati dalla stessa, triste sorte, quella della guerra. Inutile, infinita, stupida, che colpisce tutti, soprattutto i bambini, vittime inconsapevoli della follia degli adulti. Sama è l’indiscussa protagonista di tutto il film, l’interlocutrice diretta della regista: un racconto in prima persona che è contemporaneamente un’ammissione di colpa, una giustificazione, una richiesta di perdono e un punto di vista nuovo su una guerra sulla quale è stato scritto e detto di tutto, ma non ancora abbastanza per porre fine al massacro (qui i contributi usciti su LucidaMente sul conflitto siriano). Ecco che Sama diventa il simbolo di un futuro, quello della Siria, fragile e indifeso, ma non ancora del tutto perduto.
Le immagini: la locandina e un’immagine del film For Sama. Alla mia piccola Sama.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIV, n. 171, marzo 2020)