Il “piacere” di mangiare secondo la pubblicità, le strategie per farci comprare
La tentazione è forte. Di fronte al piatto fumante, appena portato in tavola dal cameriere, estraiamo il cellulare e scattiamo una bella foto. Qualche ritocco, una frase a effetto e lo scatto è pronto da condividere con gli amici. Intanto nel piatto la cena si raffredda. Una scena ormai comune, in cui si manifesta il nostro modo di rapportarci al cibo. Qualcuno lo chiama food porn, un termine di recente formazione traducibile in italiano come “pornografia alimentare” (vedi Le università del cibo-spazzatura).
No, non si tratta di uno spettacolo vietato ai minori, ma di un modo di rappresentare il cibo come un oggetto del desiderio, invitante, appetitoso, esagerato, capace di stimolare l’appetito di chiunque. L’espressione, nella variante di “gastro porn”, viene introdotta per la prima volta nel 1977 dallo scrittore Alexander Cockburn in un articolo del New York Review of Books, per descrivere la moda dei ricettari dell’epoca. Con l’avvento dei social network il termine ha avuto una notevole fortuna, tanto da essere utilizzato come hashtag su Instagram, Facebook e altre piattaforme. In questo campo è la pubblicità a farla da padrona, a usare e abusare delle immagini del cibo per provocare lo spettatore, attraverso un meccanismo pornografico teso a generare desiderio. Cascate di cioccolata, enormi pizze filanti, hamburger grondanti di salse: gli alimenti che ci vengono proposti sono perlopiù ipercalorici, succulenti, cibi “proibiti” che ci fanno sentire in colpa anche solo per averli desiderati.
Non tutte le immagini del cibo sono pornografiche, ma lo sono quelle create ad hoc per il puro piacere degli occhi, che ci spingono a fermarci nel primo fast food che incontriamo per strada. Così le pietanze appetitose suggerite dalla pubblicità – che sembrano buone, ma buone non sono – comportano alcune conseguenze negative per la salute. Siamo preda di un’eccitazione visiva che ci spinge a consumare più cibo di quello di cui abbiamo bisogno, a prendere con leggerezza la nostra alimentazione, fino a rimandare l’inizio della dieta a un prossimo indeterminato lunedì (leggi Il cibo è malattia, il cibo è salute).
Talvolta il piacere di mangiare si spinge fino all’eccesso. Tra i casi più singolari conviene citare il fenomeno coreano del Mukbang, che consiste nel farsi riprendere mentre si consuma in diretta web una quantità spropositata di cibo. Una pratica – che sta prendendo piede anche in Europa – a dir poco voyeuristica (tanto che in molti sono disposti a pagare per vedere), attraverso la quale il food porn si realizza all’ennesima potenza. Viviamo insomma in un’epoca di grande culto del cibo – lo conferma anche il successo dei numerosi programmi televisivi enogastronomici – ma nello stesso tempo siamo ossessionati dalla forma fisica perfetta, costretti a seguire un canone estetico molto rigido. Questo è uno dei paradossi del nostro tempo che ci vuole consumatori, pronti a comprare l’ultimo cibo spazzatura sul mercato, ma soprattutto magri, belli, senza ciccia e brufoli.
Il food porn è sempre efficace e, quel che conta, è democratico. Chi lo può negare? Le immagini dei cibi attirano la nostra attenzione, ci immergono in un’orgia culinaria, stuzzicano i nostri istinti primari, e sono più che mai sessualizzate: basta accendere la tv, o sfogliare le réclames dei più noti fast food per rimanere ipnotizzati da panini super sexy, cotolette eccitanti e orgasmici piatti di pasta. Food is the new sex.
Alessia Giorgi
(LucidaMente, anno XII, n. 142, ottobre 2017)