I gilets jaunes e gli attivisti di Climate strike sono apparsi inizialmente in contrasto, ma, considerando i loro obiettivi, si può probabilmente affermare che conducano la stessa battaglia
«Voi pensate alla fine del mondo, noi alla fine del mese». Queste le parole con cui i manifestanti dei gilets jaunes (i gilet gialli), il movimento di cittadini che da novembre 2018 scuote la Francia, hanno risposto alle critiche degli ecologisti impegnati nel Climate strike (vedi Greta Thunberg, quando una “teen idol” viene candidata al Nobel per la Pace). La protesta è infatti cominciata per il caro carburante annunciato dal governo di Emmanuel Macron, un provvedimento che ha colpito molti lavoratori della classe medio-bassa, pesando significativamente sulle loro finanze.
Se aumentare il prezzo della benzina contribuisce a ridurre l’uso delle auto e l’inquinamento ambientale che ne deriva, farlo senza un decisivo potenziamento dei trasporti pubblici e mantenendo invariato il potere d’acquisto dei cittadini crea altri tipi di problemi. A subire il costo di una (necessaria) riduzione delle emissioni non devono essere soltanto i ceti bassi e i lavoratori che abitano in periferia, per i quali l’automobile è fondamentale nel destreggiarsi fra lavoro e impegni familiari. L’ondata di manifestazioni sollevatasi in tutta la Francia, fra i tanti e complessi elementi che la compongono, contiene anche questo: una spinta a ripensare un sistema di industrializzazione sano, che protegga al contempo l’ambiente e i lavoratori (La fine del mondo e la fine del mese, Corriere di Como). È dunque possibile conciliare due fra le lotte più partecipate degli ultimi tempi? Lo è, anche se non è semplice. Di sicuro la prospettiva “macroniana” del perseguire allo stesso tempo l’ecologismo e il liberismo economico si è rivelata fallimentare. Agevolare la concorrenza, industrialmente parlando, significa far sì che le multinazionali competano in gran parte tagliando sui prezzi.
Questo non si accorda con modelli di produzione sostenibile e rispettosa, che sono i più costosi e quindi i meno convenienti. Dello stesso avviso anche Nicolas Hulot, ministro francese per la transizione ecologica sotto il governo di Édouard Philippe, dimessosi l’anno scorso a causa dello scarso interesse della presidenza riguardo a questioni ambientali. D’altronde, una sola persona, per quanto capace, non basta a imporre un cambio di rotta. Come ha scritto Laurent Joffrin su Libération: l’ecologismo non è neutro, né una causa comune a tutti i partiti. È fondamentale che l’intero governo assuma politiche “verdi”, riprendendo il controllo di economia e finanza e avviando un profondo coordinamento fra pubblico e privato.
Uno dei temi che coinvolge sia le disuguaglianze sociali sia il contrasto al cambiamento climatico è quello dell’alimentazione: nel mondo più di due miliardi di adulti sono in sovrappeso e 670 milioni di essi sono obesi (Per la prima volta nel mondo la popolazione obesa supera quella malnutrita, greenMe), mentre in aree quali l’Africa centrale e l’India persiste la fame (sofferta attualmente da circa 820 milioni di persone). Questa situazione deriva in larga misura dal monopolio che le multinazionali godono nella produzione e distribuzione agroalimentare: a cibi salutari, biologici, a chilometro zero, vengono sempre più spesso preferiti quelli lavorati industrialmente, più economici e facilmente reperibili (vedi anche Come ci nutriamo importa, eccome!). I prodotti un tempo stagionali o regionali sono ora disponibili a ciclo continuo, grazie all’utilizzo eccessivo di monocolture e agenti chimici che ne favoriscono la crescita. Gli agricoltori non reggono il confronto con i prezzi bassissimi del big food e le loro attività collassano in favore di un sistema capitalista dannoso sia per l’ambiente sia per la salute dei consumatori. Ecco allora uno dei punti da cui partire nel coniugare l’esigenza di una deindustrializzazione e quella di una maggiore regolamentazione delle emissioni ambientali: incentivare le realtà locali e sostenibili.
Timothy Wise, ricercatore dell’organizzazione no profit Small Planet Institute e della Tufts University, ha smentito nel suo ultimo libro il mito secondo cui gran parte di quello che mangiamo proviene dalle macroaziende agricole: il 70% è prodotto da milioni di piccoli coltivatori, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. La grande distribuzione non è dunque l’unico modo per coprire il fabbisogno alimentare della popolazione.
Promuovere un consumo responsabile sarebbe utile per far ripartire un’economia circolare “dal basso”, rispettosa dei suoi attori e della biodiversità. Certo, tutto questo è più facile a dirsi che a farsi. Innanzi tutto si dovrebbe entrare nell’ottica (politicamente svantaggiosa) di remare contro le potenti lobby imprenditoriali, tassandole e imponendo loro regolamenti e divieti. In secondo luogo, ad avviare questo processo devono essere anche i consumatori con le loro scelte di acquisto (Zero Waste: vivere senza sprechi è possibile?). La convinzione che gli ambientalisti del Climate strike siano “gente da salotto” che può permettersi di vivere in maniera sostenibile deve essere messa da parte, anche perché a veder peggiorare la propria qualità di vita, se non si agisce ora, saranno in gran parte le classi più basse. D’altra parte, non si può innescare un cambiamento facendo pesare interamente su queste ultime ancor più se, nel farlo, si strizza l’occhio alle compagnie petrolifere, come ha fatto Macron.
Le immagini: una manifestante in marcia per il clima (Piroschka Van De Wouw/Reuters, da Le Monde) e Nicolas Hulot.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)