In regime di conformismo, riguardiamo quattro opere che denunciano il rischio della barbarie, dell’omologazione a un pensiero unico, della passività
Viviamo tempi di dittatura, neanche tanto strisciante, del politically correct (vedi I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti). Oltre alla denuncia dell’assurdità di tali “ideologie”, che determinano, in ultima analisi, l’impossibilità di dire la verità, può servire la rilettura di alcuni film, diversissimi tra loro, che, in taluni casi volontariamente, in altri meno, denunciano il rischio del conformismo e/o dell’ottusa cecità di fronte a una minaccia mortale per la sopravvivenza di un mondo, di una società e, soprattutto, della libertà umana.
Una comunità pigra, passiva, apatica, insensibile. È quella descritta da George Pal nel suo L’uomo che visse nel futuro (1960), film tratto dal romanzo del 1895 di Herbert George Wells, La macchina del tempo (altro rifacimento cinematografico, meno significativo, del 2002, è The Time Machine di Simon Wells). Il futuro post atomico in cui si imbatte il viaggiatore del tempo è in apparenza un eden ricco e rassicurante, ma i suoi abitanti, giovani, biondi e belli, si disinteressano di tutto. Incolti, privi di strutture sociali e politiche, senza aspirazioni, vivono oziosamente usando il cibo e i beni che trovano inspiegabilmente preparati per loro tra i resti della precedente civiltà, che hanno del tutto dimenticato, assieme alla cultura e alla scienza del passato. Sono talmente apatici che solo l’inventore si dà da fare per salvare la bella Weena che stava per annegare nella totale indifferenza dei suoi compagni.
Alla passività, nei fautori del politically correct del sarcastico Mars Attacks! (1997, di Tim Burton), si aggiunge la tracotanza, la spocchia, l’albagia di chi “ne sa di più”. Sicché è un succedersi di sorrisetti di compatimento verso gli “ignoranti” (i rozzi, i matti, i ragazzini), che “vedono” che i “marziani” non sono buoni, ma sono venuti a prendere possesso della Terra sterminando l’umanità. Ma i sociologi, gli psicologi, i benpensanti, chiudono gli occhi di fronte alla realtà: “Come può volerci distruggere una civiltà tanto avanzata?”. Così i dischi volanti massacrano i terrestri, mentre dal loro interno fuoriesce il tranquillizzante messaggio: “Non scappate, siamo vostri amici, veniamo in pace!”.
Sempre in ambito fantascientifico, è una minoranza di terrestri, delle cui menti ancora non si sono impossessati gli alieni, a cercare di resistere alla “conformizzazione” de L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956, di Don Siegel, più volte rifatto). Qualunque membro della massa conformista è pronto con un urlo angosciante a segnalare agli altri membri la “diversità”, la “non conformità”, la “trasgressione”, rispetto a un agglomerato di individui che si vorrebbe indistinguibile, amorfo, pacificato, perché senza pulsioni, sentimenti, ideali. “Ha capito tutto”… e inizia la spietata caccia al “denunciato”, allo “scoperto”.
Più esplicito sul rischio che, all’improvviso, una società avanzata, colta e tollerante, sia distrutta dalle divisioni religiose e da una fiumana barbarica, è lo struggente Agora (2009) di Alejandro Amenábar. Una narrazione in forma romanzata della fase finale della vita della matematica, astronoma e filosofa alessandrina Ipazia, trucidata dai parabolani, fanatici cristiani, tragicamente somiglianti, col senno di poi, agli attuali tagliagole dell’Isis (vedi Il martirio di Ipazia, vittima del fanatismo). “Ma da dove sono spuntati?” si chiede un personaggio del film quando una nera, immensa, folla occupa per intero le piazze della civile Alessandria. Risponderemmo noi: sono cresciuti a poco a poco, poi tumultuosamente, perché non avete voluto vedere quando si era ancora in tempo per fermarli.
In conclusione, non credete che, ciascuna per un verso, le diseguali opere cinematografiche cui abbiamo fatto cenno ben rappresentino la condizione dell’apparentemente sazio e appagato Occidente di fronte ai pericoli e alle aggressioni che lo circondano (vedi Magdi Cristiano Allam, chiedi perdono!)?
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IX, n. 106, ottobre 2014)
C’è sempre una bella fetta dell’umanità che ha una paura tremenda del progresso, della modernità e in particolare della donna libera; purtroppo Ipazia non è e non sarà né la prima né l’ultima.