Jorge Luis Borges, in un proprio celebre e memorabile racconto, La lotteria a Babilonia (raccolto in Finzioni), immaginò che i destini degli uomini fossero determinati per sorteggio, attraverso una interminabile e complicata lotteria. Giuseppe Costantino Budetta, nel racconto Fiction, che potete leggere di seguito, prende spunto da quel rito ormai non più domenicale, ma praticamente giornaliero, che va sotto il nome di calcio, per lanciarsi in straripanti ipotesi paradossali, l’una susseguente all’altra in una sorta di buffo divertissement palazzeschiano.
La questione è che il racconto di Budetta non è solo un gioco surrealista: in una società come la nostra, ove la finzione e i mass media dominano sulla realtà e sull’umanità delle persone, forse il futuro immaginato dallo scrittore non è poi così tanto lontano. Se, poi, si guarda al finale, coi parlamentari che raddoppiano di numero…
Del resto, Borges non parla del potere incommensurabile che, nel proprio racconto, viene ad avere la Compagnia che gestisce la lotteria?
Si faccia finta di giocare una partita di serie A, di B, o di C. Non importa il numero dei gol. Secondo le nuove norme approvate dall’Uefa e sottoscritte dal Coni, non vale se una squadra vinca una partita di pallone, la pareggi, o la perda. Il risultato è lo stesso. Alla fine, deciderà il comitato di saggi. Così, al termine del campionato, i saggi decideranno a chi spetti lo scudetto, a chi la retrocessione in B, o in C. Viceversa, gli stessi saggi decideranno per le promozioni in A, in B, o in C.
C’era che aveva obiettato – e a ragione – che si dava troppa importanza ai goal, invece c’erano energie occulte e professionalità inespresse che andavano valutare al di là dell’arido punteggio. Per esempio, gli scatti indietro delle ali tornanti a bloccare le sortite degli avversari, oppure i passaggi smarcanti dal centrocampo, i passaggi brevi, le testate con l’effetto che per puro caso non davano il goal. Guizzi di genialità che meritavano il giusto prezzo. Le interviste sui giornali sportivi, su quelli dei gossip, o sui quotidiani locali esprimevano unanimità di opinione: liberalizziamo il calcio. Non più la vittoria di una squadra in base al numero dei goal, ma diamo spazio al merito individuale, esibito nel gioco di squadra. Viva la solidarietà sportiva. Aboliamo le classifiche fuorvianti dei cannonieri. Viva il merito al di là dei goal. Via la spettacolarità, le fratture alle caviglie, i traumi ai menischi e l’agonismo spinto.
In base alla nuove regole, cominciarono ad entrare in campo come titolari vecchi sessantenni, alcuni settantenni e qualche ottantenne di forte fibra. Quasi tutti avevano parenti nel comitato dei saggi, nel Coni e tra i politici influenti. Si fingeva di giocare. In campo, si chiacchierava del più e del meno. Sugli spalti, non c’era nessuno. L’assenza degli sportivi negli stadi era stato previsto. A ogni partita, lo Stato stanziava tot milioni di euro da spartirsi tra le due squadre, più le spese per l’affitto dello stadio comunale e per il trasporto dei giocatori. Provvedeva lo Stato con laute ricompense per l’arbitraggio e i segnalinee, così come per le organizzazioni televisive che fingevano di trasmettere partite. Allo scadere del novantesimo minuto, il club dei saggi riunitosi ad hoc, assegnava via computer la vittoria, il pareggio o la sconfitta a una delle squadre. Il parere dei saggi era inappellabile. La tivù diffondeva i dati e la classifica aggiornata al novantesimo minuto.
I giocatori in campo trascorrevano i novanta minuti parlottando del più e del meno e lasciando fuori campo il pallone. L’arbitro fingeva di non guardare anche per mancanza di falli e i segnalinee giocavano a scopone. Per volere perentorio della terna arbitrale, i giocatori dovevano indossare con meticolosità le magliette, i calzoncini, i calzini e le scarpette della propria squadra: un ordine nel vestire come per i militari in divisa. Se qualcuno dei giocatori non resisteva e voleva sferrare almeno un calcio al pallone, un tiro non pericoloso verso porta, l’arbitro lo richiamava e al terzo fischio lo espelleva. Tutto dipendeva dalla valutazione finale da parte della squadra dei saggi ch’elargiva sentenze come la Sibilla dell’antichità.
I sindacati sportivi proposero di allargare e allungare la superficie di gioco, aggiungendo nuova erbetta, ridisegnando le linee del campo e incrementando la distanza tra le porte. Anziché undici giocatori, potevano scenderne in campo tredici ed anche quattordici, tutti con la retribuzione da titolare. Potenziando il numero degli effettivi in campo, di conseguenza bisognava provvedere ad aumentare quello dei riservisti, dei medici sportivi e degli eventuali raccattapalle. Si dovevano arruolare schiere d’architetti per ampliare gli stadi, visto che il numero dei giocatori era maggiorato fino a quattordici e con essi anche l’area del campo. Il provvedimento fu esteso all’istruzione pubblica (scolastica e universitaria), alle assunzioni dei medici negli ospedali, dei giudici nei tribunali e di tutti gli altri settori del pubblico impiego e nel privato. In politica, proliferarono i posti di assessore regionale, provinciale, comunale.
Il Parlamento e il Senato furono raddoppiati di numero. Qualcuno disse che sarebbe stato logico raddoppiare anche i presidenti della Camera, del Senato e della Repubblica. La democrazia sarebbe andata meglio con più teste pensanti nei posti apicali. L’esempio di liberalizzazione fu eseguito anche nell’aldilà. Via l’inferno e tanto meno il purgatorio. Si va tutti in paradiso. Si faccia finta di essere buoni. La cattiveria non esiste nel profondo. Tutti saranno felici, purché non diano fastidio alla casta dei beati: gli arcangeli, i troni, i cherubini e i santi di nuova nomina.
(Giuseppe Costantino Budetta, Fiction)
In LM MAGAZINE 14, a cura di Viviana Viviani, è apparso un altro significativo racconto di Giuseppe Costantino Budetta: Il colombo palermitano.
L’immagine: la palla è entrata… o no?
Simone Jacca
(LucidaMente, anno VI, n 62, febbraio 2011)