La nomina al Ministero per l’integrazione di Cécile Kyenge fa riemergere le contraddizioni xenofobe della nostra cultura
Il governo Letta, pur rimanendo politicamente indigesto, specialmente agli elettori di sinistra, ha recato un’importantissima novità nella storia repubblicana italiana: un ministro nero, anzi, per la precisione, una ministra nera. Nera e non di colore, come lei stessa ha precisato in un’intervista.
La prima ministra nera della storia italiana si chiama Cécile Kyenge, è di origini congolesi, vive a Castelfranco Emilia, nei pressi di Modena, ed è medico oculista. Appena ricevuta la nomina di ministro ha subito portato al centro del dibattito politico la riforma sulla legge di cittadinanza, richiedendo con forza che in Italia entri in vigore il principio giuridico dello ius soli, ossia il diritto di cittadinanza per ogni persona nata in territorio italiano. Questa proposta, unita alla richiesta di abrogazione del reato di clandestinità, ha generato aspre polemiche, trovando l’opposizione di alcune forze parlamentari come Pdl, Lega e M5s, e anche la disapprovazione di una parte dell’opinione pubblica. Sembrerebbe dunque prevalere in Italia, tra i cittadini e le forze parlamentari, una preferenza per l’attuale principio dello ius sanguinis, ossia il diritto di cittadinanza acquisito alla nascita dal genitore.
Come mai la proposta della ministra susciti tanto scalpore ancora non è ben chiaro. Come d’altronde non è ben chiaro perché mai un ragazzo cresciuto in Italia ma figlio di genitori stranieri debba essere considerato meno italiano di chi ha genitori italiani ma è cresciuto all’estero. Ecco dunque rispuntare fuori da sotto il tappeto la polvere mal celata della xenofobia, sintomo di una cultura estemporanea alla sua stessa epoca. Nell’era della globalizzazione, lo ius sanguinis, diritto peraltro prevalente in Europa, assume i contorni del ridicolo e puzza di medioevale. L’idea che la nazionalità scorra nelle vene e non si respiri nella società civile forse troverebbe miglior collocazione in qualche manoscritto carolingio, piuttosto che nel nostro codice civile.
La xenofobia, la paura del diverso, l’irrazionale paura verso le società multietniche, altro non sono che la moderna evoluzione del razzismo, trasposto dal campo biologico a quello culturale. Non vi sono più razze inferiori ma culture inferioricui è meglio non mischiarsi. Forse per poter capire meglio quanto la nostra cultura affondi le radici nella fanghiglia del razzismo, dovremmo tornare sulle parole della ministra Kyenge: «Sono nera, non di colore».
Proprio su questa espressione idiomatica italiana sarebbe il caso di fermarci un attimo a riflettere. Le espressioni idiomatiche, si sa, sono intraducibili per antonomasia, tuttavia è quasi possibile sempre trovare in altre lingue modi di dire dal significato simile a quello italiano. Non è certo il caso dell’espressione “di colore”. “Una persona di colore” è nella lingua italiana una persona di origini africane. Non ci sogneremmo mai di dire che è un cinese è “di colore”, sebbene abbia la pelle di colore diverso. E, allora, perché usare un’espressione ad hoc per gli africani?
Nel politicamente corretto dell’espressione “di colore” si nasconde in realtà un profondo razzismo. Si considera infatti sconveniente definire una persona nera, è preferibile dire che è “di colore”, senza precisare di quale colore sia questa persona; l’importante è che non si dica che è nera. Probabilmente se un francese o un tedesco sentissero un’espressione del genere, senza conoscerne il significato, penserebbero che stiamo alludendo a qualche povero disgraziato che, a seguito di chissà quale incidente, si ritrova con la pelle di qualche assurdo colore. E invece no, noi alludiamo proprio agli africani.
Dunque, è sconveniente definire una persona come “nera”, perché, così facendo, affermiamo anche la sua inferiorità, in quanto la definiamo come nera e dunque di una razza inferiore. Piaccia o no, è questo il ragionamento che, nell’aura del politicamente corretto, racchiude l’espressione idiomatica “di colore”. Il fatto che sia un’espressione tipica solo ed esclusivamente della lingua italiana ci dovrebbe far riflettere sulle fondamenta razziste della nostra cultura; solo così potremo costruirne di nuove, per far entrare nella nostra futura casa più persone nere e meno persone di colore.
Le immagini: da www.tumblr.com.
Leonardo Sanna
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)