In “Un commissario scomodo” (Sandro Teti Editore) di Ennio Di Francesco, episodi che sembrano tratti da una canzone di Fabrizio De André dedicata ai carruggi genovesi
Un libro molto bello, in parecchi punti appassionante e con tante pagine emozionanti e commoventi, da far leggere sia a chi già apprezza l’azione delle forze dell’ordine, perché vi troverà di che rafforzare il proprio convincimento, sia a chi vi vede solo dei “manganellatori”, in quanto capirà un po’ di più le difficili condizioni e problematicità in cui spesso si trovavano (e si trovano) a operare questi “umili servitori dello Stato”, la loro dedizione, il loro coraggio, che talvolta si innalza fino all’eroismo. In filigrana, la storia d’Italia, in particolare quella, oscura, degli Anni di piombo. Stiamo facendo riferimento a Un commissario scomodo (Testimonianze di Norberto Bobbio e Gino Giugni, Sandro Teti Editore, pp. 336, euro 18,00), di Ennio Di Francesco, di cui la nostra rivista si è già occupata qualche numero fa (Simone Jacca, La battaglia di un poliziotto per giustizia e democrazia).
L’autore è stato ufficiale dei Carabinieri (partendo dal servizio di leva) dal 1966 al 1969, quindi dal 1969 al 2004 ha prestato quasi ininterrottamente servizio presso la Polizia, ricoprendo altissimi incarichi anche a livello internazionale e distinguendosi nella lotta a droga e terrorismo. Di Francesco, inoltre, è stato uno dei leader del movimento per la nascita – ostacolatissima e, in qualche modo, depotenziata “dall’alto” – del sindacato di polizia e per la democratizzazione di tale forza dello Stato.
Dall’entusiasmo per il lavoro in Polizia al prepensionamento – Il volume è diviso in due parti: “Atto primo” (pp. 1-200, capitoli I-X) e “Atto secondo” (pp. 209-326, capitoli XI-XVII). L'”Atto primo” è la ristampa di Un commissario, uscito nel 1990 per Marietti (finalista al Premio Bancarella 1991) e poi riedito da Bur Rizzoli nel 1993, e copre gli anni dal 1965 al 1985. La seconda parte, invece, è un’aggiunta inedita, che ripercorre il periodo 1986-2004, fino alla collocazione “d’ufficio in congedo”, cioè il prepensionamento (!) dell’autore dalla Polizia di Stato, nonostante le straordinarie competenze acquisite, le intatte energie e la voglia di continuare a lavorare per migliorare il nostro Paese. Un accantonamento doloroso, tanto da far scrivere a Di Francesco che «qualsiasi ambiente di lavoro, quanto più gerarchizzato, emargina, elimina direttamente, spinge all’auto-espulsione chi viene percepito come “scomodo” per equilibri e poteri consolidati».
Bravi funzionari dello Stato e poteri occulti – Sotto sotto il libro denuncia, attraverso una miriade di episodi, i poteri paralleli alle istituzioni ufficiali (ad esempio, è spesso citata la P2), poteri occulti costanti nella storia d’Italia, forse soprattutto di quella repubblicana, forze “segrete” che tendono a schiacciare o, quando non si sia in grado di farlo, a limitare tutte le azioni riformatrici e gli individui che, all’interno dello Stato, si muovono con indipendenza, onestà, coraggio, spirito d’iniziativa. Probabilmente ritorneremo presto su tali argomenti. Intanto, Un commissario scomodo è anche un appassionato e talora straziante ricordo dell’eroismo e delle morti di tanti colleghi dell’autore, più o meno famosi, uccisi dalle mafie, dai terroristi, nonché da superficialità e irresponsabilità di taluni “superiori” più o meno occulti e di molti “politici”, in particolare di buona parte della Democrazia cristiana.
Genova per noi… – Tuttavia, in questa sede vogliamo proporre alcuni brani dell’opera di Di Francesco, relativi agli esordi della sua carriera da “poliziotto”. Siamo agli inizi del 1970, a Genova, dove Di Francesco, grazie ai buoni risultati ottenuti nel corso di formazione presso la Scuola superiore di Polizia, ha potuto scegliere di esser destinato in qualità di vicecommissario: la città dove aveva compiuto gli studi universitari. Viene rievocata l’esperienza presso la Questura del capoluogo ligure, con l’assegnazione al servizio notturno. Ed ecco certe situazioni, personaggi, ambienti, che sembrano riallacciarsi alle storie di emarginati collocate nei malfamati carruggi cantate da Fabrizio De André. Forse la realtà descritta da Di Francesco è meno poetica di quella “ricreata” dal cantautore genovese, ma, in ogni caso, vi traspare l’umanità del “poliziotto” e del mondo dei vinti.
Nel primo brano che presentiamo è narrato il momento – emozionante – dell'”investitura” di Di Francesco, in cui è evidente la passione e l’amore dei protagonisti per la professione di poliziotto.
Nel secondo, invece, si tocca l’argomento doloroso dello stato di solitudine e sofferenza nel quale viene talvolta a trovarsi chi opera nelle forze dell’ordine.
Negli altri brani troviamo alcuni efficaci, coloriti “quadri di vita sommersa”, come la definisce l’autore, collocata in via del Campo e dintorni.
Sulla sessantina, capelli argentei solcati da un riga decisa, portamento eretto, il questore di Genova Giuseppe Rebizzi ci apostrofò con caldo accento siciliano: «La vita del poliziotto è una missione! Dovete essere fieri della scelta fatta!». Le sue parole si irradiavano così piene di sacralità da far sembrare quasi normale l’atteggiamento remissivo del capo di Gabinetto. Ci comunicò le nostre assegnazioni: uno all’ufficio politico, due a commissariati di quartiere e io all’ufficio di notturna.
Stavo ancora registrando queste prime impressioni quando entrò nel mio ufficio un uomo dai capelli chiari e dall’età indefinibile. Si presentò cortesemente: era il funzionario che stavo sostituendo. Mi fece capire che non era stato informato. A quella indelicatezza attribuii il suo evidente sconforto e nervosismo. Rimase un po’ parlando mestamente, quasi più a se stesso che a me: perché mai era venuto in Polizia? In questa ingrata amministrazione che, fingendo di applicare la giustizia, fagocita ogni ideale rendendo la vita materialmente e moralmente impossibile? Anche lui aveva cominciato con entusiasmo tanti anni prima. Si era distinto in parecchie occasioni, aveva rischiato la pelle. A cosa era valso? Trasferimenti, sfruttamento, vita spesso umiliante! Superato l’iniziale smarrimento lo contraddissi vivacemente. Lo vidi andare via curvo di un misterioso fardello.
Dopo tre mesi, dal breve mattinale redatto la notte precedente dall’altro collega di turno, avrei appreso che si era impiccato in un’anonima camera di un albergo di periferia. Quello stesso pomeriggio era sceso alla notturna il dirigente dell’ufficio politico, Umberto Catalano, e insieme avevamo aperto i cassetti della scrivania dello sfortunato collega. Una serie di lettere e documenti mostravano come quest’uomo, una volta bravo funzionario, navigasse in situazioni difficili. Rividi con tristezza la sua immagine, ricordai le sue parole. Cosa era accaduto? Cosa aveva fatto l’amministrazione per aiutarlo o richiamarlo quando forse era ancora possibile? In alto si era certo informati della precaria situazione in cui si dibatteva, ma si era pensato solo a sostituirlo, senza neanche avvisarlo, con un giovane funzionario inconsapevole “pezzo di ricambio”. Fedeli al principio che i panni sporchi si lavano in famiglia, l’unico sforzo fu quello di mettere a tacere l’episodio.
Ben pochi seppero che quel commissario capo della notturna aveva subito il suo ultimo trasferimento.
“La Morena”, ossia Doré Pietro, era il più autorevole dei travestiti, un vero soggetto felliniano: spalle da lottatore, opulenti seni di paraffina, lunghi capelli corvini che invano tentavano di nascondere il viso butterato. Un leggero tic gli faceva scuotere la testa quasi ad attirare ignari malcapitati. Era una specie di kapò dei travestiti di via del Campo: si diceva, e non c’era motivo di dubitarne, che possedesse una forza erculea.
Genova Ferdinando, “Sissi” per gli intimi, era tutto il contrario. Con un viso delicato e femminile, lunghe gambe affusolate e il sedere tornito sotto i pantaloni attillati, intralciava di notte il traffico dell’elegante via Roma. Era da un po’ che non si vedeva quando venne in questura ad annunciarci con orgoglio e sussiego che era divenuta donna a tutti gli effetti. Il suo uomo, un noto avvocato, le aveva pagato un’operazione a Casablanca.
E che dire dei vari titolari di night? “Tubetiello”, all’anagrafe La Gaggia, era un napoletano simpatico quanto temuto. Piccolo, gli occhiali spessi e scuri; sembrava uscito da una commedia di De Filippo. Era giunto a Genova senza una lira in tasca, con pochi scrupoli e tanta intraprendenza. I vecchi poliziotti raccontavano la sua prima sanguinosa sceneggiata. Poiché gli veniva negata la licenza di un bar, aveva convocato diversi cronisti sulle scalinate di piazza della Vittoria. Dopo un pubblico comizio sulle ingiustizie della burocrazia che impediva a un “oneste galantomme” di lavorare, con un gesto plateale si era affondato nel ventre un coltello, quel tanto che bastava. Aveva infine ottenuto la licenza. Da allora aveva prosperato, divenendo proprietario di vari locali tra cui il più famoso night dell’angiporto, lo Zanzibar. Uomo implacabile con gli avversari e generoso con gli amici, aveva adottato un simpatico “scugnizzo” dodicenne, Mariuccio, il cui padre era stato ucciso in un regolamento di conti. Conobbi il ragazzo: aveva un viso pulito e intelligente. Parlando con lui pensai a quanta strada avrebbe potuto fare in un ambiente sano; tuttavia, preferiva rimanere lì in via Pré, spesso assieme a Paoluzz’ u’ pazz che gli faceva da maestro, aiutando a fare bidoni sulla vendita di qualche pistola o di sigarette: l’incauto acquirente non avrebbe mai immaginato che dopo aver pagato, al momento della consegna della merce, proprio Mariuccio con quel viso angelico scambiasse rapidamente il pacchetto buono con un altro contenente pietre o segatura.
Una volta lo sorpresero al volante di un’auto rubata che sembrava andare da sé, tanto era piccolo. Parlavo talvolta di lui con Tubetiello invitandolo a fargli cambiare strada. Mi ascoltava attento e pieno di affetto: «Dotto’, parlateci vuje, a me nun me siente!». Quello scugnizzo sarebbe purtroppo diventato uno spavaldo rapinatore.
E la Olga. Una vecchietta di oltre settant’anni, incredibilmente magra e vivace. Nella sua locanda di infimo ordine, nel cuore della buia via San Bernardo, trovava alloggio gente di ogni risma. Eravamo intervenuti una sera, durante un giro di ispezione, richiamati dalle urla che provenivano da lì. Ci era apparsa la scena irreale di questa donna minuta che con un coltello in mano fronteggiava due giganteschi negri visibilmente alticci. Nella loro stanza trovammo della refurtiva che ci permise di tirare le fila di un’indagine avviata da tempo: una banda di uomini di colore terrorizzava il quartiere. Coperti dal buio della notte, assalivano i passanti, infierendo ferocemente su di essi. Li portammo via in manette. Da allora Olga divenne mia ammiratrice. «Dottore, se non c’era lei quella sera magari mi avrebbero pure violentata», ricordava mostrando gli ultimi denti in una smorfia di terrore, o forse rimpianto.
Una notte la Polizia femminile ci lasciò parcheggiata in ufficio una bimba di nove anni trovata smarrita in città, in attesa che i genitori già avvisati venissero a prenderla. Verso mezzanotte la piccola cominciò a piangere disperatamente. Negli uffici, due “clienti”, sospettati di rapina, non attendevano che un nostro momento di distrazione. Alcune “donne della notte”, di tanto in tanto, venivano a consegnare il foglio di via. Fu proprio una di queste, Clara, patetica prostituta quasi cinquantenne, che riuscì ad addormentarla tenendola teneramente fra le braccia. Parlò di sé tristemente. Da una trentina d’anni faceva la vita, dopo la fuga dal paese per una storia d’amore con un uomo sbagliato. Una volta nel giro, era stato impossibile uscirne. Dai marciapiedi più redditizi di quand’era giovane e attraente si era dovuta spostare alle uscite delle autostrade, vendendo il suo corpo appesantito a meno esigenti camionisti. Il suo protettore le aveva mangiato tutto, sostituendola poi con un capitale più fresco. Era piena di acciacchi e le notti gelide erano per lei un tormento. Seguì con occhi pieni di nostalgia la bimba quando i disattenti genitori vennero a “ritirarla”. Si allontanò sommessamente mentre l’alba illuminava spietata il suo viso pesantemente truccato.
(da Ennio Di Francesco, Un commissario scomodo, Sandro Teti Editore, 2009, pp. 29; 31; 40-41; 42-43)
L’immagine: particolare della copertina del libro di Ennio Di Francesco.
Rino Tripodi
(Lucidamente, anno V, n. 59, novembre 2010)