Inchiesta sui rapporti fra la multinazionale del petrolio e l’ateneo più antico e famoso del mondo. Master gratuiti… anzi, no
Fin dal 1957, anno di fondazione della Scuola di Studi superiori sugli idrocarburi da parte di Enrico Mattei, Eni ha rivolto particolare attenzione alla formazione specializzata in ambito oil & gas. Oggi, la «realizzazione di programmi di formazione manageriale e professionale» è affidata alla controllata Eni Corporate University Spa (Ecu), attiva dal 1998 e presieduta dal 2014 da Claudio Granata, stretto collaboratore dell’amministratore delegato Claudio Descalzi. Granata, come riporta il Fatto Quotidiano, sarebbe coinvolto in «un falso complotto-depistaggio […] per condizionare l’inchiesta sul caso Eni-Nigeria» in cui lo stesso Descalzi è imputato per corruzione internazionale.
Nel 2018 la University di Eni ha erogato 838 mila ore di formazione e attivato 13 nuovi dottorati di ricerca, da Cagliari a Pavia. Le strategie comunicative, stando al bilancio 2018, hanno puntato a trasmettere «una visione positiva e ottimistica ai giovani», ad «affermare la capacità di Eni di generare un futuro di innovazione» e «a ribaltare alcuni falsi luoghi comuni». Nel Report di sostenibilità Eni 2018 si legge che la società ha siglato accordi quadro per la ricerca con svariate istituzioni, fra cui il Politecnico di Milano (PoliMi), quello di Torino (PoliTo) e il Cnr. La partnership con il PoliMi «risale al 2008 e ha implicato investimenti da parte di Eni […] per circa 40 milioni di euro». Collaborazione duratura, rinnovata nel 2018 per altri tre anni, con la promessa di Descalzi di un «budget di 23/25 milioni». Inoltre, l’influenza del cane a sei zampe sulla storica università milanese va oltre questi finanziamenti: dal 2015, infatti, Ecu possiede 12.000 azioni (pari al 2,82%) della Graduate School of Business del Politecnico. La collaborazione ha portato all’attivazione di progetti in Angola, Congo, Egitto, Ghana e Nigeria.
La strategia di Eni è di «favorire […] lo sviluppo delle professionalità del settore energetico dei Paesi in cui opera» e l’Africa è sicuramente uno dei principali poli d’attrazione per le sue attività, tant’è che il 34% della formazione di Ecu è stata erogata nel continente africano. E proprio l’interesse commerciale sembra essere il criterio di assegnazione delle borse di studio di Eni Corporate University, riservate, come nel caso della laurea magistrale in Petroleum engineering (PoliTo), a «studenti stranieri provenienti da Paesi di interesse per il business».
Un caso significativo delle partnership siglate dalla società con gli atenei italiani è quello con l’Università degli studi di Bologna. La collaborazione risale agli anni Sessanta: nel 1962, infatti, grazie all’accordo fra l’Alma Mater e la sezione nucleare di Agip (di proprietà del gruppo Eni fin dal 1953), viene costruito il Laboratorio di Ingegneria nucleare di Montecuccolino. Come riporta la Repubblica, nonostante i livelli di radioattività siano ad oggi bassissimi, «c’è ancora l’involucro del reattore nucleare» e «smaltirlo non sarà facile»: un’eredità pesante. Nel giugno 2017 il rettore Francesco Ubertini e Descalzi firmano un «accordo quadro triennale dal valore di 5 milioni di euro per ricerca […] sui temi dell’energia e dell’ambiente». Questo, commenta lo stesso ad, «permetterà a Eni di avere accesso a uno straordinario bacino di competenze in un territorio per noi molto importante». La presenza in Unibo è strategica per la compagnia petrolifera nazionale, che ha stanziato, per il solo primo anno di cooperazione, 1,4 milioni di euro.
Una cifra rilevante, considerato il fatto che nel 2017 l’Alma Mater dichiarava contributi da privati per circa 8,5 milioni di euro. Stando al bilancio sociale 2018, grazie ai finanziamenti Eni sono stati attivati sette workshop e undici contratti di ricerca «ai quali partecipano circa 15 gruppi afferenti a oltre 10 dipartimenti», oltre alla «partecipazione congiunta a bandi competitivi e partenariati pubblico privati». Nella scelta delle tematiche sembra essere riservata grande attenzione a tematiche di sostenibilità e riconversione energetica. Anche se, nel piano d’azione 2020-2023, Eni riserva soltanto l’8% del budget per energia da fonti rinnovabili: appena 2,6 miliardi di euro su 32 totali.
I rapporti tra Eni e l’Università di Bologna sono stati di recente rafforzati da un finanziamento che il colosso energetico ha erogato per due dottorati di ricerca in convenzione con la società nell’anno accademico 2019-2020. Nello specifico Eni sovvenziona due borse di studio in Chimica per la ricerca nel campo della «ossidazione e stabilizzazione di grassi di origine bio» e della «sintesi di bio-eteri, utilizzabili come biofuel avanzati». Questo ha permesso a due dirigenti dell’impresa di sedere nella commissione esaminatrice dei candidati, in qualità di «rappresentanti di ente finanziatore». E proprio in virtù di ciò, inoltre, per Eni «sono integralmente deducibili dal reddito […] i fondi trasferiti per il finanziamento della ricerca, a titolo di contributo e liberalità». Come afferma Chiara Sarnataro, manager rapporti con le università per Ecu, la strategia aziendale è di attivare «dottorati su temi di stretto interesse per l’azienda» perché «alcuni profili ricercati da Eni […] prevedono che il candidato abbia seguito un percorso di dottorato di ricerca su progetti similari a quelli previsti dal ruolo di inserimento». Si tratta, insomma, di «orientare le attività dei gruppi di ricerca accademici verso campi di interesse aziendali».
Sempre presso Unibo, nell’anno accademico 2009-2010 era stato avviato un ambizioso progetto di master in oil & gas per i neolaureati in Ingegneria, caratterizzato da 9 mesi di didattica più 3 mesi di esperienza di lavoro in Eni e l’eventualità dell’assunzione a tempo indeterminato. Non secondario il fatto che il percorso fosse a pagamento (5.000,00 euro), con la promessa che i soldi venissero restituiti qualora l’impresa avesse deciso di assumere effettivamente i ragazzi e le ragazze usciti dal master.
Dunque Eni faceva pagare la sua formazione solo a chi non l’avrebbe utilizzata presso se stessa. Più che lecito in un ambito in cui la conoscenza tecnologica è sinonimo di potere economico, se non fosse che il master è parte dell’offerta didattica di un’università pubblica: la possibilità di proseguire gli studi dopo la laurea in Ingegneria sembra così essere un privilegio riservato a chi può permettersi la quota d’iscrizione o, alternativamente, a chi inizierà una carriera in Eni. Le critiche a un simile modello di istruzione non mancano: il rischio è quello di far perdere al percorso di ricerca la sua completezza accademica in nome di una elevata professionalizzazione che rischia di rendere i laureati obsoleti dopo pochi anni. «Quando la formazione è ritagliata su esigenze specifiche il rischio è di creare eccessiva dipendenza» sottolinea Giuseppe De Nicolao, professore di Automatica a Pavia: un laureato deve avere «la possibilità di “riciclarsi” in un settore che a quell’azienda non interessa più ma alla collettività sì».
Questo articolo è estratto da uno speciale del Progetto Inquinanti, nato dalla collaborazione tra Scomodo. La rivista studentesca più letta d’Italia e Greenpeace Italia e pubblicato sul sito leggiscomodo.org/inquinanti.
Le immagini: la sede Eni di San Donato Milanese (da wikipedia.it); Claudio Descalzi e Francesco Ubertini firmano l’accordo quadro (recoverweb.it e magazine.unibo.it); proteste a Bologna contro la presenza di Eni (www.zic.it).
Edoardo Anziano e Marta Bernardi
(LucidaMente, anno XV, n. 174, giugno 2020)