A Marina di Ravenna e dintorni si mangiano i mitili cresciuti sulle trivelle della multinazionale di San Donato Milanese, anche se sono inquinate da metalli pesanti. Grazie anche alle denunce di Greenpeace e Legambiente, scopriamo qualche dettaglio in più, analizzando cosa contiene realmente questa «specialità culinaria»
Ogni sette anni il Miur, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, promuove interventi finanziati dai Fondi strutturali europei, «al fine di rafforzare il sistema […] della formazione». Nel 2014 è partito il Programma operativo nazionale Ricerca e Innovazione (Pon) per «favorire il riposizionamento competitivo delle regioni più svantaggiate».
Si tratta di progetti molto ambiziosi – la «dotazione finanziaria» ammonta a quasi 1,2 miliardi di euro – suddivisi in 12 «ambiti di applicazione», fra i quali spiccano la chimica verde, la mobilità sostenibile e l’economia del mare. I progetti Pon fanno gola a molte aziende e fra queste c’è sicuramente Eni. La multinazionale italiana del petrolio è partner, insieme ad attori pubblici, dell’università e della ricerca, del progetto Pon Place, finalizzato alla «conversione di Piattaforme Off Shore per usi multipli eco-sostenibili». D’altra parte, Eni sta cercando da tempo di offrire sempre più un’immagine “verde” delle proprie attività sparse in tutto il mondo: meno greggio e più gas, energie rinnovabili, riciclo della plastica, rifiuti trasformati in carburanti, cattura e stoccaggio della CO2 [vedi Guido Fontanelli, La scelta verde dell’energia, in Panorama, n. 34 (2827), 19 agosto 2020]. Ad esempio, il porto fotovoltaico in Sardegna, a Porto Torres; l’avvio del parco eolico di Badamsha (Kazakistan); un accordo con gli Emirati arabi per la ricerca sulla sequestrazione geologica dell’anidride carbonica; gli accordi con Toyota per sperimentare la mobilità a idrogeno.
L’obiettivo finale è rilevante e, se sarà realizzato, lodevole: la riduzione dell’80% delle emissioni nette di gas serra riferibili all’intero ciclo di vita dei prodotti energetici venduti. Tutto questo, però, mentre l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni dovranno rispondere presso il Tribunale di Milano per corruzione internazionale (presunta tangente in Nigeria). Rischi del mestiere, probabilmente…
Intanto l’ammontare del contributo Miur per l’intero Pon Place (durata annuale) è di oltre quattro milioni di euro: una cifra considerevole, che dovrebbe andare a finanziare il notevole tentativo di «lasciare il fondale marino come è stato trovato», evitando di smantellare le basi offshore in modo da preservare le comunità marine che prosperano intorno alle strutture di estrazione. La consapevolezza è che «le piattaforme […] stanno terminando la loro fase operativa in molte aree del mondo»: in quest’ottica, Place viene descritta come «un’importante opportunità per modificare l’approccio al mare e allo sfruttamento delle sue risorse “business as usual”». Quale miglior modo se non affidarsi a un «grande partner industriale del settore oil & gas»? Poco importa se, come ha denunciato Legambiente nel suo dossier Enemy of the planet, il cane a sei zampe è lanciato «verso un futuro di espansione delle estrazioni di petrolio e di gas, che riserva alla fonti pulite solo briciole di investimenti».
La presenza della compagnia petrolifera nazionale all’interno del progetto Place sembra essere piuttosto ingombrante. Molti dei principali partner coinvolti, infatti, hanno rapporti con Eni. L’Università di Bologna ha firmato un accordo quadro triennale nel giugno 2017, dal valore totale di 5 milioni di euro (ne avevamo già dato conto su LucidaMente: Eni, le sei zampe sull’Alma Mater). Anche l’Università degli Studi di Napoli Federico II, che con Eni aveva già «collaborato nell’ambito dell’estrazione petrolifera», ha siglato, nel 2018, un «accordo di collaborazione» della durata di tre anni. E, ancora, un altro accordo quadro lega l’azienda dell’oil & gas a Instm (Consorzio interuniversitario nazionale per la Scienza e Tecnologia dei materiali) fino a settembre 2020.
Questa rete di collaborazioni strategiche permetterà, a detta della stessa Eni, di «traguardare lo sviluppo sostenibile». Una così capillare pervasività della società guidata da Descalzi all’interno di un progetto finanziato con soldi pubblici pone però forti dubbi sulla libertà della ricerca e sul beneficio collettivo dello stesso. Nonostante tutto, Place non sembra sollevare perplessità, al punto che alcuni media, come TeleAmbiente, magnificano il progetto come «programma […] per trasformare i pozzi dismessi in oasi di biodiversità». In realtà, per l’ecosistema marino su cui l’estrazione di gas va a impattare, la situazione è molto più preoccupante. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, delle 47 trivelle entro 12 miglia dalla costa (la maggior parte delle quali di proprietà dell’azienda di San Donato Milanese) è preponderante il numero di impianti la cui concessione «arriverà a scadenza naturale l’01/01/2027» o per i quali «è già stata richiesta una proroga». Segno che, comunque, c’è interesse a continuare lo sfruttamento dei giacimenti adriatici.
Inoltre questo «numero enorme» di impianti estrattivi, come denuncia Legambiente, è la principale causa di «abbassamento del suolo dovuto alla perdita di volume del sedimento nel sottosuolo». Eni ha sì avviato un «piano di decommissionamento che riguarda 33 strutture per circa 150 milioni di euro in tre anni», ma si tratta di spiccioli per una multinazionale che, nel 2019, ha fatturato 69,9 miliardi di euro; altro che «impegno non irrilevante».
«A Ravenna la cozza locale, nata e cresciuta sulle piattaforme Eni, tutelata dallo speciale sistema di protezione di questi siti, è divenuta una specialità culinaria a cui è dedicata una festa che si tiene ogni anno a fine giugno». Tali parole, riportate dal portale d’informazione ambientalista TeleAmbiente, potrebbero facilmente far pensare a uno scherzo. Basterebbe anche solo leggere la scheda informativa del progetto Place per capire che «l’impatto delle attività di rimozione [dei siti offshore, ndr] è ancora sconosciuto» e che, di conseguenza, niente giustifica scientificamente la salubrità delle cozze “made in Eni”. Analizzando il rapporto di Greenpeace Trivelle fuorilegge (2016) si rimane sconcertati: «i sedimenti nei pressi delle piattaforme – si legge – sono spesso molto contaminati» e «l’analisi dei tessuti dei mitili prelevati presso le piattaforme» mette in evidenza rischi per la catena alimentare umana. «I risultati mostrano che […] per questi organismi (appartenenti alla specie Mytilus galloproncialis [la comune cozza appunto!, ndr]), circa l’86% del totale dei campioni analizzati nel corso del triennio 2012-2014 superava il limite di concentrazione di mercurio». Ma c’è di più: «circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa)». I danni potenziali per la salute sono lampanti, se pensiamo che «molti metalli, presenti nei tessuti dei mitili, possono raggiungere l’uomo risalendo la catena alimentare».
Questo articolo è in parte estratto da uno speciale del Progetto Inquinanti, nato dalla collaborazione tra Scomodo. La rivista studentesca più letta d’Italia e Greenpeace Italia e pubblicato sul sito leggiscomodo.org/inquinanti.
Le immagini: la mappa delle trivelle sulla costa romagnola (Mappa trivelle in mare Emilia Romagna – Google My Maps).
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 177, settembre 2020)