Il primo turno delle elezioni presidenziali del 16 settembre scorso si è svolto all’insegna della confusione istituzionale, con uno dei vincitori attualmente in galera. Con gli occhi puntati al 13 ottobre, giorno del voto finale, un’analisi della paradossale situazione politica che pervade, silenziosa, le vie e gli abitanti della capitale. Servizio in esclusiva dal nostro corrispondente a Tunisi
Non si respira un’aria di guerra, a Tunisi. Nella perla del Mediterraneo, taxi gialli e scooter impazziti continuano instancabili a dettare il ritmo del frastuono cittadino, mentre nelle strade del centro colori e fragranze levantine si mescolano alle voci e agli sguardi dei numerosi e pigri avventori di caffetterie e salons de thé. Se non fosse per rari cartelloni propagandistici e sgangherati veicoli con megafoni starnazzanti, nessuno penserebbe di trovarsi in mezzo a una delle crisi politiche più assurde della storia della neonata democrazia tunisina.
Il 16 settembre scorso si sono svolte nel paese le elezioni del presidente della repubblica, dopo la morte, il 25 luglio, di Mohamed Beji Caid Essebsi, in carica dal 2014. Si poteva scegliere tra una rosa di ben ventisei candidati (di cui due donne): un numero elevatissimo, che, anche per chi è abituato alla frammentazione partitica italiana, risulta decisamente ridicolo. È la seconda volta che il popolo tunisino viene chiamato a tale compito, dopo che, nel 2011, la “rivoluzione dei gelsomini” ridusse in cenere la dittatura di Zine El-Abidine Ben Ali, durata più di vent’anni. Tre anni dopo, le prime elezioni presidenziali, vinte appunto da Essebsi, per lungo tempo consigliere del primo presidente della Tunisia indipendente, Habib Bourguiba. Una resa dei conti durata mezzo secolo, se pensiamo che fu proprio il generale Ben Ali a deporre, nel 1987, l’ormai anziano Bourguiba, dopo trent’anni di dominio incontrastato (President Essebsi, a lifetime in Tunisia politics), con un ridicolo golpe bianco appoggiato, forse, da Bettino Craxi e dai servizi segreti italiani. Ben Ali è morto il 19 settembre scorso, tre giorni dopo il voto, in Arabia saudita, il paese che lo ospitava da otto anni, scelto come luogo di sepoltura dopo che la “sua” Tunisia lo aveva deposto.
Un grande confusione regna nella testa degli elettori. Come Ichraf, ventottenne residente nella capitale, con cui è stato possibile avere un confronto sul tema. Benché, in fondo, non gliene importi molto, lei è orgogliosa di poter votare. Le donne, in Tunisia, lo fanno dal 1957 (Women’s Rights in the Middle East and North Africa), e, dal 2017, possono sposare anche uomini non musulmani. Agli occhi di un occidentale, le donne posseggono, qui, più diritti che in altri paesi arabi, anche se – e lo sguardo della ragazza è eloquente – più diritti non significano più libertà. La scelta, in questa votazione, assomiglia tanto a una prigione senza sbarre affacciata su un precipizio, come quelle rese famose dalla serie televisiva Il Trono di Spade. Con il risultato che, secondo Ichraf, si preferiscono le facce più note, habitué della politica o populisti chiacchieroni.
Ayman, giovane artista tunisino, sostiene, con leggero scherno, che nessuno dei media ufficiali aveva previsto il risultato del primo turno. Al ballottaggio erano attesi Youssef Chahed, attuale primo ministro in carica, e Abdelkrim Zbidi, dal 2017 al suo secondo mandato come ministro della Difesa, ma già ministro della Sanità sotto Ben Ali (Portrait de Abdelkrim Zbidi, ministre de la Défense nationale). Politici di professione, al contrario dei vincitori, Kais Saied (18,4%) e Nabil Karoui (15,6%): il primo, professore di Diritto costituzionale all’Università di Cartagine; il secondo, capo dell’importante emittente televisiva Nessma (come riporta sinteticamente il Post). Se, in superficie, Saied può ricordare Giuseppe Conte, le similitudini di Karoui con Silvio Berlusconi vanno ben oltre la professione. Il Cavaliere possiede infatti il 25% del network, e, in quanto a populismo, Karoui, che distribuiva frigoriferi ai più poveri, lo supera di gran lunga. Saied, invece, accarezza la pancia più conservatrice del paese, con temi come l’introduzione della pena di morte e la caccia all’omosessuale. La loro vittoria, però, era prevista dai social, e, con precisione impressionante, da Hassen Zargouini, direttore del gruppo Sigma, specializzato in sondaggi e raccolta dati.
Mentre scriviamo queste righe, ci avviciniamo al 13 ottobre, data in cui il ballottaggio deciderà le sorti dello scontro. Abdel, cinquant’anni, lavora come guardiano in un quartiere borghese ed europeo della capitale, e non sopporta il disordine dilagante, innescato, a suo dire, dall’avvento della democrazia. Rimpiange, in parte, Ben Ali. Molti diserteranno le urne (l’affluenza, al primo turno, si è arrestata al 40%), ma lui, al ballottaggio, voterà per Karoui, come tanti altri. Pur consapevole, come riportano i media, che il «Berlusconi tunisino» si trova in carcere dal 23 agosto, con l’accusa di frode fiscale e riciclaggio di denaro. Il più probabile futuro presidente della repubblica è dunque un detenuto, in un paradosso politico che, in un sorriso isterico, traspare sui volti dei tunisini. Gli stessi che il 6 ottobre voteranno anche per rinnovare il Parlamento. Con la stessa amara disillusione che in Italia, ormai, gustiamo da tempo.
Le immagini: l’ex dittatore della Tunisia Ben Ali (foto concessa dalla Presidenza dell’Argentina, licenza Creative Commons); Nabil Karoui presso la Città della scienza di Tunisi, nel 2010 (foto di TEDxCarthage, licenza Creative Commons).
Federico Tanaglia (da Tunisi)
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)