La raccolta di saggi “Barbarie” (Rizzoli), a cura di Ivano Dionigi, affronta il tema delle relazioni interculturali, interrogandosi sul futuro della civiltà europea
Nel 1918 Oswald Spengler annunciò il crollo della civiltà occidentale, destinata a scomparire per l’azione corrosiva della democrazia e del socialismo: «Oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sentori di un fenomeno […], il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, “il Tramonto dell’Occidente”» (cfr. Oswald Spengler, Il Tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia, Longanesi).
Il filosofo tedesco costruì una “metafisica della storia” imperniata sulla convinzione che le civiltà umane, simili a organismi viventi, «appaiono, maturano, appassiscono e non ritornano più». Le sue suggestive tesi furono successivamente criticate dallo storico inglese Arnold J. Toynbee, il quale affermò che nelle vicende umane non ci sarebbe nulla di ineluttabile e che la sopravvivenza di una civiltà dipenderebbe soprattutto dalla capacità della sua classe dirigente di adattarsi al mutamento del contesto storico, in base all’assunto secondo cui «le civiltà muoiono per suicidio, non per assassinio» (cfr. Arnold J. Toynbee, A study of history, Oxford University Press).
All’inizio del XXI secolo la “profezia” spengleriana sembrerebbe sul punto di avverarsi. E non certo a causa delle idee democratico-socialiste (oggi in declino), quanto per le difficoltà economiche in cui versa l’Occidente e per il costante flusso di immigrati dai Paesi più poveri, che ha generato la cosiddetta «paura dei barbari» (cfr. Tzvetan Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti). Ci sono stati intellettuali – come Samuel Huntington e Oriana Fallaci – che hanno fomentato questo timore, giustificando lo “scontro tra le civiltà” e le “guerre preventive” contro “i barbari”. Ci sono stati, però, anche altri studiosi che hanno provato a comprendere meglio un fenomeno di portata storica, determinato dalla crescente miseria in cui vive un terzo dell’umanità. Di questo ultimo gruppo fanno parte Massimo Cacciari, Franco Cardini, Adriana Cavarero, Sergio Givone, Valerio Magrelli e Stefano Rodotà, che hanno pubblicato la raccolta di saggi Barbarie. La nostra civiltà è al tramonto? (Rizzoli, pp. 188, € 11,00), a cura di Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna.
Il volume riporta un ciclo di lezioni organizzate, nel maggio 2012, dal Centro studi “La permanenza del Classico” ed è corredato, in appendice, da un’antologia di testi. Nella premessa Dionigi chiarisce che per Omero “barbaro” non significava “selvaggio”, bensì «“colui le cui parole suonano bar-bar” e somigliano a un “balbettio”», e che l’accezione negativa del termine è entrata in uso nella società greca soltanto durante le guerre persiane (490-478 a.C.). Nella tragedia Le Troiane di Euripide la “barbara” Andromaca esprime il proprio sdegno contro i “civili achei” che, espugnata Troia, stanno per uccidere brutalmente suo figlio Astianatte, apostrofandoli così: «Greci, vostra è l’idea di ogni barbarie!». Dunque, già il tragediografo ateniese – vissuto nel V secolo a.C. – si rendeva conto che la linea di demarcazione tra “civiltà” e “barbarie” è estremamente labile e va definita con parametri diversi dalla semplice appartenenza etnica.
Tra i saggi contenuti in Barbarie, il più interessante ci è parso Il barbaro necessario di Cardini. Lo storico fiorentino ribalta la prospettiva eurocentrica, alla base della teoria dello “scontro di civiltà”, sottolineando come «nessuna delle culture storicamente indicabili come “barbariche”, dalla gota alla tartara, era obiettivamente inferiore rispetto a quella greco-romana», poiché esse «erano, semplicemente, diverse, con aspetti addirittura di eccellenza». Prendendo a modello una legge varata in Australia nel 1974 a salvaguardia del multiculturalismo, Cardini auspica che anche i paesi europei giungano a tutelare «il mantenimento delle diversità etnoculturali, che senza dubbio sono una ricchezza», contro la mentalità assimilazionista che vorrebbe trasformare la cultura degli immigrati, inducendoli a rinnegare le proprie origini. Il ragionamento di Cardini è, per certi versi, opinabile, perché potrebbe avvalorare il mantenimento da parte degli immigrati di contegni in aperto conflitto con le leggi vigenti negli stati di residenza (ad esempio la poligamia, l’uso del velo integrale, ecc.), ma contiene anche elementi condivisibili, se si considerano altri aspetti culturali: l’alimentazione, la moda, i gusti musicali, ecc.
Il multiculturalismo può rappresentare, dunque, una via percorribile, anche per scongiurare, in prospettiva, il possibile “tramonto dell’Occidente”. Riteniamo più opportuno, infatti, che a livello mondiale non s’imponga un unico modello culturale, ma che coesistano sistemi diversi. Ci pare, in tal senso, paradigmatico dei problemi insiti nelle relazioni interculturali il romanzo milano non esiste (Hacca) dello scrittore Dante Maffìa: nel libro si narrano le traversie di un calabrese, emigrato a Milano per lavoro, che mantiene la propria identità originaria, rifiuta di assimilare la mentalità meneghina e sogna di ritornare al paese natio, anche a costo di rompere i rapporti con la moglie e i figli “nordisti”. L’Italia, del resto, è uno tra gli stati europei in cui maggiormente si è fatta sentire la diversificazione culturale tra aree geografiche e sono insorte assurde discriminazioni nei confronti dei “terroni” meridionali, per lungo tempo considerati dalla maggior parte degli abitanti del Settentrione alla stregua di veri e propri “barbari”.
Sulla crisi della civiltà occidentale, vedi anche le recensioni di LucidaMente delle pubblicazioni di Luigi Iannone: Il lento, triste disorientamento del mondo “globale”; Viaggio nel (cattivo) stile della nostra epoca.
Le immagini: foto di Oswald Spengler (fonte: Archivio Federale Tedesco); le copertine di Barbarie e di milano non esiste.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)
oramai è evidente che ogni cultura porta con se eccellenze, mediocrità o barbarie, il problema è; che metro usiamo per giudicare le nostre culture, autoctone o di immigrazione che siano, chi stabilirà se il crocefisso nei luoghi pubblici è un bene invece il capo coperto delle donne è un male o viceversa?
penso che una società multiculturale dove ogni gruppo etnico o religioso ha le sue feste etniche religiose separate, ha usi e costumi molto distanti, luoghi di ritrovo separati ect ect è una società senza coesione, senza un intento comune è una società che è destinata a soccombere e lasciare il passo alla cultura dominante o meglio dire a quella prepotente.
Samuel P. Huntington ha definito la civiltà come il più ampio raggruppamento culturale riferibile al concetto di identità culturale di un insieme di persone, e in breve ciò che distingue gli esseri umani dalle altre specie animali. Secondo questo autore i conflitti dell’attuale XXI secolo saranno dovuti allo ” scontro di civiltà “, in cui si riveleranno determinanti le differenze culturali, piuttosto che i contrasti di natura ideologica, politica od economica tra i diversi stati.