Tutte le civiltà storicamente determinatesi – ma in particolare ci riferiamo alle civiltà occidentali – hanno sempre teorizzato delle figure “altre”, con la pretesa di attribuire un’alterità ontologica, laddove, viceversa, diversità e differenze erano legate principalmente al particolare momento storico-sociale.
Di volta in volta queste figure sono state lo straniero, lo schiavo, l’eretico, il rivoluzionario, la donna, l’omosessuale, il disabile… ma si potrebbe continuare.
Sarebbe semplicistico e fuorviante riportare la creazione dell’alterità semplicemente all’istinto dell’uomo di rifuggire ciò che non gli somiglia. Bisogna dunque prestare attenzione a non ridurre la problematica del fenomeno dell’intolleranza a una banale dinamica di carattere psicologico.
Certo, il fascino di ricondurre tutto quanto alla paura primordiale dell’uomo verso l’altro è innegabile. Né sono prive di fascino le interpretazioni più squisitamente psicoanalitiche che hanno voluto vedere, per esempio nel razzismo, un delirio di onnipotenza, legato, attraverso dei fili inconsci, al rifiuto della differenza dei sessi e alla paura (e conseguente rifiuto) della castrazione.
Le esigenze del gruppo sociale dominante – In effetti, il concetto di diversità e di devianza non è creazione della società nel suo complesso, ma spesso discende dalle esigenze del gruppo sociale dominante in quella specifica società. L’esigenza primaria è quella di realizzare una forma sociale fortemente gerarchizzata in cui il diverso è collocato in fondo. In siffatta società, peraltro, la presenza dell’altro, del diverso, è funzionale a definire e fissare, per contrasto, regole, forme, abitudini, siano esse fisiche che morali che sessuali, che rientrino in una rassicurante normalità codificata. Per perseguire il risultato di annullare il diverso l’uomo ha usato essenzialmente tre tattiche: la colpevolizzazione; la persecuzione; l’isolamento. La teoria della razza (colpevolizzazione e persecuzione) e gli atteggiamenti nei confronti della follia e della disabilità (colpevolizzazione e isolamento) sono paradigmatici di tali strategie. Ma qui ci interessa esaminare a grandi linee l’atteggiamento culturale e mentale nei confronti dei disabili in due momenti storici fondamentali, complessi e prolungati nei secoli, dai quali è nata la società in cui viviamo oggi: mondo classico e mondo cristiano.
Un’arcana percezione della disabilità – Nell’antichità la deformità era vista come effetto di un tocco divino, momento finale di un percorso iniziatico che accostava l’uomo agli dei. In particolare lo “zoppicare ha un preciso significato: camminare con un solo piede, saltellare, inciampare è universalmente riconosciuto come il simbolo di una asimmetria probabile causa di caduta” (Mario Bacchiega, L’azzoppamento di Giacobbe, in Abstracta, n. 47, 1990). L’effetto della caduta ha un duplice significato esoterico: da una parte chi cade ha un contatto più intenso con la Madre Terra, dall’altra si trova più vicino alle sue profondità che, come si riteneva, occultano il regno dei morti. D’altra parte, non zoppicano anche i vecchi, coloro che sono più vicini alla morte? E’ questo il motivo per cui personaggi iniziatici dell’antichità sono zoppi o hanno un’andatura claudicante. Giacobbe, secondo il racconto biblico, rimase zoppo dopo una lotta mistica con un angelo. Nella mitologia egiziana era zoppo il dio Ptah (dio dell’artigianato, identificato in età classica con Efesto o Vulcano) e Harpocrate, fratello minore del dio Horus, era “debole agli arti inferiori” (Plutarco). Efesto, dio greco del fuoco e della metallurgia, divenne zoppo di un piede dopo che fu scagliato giù dall’Olimpo dal padre Zeus.
La percezione del disabile nel mondo classico – La presenza dell’archetipo dello “zoppo” nel mondo classico (quello greco in particolare) ci induce a riconsiderare alcuni luoghi comuni. Il menomato nei miti e nella realtà classica è visto con un occhio di riguardo, forse con timore, ma anche con una certa considerazione. Abbiamo già visto la rappresentazione di Efesto. Omero è cieco, ed è colui che ha dovuto rinunciare alla visione esteriore per approfondire quello che è dentro di sé. L’epilessia è considerata la malattia divina, incute paura ma anche rispetto, i suoi effetti sono conseguenza del “dono” che consente all’uomo di avvicinarsi agli dei. Quanto detto non è sufficiente per assumere che nel mondo greco esista uno spirito di totale accettazione della deformità. Tutt’altro! Stiamo parlando di un mondo nettamente gerarchizzato secondo le classi sociali, dove prevale un atteggiamento ideale, pratico e filosofico, che unisce indissolubilmente l’aspetto estetico materiale con quello morale. C’è un termine greco per definire tutto ciò, è kalokagathia: l’intima connessione di bellezza e bontà, negazione dunque dell’imperfezione e della deformità. L’atteggiamento che troviamo nel mondo classico nei confronti della disabilità è dunque ambivalente. Si fa spesso accenno, con sgomento, al costume spartano di far morire i bambini nati deformi. Ma l’abitudine di esporre e uccidere i fanciulli (non solo quelli deformi) è comunissimo nel mondo greco come in quello romano. Da questa consuetudine crudele infatti nascono i miti, numerosissimi, di bambini allevati da animali (è celeberrimo quello di Romolo e Remo) e poi salvati.
Le tesi di Burckhardt – Jacob Burckhardt, nella sua monumentale Storia della civiltà greca (Sansoni), ci spiega che la pratica dell’infanticidio o dell’abbandono era diffusa in tutti i ceti sociali e numerose erano le ragioni che potevano esserne causa. Tra queste annoveriamo: essere l’ultimogenito di una prole numerosa, essere di sesso femminile, essere nato in una situazione di carestia, essere stato oggetto di presagi o profezie minac-ciose e, infine, essere nati storpi o deformi. Pertanto, l’abitudine di sopprimere i deformi sarebbe effetto della particolare crudeltà e miseria dei tempi e non da un pregiudizio discriminatorio. Volendo approfondire, sempre dall’opera dello storico svizzero ricaviamo l’idea di una civiltà greca pervasa da una concezione esistenziale profondamente pessimistica, in cui la percezione della morte era profondamente diversa da quella di noi occidentali. La vita in sé, vista come una sequela di dolori inevitabili, non aveva valore alcuno: il non essere era ritenuto preferibile all’essere e il morire giovani un compenso che gli dei concedono agli eroi. In quest’ottica la morte, regalata a un infante deforme, poteva essere vista come un gesto di pietà più che come un atto di incomprensibile crudeltà, come appare a noi moderni.
La percezione del disabile nel mondo cristiano – Diverso è l’approccio del pensiero e della mentalità cristiana nei confronti della malattia, della deformità e della disabilità in genere. Se, da una parte, c’è un atteggiamento di compassione nei confronti del menomato, dall’altra il disabile è collocato ad un livello di inferiorità, non solo fisica ma anche morale rispetto alla normalità. I disabili non sono delle persone a tutti gli effetti, bensì degli strumenti con i quali esercitare la carità. Nel Medioevo, periodo storico in cui il pensiero cristiano fu maggiormente totalizzante in termini di influenza nella società a tutti i livelli, il menomato è collocato tra i paria della società. Tra questi troviamo, prima di tutti, gli eretici e gli ebrei, quindi vengono, in un tutt’uno pressoché indistinto, gli stranieri, i vagabondi, i mendicanti, i menomati, i deformi. Non esiste una sensibile differenziazione fra queste ultime categorie, identificate dall’elemento comune di vagare senza fissa dimora. Per questo sfuggono all’ansia di controllo di una società tradizionalista e nello stesso tempo profondamente insicura e pertanto rappresentano l’ignota alterità da evitare e da cui rifuggire in quanto fonte di pericolo.
Ghetti e lazzaretti – Quando è possibile, l’altro deve essere identificato, controllato, recluso. Agli ebrei, il IV Concilio Lateranense (1215) impone di portare come segno distintiva la rotella rossa. Anche i lebbrosi devono essere facilmente individuabili e allora li si obbliga a fare rumore con la battola, una tavoletta di legno con maniglie mobili di ferro, in modo che creino il vuoto intorno a loro. I lebbrosi, in quanto individui impuri, devono utilizzare la battola, non campane o campanelli, si noti bene, il cui uso, in qualche modo legato alla liturgia sacra, è loro precluso. Risalta anche l’altro aspetto, quello della reclusione e del controllo. Nel Medioevo c’è un proliferare di lazzaretti, i quali sono collocati “a un tiro di pietra dalla città”, abbastanza distanti da non turbare la popolazione, ma neppure troppo remoti. La società medievale ha bisogno del diverso, sia per rafforzare la propria idea di normalità, sia per esercitare la carità e di conseguenza sentirsi nello stesso tempo pio e superiore rispetto al disabile. Analoghi atteggiamenti sono assunti nei confronti degli israeliti. Gli ebrei sono isolati e odiati (anche se la realizzazione dei ghetti sarà prevista solo dal Concilio di Trento e dalla Controriforma), ma nello stesso tempo indispensabili alla società medievali per la loro funzione di prestatori di denaro a usura. Nei momenti di crisi (carestie e pestilenze) ebrei e lebbrosi – ma anche poveri e storpi – fungono da capro espiatorio, sono perseguitati e quindi uccisi. Lo storico medievale Jacques Le Goff, in La civiltà dell’Occidente medievale (Einaudi), ci racconta: “Dopo la grande carestia del 1315-1318, gli Ebrei e i lebbrosi furono perseguitati in tutta la Francia e sospettati di avere avvelenato pozzi e fontane”. Il diverso dunque, suo malgrado, assume su di sé il male del mondo con funzione evidentemente liberatoria per la società che lo ha creato.
La vicenda di un imperatore senza naso – La menomazione (e la malattia in genere) rappresenta una diminuzione dei diritti della persona. Quando nel 1346 è fondato il Collegio dell’Ave Maria a Parigi, sono esclusi dai borsisti gli adolescenti che presentino deformità. La Chiesa inoltre non conferisce gli ordini sacri agli infermi e alle persone deformi (zoppi, ciechi, gobbi, ecc.). A Bisanzio l’imperatore deve essere espressione della perfezione in terra, anche dal punto di vista fisico. Ciò è coerente con l’idea che la forma esteriore sia immagine e specchio di quella interiore. Non è dunque ammissibile che l’imperatore abbia menomazione alcuna. Per questo motivo, se ci si vuole liberare di un avversario, è sufficiente tagliargli il naso. Questa pratica è abbondantemente utilizzata a Bisanzio nel VII secolo, sino a Giustiniano II (al trono dal 685 al 695 e dal 705 al 711). Questo imperatore, a seguito di una congiura, fu deposto e subì l’amputazione del naso e l’esilio, ma non si arrese. Servendosi spregiudicatamente di alleati bulgaro-slavi, si riprese il suo trono dieci anni dopo la deposizione, a dispetto dell’orribile mutilazione. Passò alla storia come Giustiniano II “rinotmeto” (dal “naso tagliato”). L’inesauribile sete di potere dell’imperatore era riuscita a vincere una convinzione e una tradizione che parevano insormontabili. Questi pregiudizi trovano ampia rappresentazione in testi sacri e profani. Per Agostino i sordi sono esclusi dalla fede in quanto, secondo la frase di Paolo: “La fede deriva dall’ascolto” (Contra Iulianum, 3, 4). D’altra parte il Vangelo di Giovanni non esordisce proprio con le parole “In principio era il Verbo”? Secondo Gregorio Magno un’anima sana non albergherà mai in una dimora malata, quindi un uomo dal corpo deforme (zoppo, cieco, gobbo, ecc.) non poteva prendere gli ordini sacri. Una credenza medievale vuole dare a intendere che i deformi e i ciechi sono tali perché concepiti nei giorni sacri (che non dovevano essere macchiati dalla lussuria). Nel Malleus Maleficarum (il noto testo inquisitorio) è prospettata l’ipotesi che i deformi siano il frutto del rapporto carnale con i demoni.
I pregiudizi nell’età moderna – Questa convinzione trova dignità letteraria nella rappresentazione di Calibano, scaturito dalla fantasia di Shakespeare, descritto ne La tempesta (The Tempest) come “schiavo velenoso generato dal demonio in coppia con… madre scellerata”. L’influenza di tali tradizioni la si riscontra anche in Lutero, per il quale i bambini portatori di handicap “sono soltanto un pezzo di carne dentro cui non c’è alcuna anima”. Ma anche in tempi laici e più recenti, quando si vuole offendere e distruggere l’immagine di una donna come madre, la si descrive in veste di partoriente di deformi. I giornali dei primi anni della Rivoluzione francese parlavano in questi termini dell’ex sovrana Maria Antonietta: “La si accusava apertamente di voltolarsi nel fango con dei domestici, e si era imbarazzati a distinguere chi fosse il garzone che aveva fabbricato gli aborti storpi, gobbi e bacati usciti dal suo triplice ventre grinzoso”. Storpi e gobbi, dunque, sono i figli del mostro del momento, la belva austriaca, la defunta regina, odiata perché straniera, oltre che in qualità di rappresentante dell’Ancien régime.
L’immagine: in memoria di Luca Coscioni e del suo impegno morale e civile.
Antonio Tripodi
(LucidaMente, anno I, n. 10, ottobre 2006)
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