È uscito nelle sale cinematografiche “Miele”, opera prima di Valeria Golino, che affronta il tema della “morte dolce”, mettendo a fuoco le sofferenze dei malati terminali
Il tema dell’eutanasia ricorre sovente nella cinematografia contemporanea. Tra i film più recenti che ne hanno parlato ricordiamo, oltre a Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio (cfr. Un grande film, “Bella addormentata” di Bellocchio, in www.lucidamente.com), anche il bellissimo Mare dentro (2004) di Alejandro Amenábar (cfr. Come il cinema mostra i disabili, in www.lucidamente.com), Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood e Onora il padre e la madre (2007) di Sidney Lumet. Anche l’attrice e regista Valeria Golino ha affrontato questa delicata questione nel suo primo lungometraggio, intitolato Miele, che è uscito ai primi di maggio nelle sale cinematografiche italiane. Liberamente tratto dai romanzi A nome tuo (Einaudi) di Mauro Covacich e Vi perdono (Einaudi) di Angela Del Fabbro, il film narra la storia di Irene (interpretata da una brava Jasmine Trinca), una trentenne romana che aiuta a morire le persone gravemente sofferenti, praticando clandestinamente il suicidio assistito.
Irene – il cui nome d’arte è “Miele” – somministra ai malati terminali un potente barbiturico, usato in veterinaria, che si procura con periodici viaggi in Messico, potendo contare anche sull’apporto di operatori del mondo sanitario. Miele non agisce, però, solo per motivi umanitari, ma anche a fini di lucro: infatti, si fa pagare le proprie prestazioni. Improvvisamente, però, la sua vita viene sconvolta dall’incontro con un ex ingegnere, anziano e depresso (interpretato da un magistrale Carlo Cecchi), che, pur non soffrendo di alcun malanno, vorrebbe ugualmente essere aiutato a suicidarsi. Tra i due, dopo molte incomprensioni, nascerà un’affettuosa amicizia, che finirà per mettere in discussione le convinzioni etiche della protagonista, inducendola a operare una sorta di metamorfosi esistenziale che la porterà a non praticare più l’eutanasia.
Dopo aver interpretato come attrice oltre trenta film, la Golino si è cimentata con successo anche dietro la macchina da presa, con un’opera prima di ampio respiro, convincente sul piano dei contenuti e valida sotto l’aspetto formale, con il corredo di una buona colonna sonora. La neoregista ha affrontato l’argomento dell’eutanasia senza forzature ideologiche, né edulcorate commiserazioni, bensì focalizzando – con crudo realismo – il dramma e la solitudine di chi vive un’esistenza segnata dal dolore, insieme alle sofferenze dei congiunti. Il film, che sta riscuotendo i consensi della critica e del pubblico, serve a riflettere sulle ragioni di chi si batte affinché venga approvata una legge sul finis vitae (Per un’eutanasia legale), contrastando così l’eutanasia clandestina, assai più diffusa di quanto si pensi (cfr. Malati terminali: il 62% muore aiutato con l’eutanasia clandestina, in www.blitzquotidiano.it/).
Le immagini: la locandina del film e foto di Valeria Golino (fonte: www.flickr.com; autore: Gaetano Del Mauro.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)
Ma come si fa a sostenere che il 62% dei malati terminali in Italia muore per eutanasia clandestina?! Chi lo dice non sa cosa dice! La verità è che nei reparti di rianimazione il 62% dei decessi, nelle ultime 48/72 ore, è frutto di decisione medica, cioè di desistenza terapeutica, cioè di quella che impropriamente si chiama “eutanasia passiva”. Se fosse vero che il 62% dei malati terminali (circa 250.000 ogni anno in Italia) muore per eutanasia noi saremmo il Paese della “dolce morte” ma non è affatto così!! Certo è che anche la desistenza terapeutica non dovrebbe essere una decisione medica ma la conseguenza di una decisione precedentemente espressa dalla Persona.
Gentile lettrice,
mi sono attenuto ai dati forniti dall’Istituto Mario Negri e dall’Associazione Luca Coscioni, che sono stati riportati nell’articolo “Malati terminali: il 62% muore aiutato con l’eutanasia clandestina”, pubblicato su “www.blitzquotidiano.it”, in cui si sostiene che «sono 80-90 mila i malati terminali che muoiono ogni anno, soprattutto di cancro: il 62% muore grazie all’aiuto dei medici con “eutanasia clandestina”». Quindi, stando a queste indicazioni, i casi annui di “eutanasia clandestina” sarebbero tra 49 mila e 55 mila circa.
Ho frequentato per una decina d’anni la sala di rianimazione di un ospedale bolognese, reparto fisiopatologia respiratoria.
Non periodicamente, ma giornalmente, assistendo un mio familiare ammalato, ho visto gente entrare nel reparto di terapia intensiva e altra gente morire, con costanza quasi quotidiana.
Ho avuto modo di conoscere gli altri pazienti, o meglio i parenti degli altri degenti.
Ognuno di questi si augurava per il proprio caro ammalato l’eutanasia, ma nessuno ha mai praticato il suicidio assistito. Come fate a dire che il 62% dei malati terminali muore per suicidio assistito?
Di persona ho assistito, nell’arco di un decennio, ad un accanimento terapeutico, al quale mi sono opposta con tutte le mie forze, per desiderio del mio malato (ma anche mio, è inumano soffrire a certi livelli per anni) ma non è stato osservato nemmeno questo desiderio.
Di fatto le cure son state sospese quattro ore prima del suo decesso.
Questa è la realtà negli ospedali italiani.
Forse questo 62% non è mai entrato in un ospedale… al che mi chiedo come si possa fare una statistica.
Il termine “eutanasia clandestina” è fuorviante. Come dire che l’aborto clandestino di un tempo (pre legge 194, cioè praticato da mammane o in cliniche di lusso non legittimate a farlo) fosse fatto in strutture ospedaliere pubbliche come agevolazione di un aborto spontaneo. Ma il termine è stato ripreso, non inventato dal nostro coordinatore editoriale Licandro. Cattivo giornalismo (come terminologia scandalistica) è, pertanto, quello di “www.blitzquotidiano.it”. Ci sarebbe un fenomeno di “Eutanasia clandestina”, alla lettera, se in Italia ci fossero centinaia di centri “Dignitas” del tipo svizzero, che praticassero la dolce morte… come una volta c’erano le cliniche per l’aborto.