L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori garantisce l’equità sociale. Ma si vuole farlo passare per una norma demodé
Nel 1882 il romanziere Georges Ohnet scriveva Il padrone delle ferriere, un feuilleton indigesto, zeppo di sciocca brutalità e di disprezzo per gli “schiavi” delle fabbriche da parte della classe dirigente. Si era in piena rivoluzione industriale (la seconda a detta di taluni, la specializzazione della prima, a parere di altri) e non c’era tanto da fare gli schizzinosi. Ma il romanziere trova modo di commuoversi di fronte alla crudeltà di quel sistema, sostanziando in qualche modo la sua denuncia. Ebbene, sembrava che, dopo tante lotte sociali, dopo tanti proclami progressisti, quel triste periodo fosse stato definitivamente superato. Anche il lavoratore più umile, nel sistema moderno, vede salvaguardata la propria dignità di essere umano.
Si sa, il famoso articolo 18 è un po’ una foglia di fico dietro la quale si nasconde di tutto. Emma Marcegaglia, ad esempio, che possiede una capacità concettuale non all’altezza di quella discorsiva (tanto da sconfinare in semplicismi e in qualche apprezzamento da bar), ci vede quasi solamente dei lazzaroni, difesi pigramente da un sindacato in chiara crisi d’identità. Come se milioni di operai stessero tutto il giorno a tramare contro chi dà loro da mangiare. Ce ne sono che fanno i comodi loro, ma è la solita eccezione (che c’è ovunque e in qualunque caso) che conferma la regola (e comunque “i lavativi” possono essere licenziati per “giusta causa”). Sergio Marchionne ha fatto di più: ha legato gli operai alla catena, senza tanti complimenti. È la globalizzazione, bellezza! Allora, nel governo rispunta l’umanità pelosa: si pensa all’abolizione del famigerato articolo, dando in cambio una sorta di vitalizio più una promozione professionale moderna, attenta a ciò che vuole il sistema (come se in Italia fosse facile) e una mobilità secondo il talento (il talento!). Ne verrebbe una spersonalizzazione totale del lavoratore e la sua promozione a oggetto di cui avere cura, perché in fondo conviene (il lavoratore consuma anche).
Insomma, l’art. 18 è acqua passata, perché, in questo oceano di nefandezze globali, conta oliare il meccanismo per mantenere in piedi un sistema che fa bene solo ad alcuni. Tuttavia, il sistema fa acqua da tutte le parti, rischia seriamente di collassare. Pochi, in odore di criminalità, stanno mandando tutto in malora, persino se stessi. In tutto questo, infierire sui poveri, pensare di riportarli all’età della pietra per risolvere i grandi problemi, è una vera e propria follia di cui ci si dovrebbe vergognare. Mentre si discute dell’art. 18, di come trovare il modo di far digerire il suo annullamento, con pillole e supposte (le seconde sempre più minacciose per dimensioni), un’altra Italia si ingegna a portare i capitali all’estero (si vedano le file verso Chiasso), per corrompere, per non pagare le tasse, per farsi gli affari propri alla faccia di coloro che devono stringere la cinghia, anche per questi “signori”. L’Italia non funziona davvero e c’è chi può arrangiarsi. Riforme strutturali non se ne vedono. I palliativi sì. L’Italia (ma anche l’Occidente, di questi tempi) va avanti a palliativi, quando va bene. Questo governo, in merito, si è rimboccato le maniche, come da tempo non si vedeva. Ma non è una consolazione.
LucidaMente si è già occupata della difesa dei diritti dei lavoratori coi seguenti articoli: Mariella Arcudi, Una strage infinita: i morti sul lavoro!, in LucidaMente, anno III, n. 27, marzo 2008; Francesco Fravolini, Più crisi economica, meno diritti per i lavoratori, in LucidaMente, anno VI, n. 68, agosto 2011; Mariella Arcudi, La Fiom per i diritti sociali, in LucidaMente, anno VII, n. 73, gennaio 2012.
Dario Lodi
(LucidaMente, anno VII, n. 75, marzo 2012)
Comments 0