Una poesia romantica di Aleardo Aleardi ci consente di percepire la contemplazione e la partecipazione all’inesplorabile Mistero esistenziale. Al di là delle fantasiose denominazioni degli dèi, è forse questo a costituire il divino?
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Nella tradizione della lingua scritta e soprattutto di quella “alta”, che individuiamo come letteratura, uno dei tòpoi, degli argomenti più trattati, è il divino, con tutti i più svariati dèi visti nel vasto campo semiotico che li concerne. E l’antropomorfismo è d’obbligo, nella sua banalità e nella sua impotenza a sfuggire alla forza di attrazione della mimesi umana, che odora di sensi e di quotidianità, di replica surrettiziamente idealizzata e di strabismo logico.
Il dio e il suo plurale, gli dèi, sono la tappezzeria della display-room di una certa fenomenologia umana che troviamo a tutte le latitudini e in tutti i tempi: si tratta di puri concetti meta-fisici ma viziati da patologie nevrotiche che mostrano poco il meglio e molto il banale e il peggio della natura della specie umana. È una processione di burattini che si muovono sullo sfondo della caverna platonica, ognuno di essi immaginato come paradigma di particolari dati o ambizioni o fobie umane. Ve n’è per tutti: creatori come Brahaman o Jeova o Odino, distruttori come Shiva, tutelanti come Krishna, vendicatori come le Eumenidi o Kalì, consolatori come Gesù, Maria e Allah, tentatori come Mara o Satana, limiti agli stessi dèi come Ananke, o caratterialmente deboli come nella ftenos teòn, l’invidia degli dèi per la felicità degli umani.
In questa incongrua congerie di personaggi fantasiosi si trova qualsiasi dio che in generale il credente riconosce, accetta con salmodianti sottomissioni e nel cui nome viene manipolato dalle attente e ambiziose caste sacerdotali. Ma in questa congerie trova, ahimè, ospitalità anche l’ateo che le rifiuta e le contesta come se si trattasse di entità situazionali “reali” e non di ectoplasmi paraculturali, etnici o animistici. Se gli ufo sono fantasia, non si accettano e neppure si contestano. Sono puro folklore, punto. E così i paralogismi sul divino.
Il rapporto tradizionale tra un qualsiasi credente e un qualsiasi dio/dea/dèi e dee è un rapporto di scambio, sinallagmatico, di do ut des: io ti chiedo qualcosa ma in cambio a mia volta ti adoro perché conosco le tue debolezze, e ti offro sacrifici, e mi sottometto a te e proclamo le tue virtù, e ti riconosco l’unicità del tuo potere e del tuo sapere, e propago la tua dottrina, cose che non farei affatto se sapessi che tu non sei in grado di soddisfare le mie esigenze. Insomma, il credente, piaccia o meno il termine, si prostituisce al suo dio e considera ciò cosa nobile. Non c’è dio che faccia eccezione a questa incestuosa, asimmetrica e illiberale interrelazione. Il rapporto dei credenti con gli dèi passa sempre attraverso un filtro condizionante che si chiama religione, un rapporto diseguale tra predatori (il clero) e prede (le masse acritiche), tra dogmi e umilianti sottomissioni, tra dottrine e abdicazione alla libertà di pensiero, tra liturgie e comportamenti a dir poco ridicoli.
Essendo questa una realtà ben acquisita dinanzi ai nostri occhi, ci piace constatare che al di fuori di questo penoso perimetro, esistono esseri in cui, senza minimamente soggiacere a quanto già esplorato, sentono e interiorizzano il Vivere e il Mistero che ci ospita e ci intriga, la indubbia interconnessione di tutto con tutto che genera una vibrazione interiore di immensa apertura al nostro personale mondo delle emozioni e dei sentimenti che, pervadendoci, ci dona la nostra preziosa parte di Mistero. Perché il viverLo e percepirLo, anche se non ci è dato penetrare il Suo senso, è di per sé un dono, il più grande dono che possiamo attenderci da una esistenza intimizzata.
E in questo contesto di credenti e di atei legati alle facce che noi stessi diamo al dio o agli dèi, la letteratura romantica italiana ci offre una traduzione di quel mistero ma reso con pensiero estatico, meraviglia innocente e presenza testimoniale. Mi riferisco alla poesia di Aleardo Aleardi – nato proprio in questi giorni, il 14 novembre, di 201 anni fa (Verona, 1812-1878) – intitolata Che cosa è Dio? In essa, il nostro “cuore-mente”, per dirla coi buddhisti, al di fuori di qualsiasi esercizio logico, in modo attonito chiede alle stelle: «“Dite, o luci belle, / ditemi, cosa è Dio”? / “Ordine”, mi rispondono le stelle». E, poi, di fronte allo spuntare dei fiori nel risveglio della natura, il poeta chiede ancora: «”Dite, o bei colori, / ditemi, cosa è Dio?” / “Bellezza”, mi rispondono quei fiori». E quindi, con quel pathos empatico che può donarci sia felicità che dolore, e che rappresenta la calda lacrima dell’Io, domanda al suo/nostro prossimo: «Io chiedo al lume della tua pupilla: «“Dimmi, se il sai, bel messagger del core, / dimmi, che cosa è Dio?” / E la pupilla mi risponde: “Amore”».
Ignoriamo un termine troppo contaminato, banalizzato e infantile come “dio”, simbolo letterario astratto e mezzo intimidatorio indispensabile al dominio delle religioni, e valutiamo se gli attributi – Ordine, Bellezza e Amore – di questa poesia che non ha nulla di confessionale e che può valere a qualsiasi latitudine, possano ben essere i propilei di quel Mistero che ci affascina e ci affratella senza disturbare ragione e pensiero. E lasciando ai credenti di qualsiasi religione i loro mantra catechistici, ci piacerebbe pensare che i noncredenti, e ancor più gli atei, senza nulla togliere alle loro convinzioni, potessero dire di questo Mistero di cui facciamo tutti integralmente parte: è giusto naufragare in questo mare.
L’immagine: Ritratto di Aleardo Aleardi (1850 circa, olio su tela, cm 177,8 x 132,8, collezione privata), opera di Domenico Induno (Milano, 1815-1878).
Paolo Bancale – dall’archivio di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica»
(LM MAGAZINE n. 27, 18 novembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 95, novembre 2013)
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