La “Prefazione” del nostro direttore, Rino Tripodi, al romanzo “Un sogno chiamato Vittoria” di Emanuela Susmel
Stupori ed emozioni infantili, trucchi del destino attutiti dall’amore, ritmi narrativi coinvolgenti e appassionanti, valori eterni… Stiamo parlando del romanzo Un sogno chiamato Vittoria (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 284, euro 14,90) di Emanuela Susmel, quattordicesimo volume della collana di narrativa La scacchiera di Babele. L’opera è preceduta da una Prefazione del nostro direttore Rino Tripodi, intitolata I delicati intrecci color pastello di Emanuela Susmel, che proponiamo per intero ai lettori.
Sedetevi comodamente sulla poltrona, oppure sdraiatevi sul divano, o sotto l’ombrellone in spiaggia (se è estate), o sul vostro letto, tranquilli, accendete una lampada dalla luce soffusa… e cominciate a leggere Un sogno chiamato Vittoria di Emanuela Susmel.
Il romanzo della narratrice bolognese, infatti, richiede innanzi tutto che non si abbia fretta, che ci si lasci talvolta condurre indietro di qualche decennio, che si sia aperti a cogliere i sottili riverberi dei sentimenti, i palpiti del cuore e della mente, le insopprimibili pulsioni degli affetti e dell’anima, la straripante musica dell’esistenza.
I ritmi dell’opera sono affascinanti, allettanti, avvolgenti; seducono il lettore, sorretti pure dall’abile costruzione della vicenda, caratterizzata da sapienti salti e andirivieni temporali, flashback, ellissi, che creano un mistero e quindi un’atmosfera di attesa del suo disvelamento, coi fili dei destini, i magici reticoli di corrispondenze, che appaiono dapprima lontani, distanti, irrisolti, e che invece finiscono inesorabilmente per intrecciarsi. E il meccanismo finale è uno dei più antichi delle narrazioni (comprendendo anche l’epica e il teatro) di ogni epoca: l’agnizione, il riconoscimento.
Il sogno del titolo – scoprirà il lettore – è il desiderio che tanti protagonisti del libro vorrebbero realizzare. Peraltro, sulle sequenze narrative prevalgono quelle interiori o, a tratti, quelle dialogiche.
Lo spazio dell’interiorità, infatti, è predominante: l’autrice penetra in quelle dei tanti personaggi con abilità e delicatezza, tratteggiandole con delicati colori pastello. E i dialoghi sono attenti, costruiti nei minimi dettagli. D’altra parte, ciò che caratterizza Un sogno chiamato Vittoria è la cura dei particolari, l’attenzione a ogni rifinitura esterna o interiore, il che, di quando in quando, sembra quasi dare un sapore minimalista al libro.
Nella cornice narrativa complessiva ed entro le modalità appena individuate, si collocano una serie di tematiche. Innanzi tutto la forza dei legami familiari, a volte ancestrali, altre volte più “quotidiani”, eppure sempre travolgenti e in grado di sorreggere anche interiormente vari personaggi: «Riprendeva allora a urlare e tutto ciò che udiva era una voce femminile che gridava il suo nome a squarciagola. D’un tratto, i suoi occhi sbarrati iniziavano a vedere dapprima un naso dalle fattezze delicate e, un po’ più su, un paio di occhi in un primo momento verdi come la speranza; poi azzurri come una distesa infinita di mare pulitissimo. Qualunque tonalità di colore avessero, erano e restavano identici ai suoi».
Insieme, c’è il mondo dell’infanzia, descritto con amore e rispetto e soprattutto con la grande capacità della scrittrice di rappresentare i pensieri, i timori, i sobbalzi di piccole anime, delicate, fragili, indifese, voci fioche e smarrite, e, quindi, proprio per questo, più esposte all’insensibilità e alla violenza degli adulti e del mondo. È straordinaria soprattutto l’abilità della Susmel nel penetrare e riprodurre i pensieri (talora, nei momenti più drammatici, persino convulsi), dei fanciulli. La narratrice, inoltre, esplora il rapporto bambini-adulti in tutti i suoi aspetti, fino ad arrivare a quello, terribile, della violenza psicologica e della sopraffazione.
La femminilità è delineata nelle molteplici sfaccettature (la maternità, l’orgoglio, l’umiliazione, la passione, la rabbia, l’amore) e lungo le varie età (compaiono bambine, donne giovani, adulte o anziane), ma cogliendo sempre le calde vibrazioni dei sentimenti.
L’autrice ricostruisce il passato dei personaggi, coi loro pensieri, le loro emozioni, i loro ricordi, ma riesce a far rivivere anche, attraverso l’attenta ed evocativa descrizione degli ambienti, degli oggetti, dei suoni, angoli degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta…
E, in tale contesto, ecco apparire nel romanzo eventi “importanti” – la Storia con la maiuscola -, che sfiorano, qualche volta pericolosamente, le storie – con la minuscola – dei protagonisti della vicenda: si pensi alla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna o al terremoto dell’Irpinia. Così come capita altresì che si incroci e ci si imbatta ben da vicino nella violenza quotidiana, inattesa, improvvisa e sconvolgente, che fa slittare la quotidianità, fa deragliare, anche se per fortuna solo per pochi attimi, le sicurezze e l’esistenza tranquilla che tutti noi vorremmo vivere.
La natura, molto presente nel libro, partecipa agli eventi, talora come scenario, sfondo suggestivo e affascinante, anche se non privo di rischi (“guardava subito dopo verso il cielo, convincendosi che esso non stava promettendo poi tutta quella calura”): «Correva, Tia, mentre i suoi occhi sorridevano nel vedere tutti insieme tanti alberi, lì davanti a lei e immaginando il benessere dell’ombra che essi le avrebbero saputo offrire nelle ore più torride. Continuava a correre, Tia, mentre guardava subito dopo verso il cielo, convincendosi che esso non stava promettendo poi tutta quella calura. Arrestò infine la sua corsa e si sedette per terra, per calmare il fiatone che quasi le impediva di respirare. Poco dopo, le sue gambe ripresero a camminare con passo lento ma costante e percorsero instancabilmente un paio di chilometri, in aperta campagna. La osservò bene, quell’erba, poiché non le sembrava del suo colore naturale. Alzò nuovamente gli occhi verso il cielo, già coperto da grigi nuvoloni. Quindi scrutò il verde su cui stava camminando: le sembrò essere sporco ma poi si convinse che era il colore riflesso dal nero delle nuvole».
In altre circostanze, invece, i riferimenti al paesaggio divengono quasi simbolo degli eventi (“i fiori più delicati furono sradicati dal prato come cuccioli sottratti violentemente all’abbraccio materno”): «All’improvviso, una tempesta di vento si scatenò su quelle colline: i fiori più delicati furono sradicati dal prato come cuccioli sottratti violentemente all’abbraccio materno e i rami degli alberi scossi al punto tale che pareva ci fosse un terremoto. La terra si alzò e creò un polverone che rese impossibile il cammino. Nulla appariva più visibile, se non attraverso una fitta rete di granelli di terra che sembravano essersi impossessati dell’atmosfera. Nulla fu più riconoscibile. Il silenzio che poco prima regnava sulle colline fu interrotto dal fischio del vento, un fischio lunghissimo, quasi infinito. Quel cielo variopinto non le distrasse abbastanza da non permettere loro di percepire nuovamente qualcuno avvicinarsi: osservarono quella figura da lontano. Compresero che si trattava di una fanciulla».
Uno dei brani più belli del libro è situato verso la fine del testo: si tratta di pagine soffiate di stupori circonfusi di luci lontane e nondimeno rivelatrici. In tali passi la vena lirica della Susmel trova piena realizzazione: «Come fa la gente a essere arrabbiata in una nottata come questa? Non vi è nulla, proprio nulla di così terribile che questo meraviglioso cielo stellato non possa cancellare! Quanta voce spreca stupidamente, la gente! Se invece di urlare, uscisse da quelle gabbie rimbombanti, qui insieme a me, all’aria aperta… perché non ci fermiamo mai a osservare l’infinito? E questa luna fantastica! È notte, eppure niente è mai apparso così chiaramente! Se lo facessimo tutti insieme, su questa terra, almeno per cinque minuti ininterrottamente, cosa accadrebbe? Potremmo scoprire tutti molte cose di noi che ci sono sempre sfuggite o che non abbiamo mai ritenuto degne nemmeno di un pensiero. Adesso comprendo molte cose di me. Purtroppo soltanto adesso. Ora tutto è chiaro dentro me. Cosa saranno quelle due stelle, l’una un po’ più grande accanto all’altra, più piccina, vicinissime alla luna? Quelle sì che brillano, sembrano quasi pulsare! Proprio come il mio cuore… e non solo il mio!».
Così – non anticipiamo nulla del finale – Un sogno chiamato Vittoria dissemina tra gli eventi, tra le parole, tra le lettere, messaggi di amore, di speranza e di coraggio, preziose bottiglie contenenti un candido pezzo di carta proiettato negli sconfinati oceani o nelle immensità del cosmo, perché, come ritiene l’autrice, “tutto ciò che accade nella vita, bello o brutto che sia, ha comunque ragion d’essere”.
(Rino Tripodi, I delicati intrecci color pastello di Emanuela Susmel, Prefazione a Un sogno chiamato Vittoria, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
Le immagini: la copertina di Un sogno chiamato Vittoria con La piccola Rebecca, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it), e l’autrice del romanzo.
Simone Jacca
(LM EXTRA n. 21, 15 giugno 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 54, giugno 2010)
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