Dalla filosofia alla storia, dalla politica al dibattito sulla scienza, da famosi personaggi a tematiche di scottante attualità: vari sono i campi affrontati da Giuseppe Licandro nei saggi raccolti in Riflessi del tempo. Saggi filosofici e storici (Introduzione di Fulvio Mazza, inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 154, € 12,50 – secondo volume della collana di saggistica Gli itinerari del pensiero della nostra casa editrice).
L’opera raccoglie ben diciotto testi, divisi in due parti (una più “filosofica”, l’altra più “storica”), già editi presso varie riviste, cartacee o telematiche.
Offriamo al lettore tre “saggi” della raccolta, pubblicati, i primi due sul “glorioso” mensile telematico Scriptamanent.net (titoli originari, Critica della modernità e filosofia mediterranea, in Scriptamanent.net, anno IV, n. 34, settembre 2006, e L’ineffabilità del mondo nei testi di Wittgenstein, in Scriptamanent.net, anno III, n. 18, gennaio 2005); il terzo nella “continuazione” della precedente rivista, vale a dire Bottega Scriptamanent, sotto il titolo Il “caso Humbert” e l’ardua scelta fatta dal dottor Frédéric Chaussoy (Bottega Scriptamanent, anno II, n. 7, marzo 2008).
RITORNO ALLA “MEDITERRANEITÀ”
La cultura greco-latina tese generalmente a moderare le pretese onnicomprensive della conoscenza razionale, facendo leva sul senso della misura, sul giusto equilibrio tra mente e corpo e sull’integrazione tra uomo e natura.
Lo attesta un antico e suggestivo mito – ripreso da Serge Latouche ne La sfida di Minerva (Bollati Boringhieri) –, in cui si racconta che Atena-Minerva, dea della sapienza, ebbe due figli, Phrònesis e Lògos epistemikòs: la prima, che rappresentava la saggezza e la prudenza, predominava sul secondo, simbolo del pensiero scientifico, tenendone a freno l’impulso all’illimitata, ma sterile, cognizione del mondo.
L’armonia fra spirito e materia, incrinatasi già con l’avvento della tradizione religiosa giudaico-cristiana, si spezzò definitivamente nell’epoca moderna, allorché scienza e tecnica presero il sopravvento su tutte le altre attività umane e determinarono, almeno in Occidente, un imponente e incontrollato sviluppo delle forze produttive.
La riscoperta della “mediterraneità”
Nell’ultimo scorcio del Novecento, i componenti della cosiddetta “società postmoderna” hanno finito per acquisire una condizione esistenziale paradossale, ben sintetizzata a suo tempo da Hannah Arendt in Vita activa (Bompiani): «L’ultimo stadio della società del lavoro, la società degli impiegati, richiede ai suoi membri un duplice funzionamento automatico […]. È perfettamente concepibile che l’età moderna – cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana – termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto».
La natura è stata piegata “baconianamente” ai bisogni (e spesso alla follia) dell’uomo moderno: di conseguenza, sono aumentate la passività e l’indolenza individuali, si è accentuata la dicotomia fra vita e cultura, si è perso il senso di appartenenza della specie umana all’ambiente naturale e la tecnica si è intromessa – a volte proditoriamente – all’interno dei processi biologici.
E i risultati negativi di questa indebita predominanza degli uomini sugli altri esseri viventi non hanno tardato a farsi sentire. Basti pensare allo stravolgimento del clima, che sta mutando rapidamente anche uno tra i luoghi più belli e vivibili del mondo: il mar Mediterraneo.
Proprio negli ultimi anni, tuttavia, si è assistito alla riscoperta della cultura dei popoli mediterranei, anche alla luce della nuova realtà storica che è emersa alla fine della Guerra fredda, quando il baricentro della politica mondiale si è spostato nuovamente verso Sud.
Il “mare tra le terre”, nonostante le lacerazioni che ne sconvolgono periodicamente le sponde (ultimo il conflitto in Libano, dai mitici boschi di cedro in via di estinzione), continua a presentarsi come crogiuolo di culture, incrocio di popoli, tòpos ideale per il viaggio e l’interrelazione fra civiltà diverse, ma contigue.
Il naturalismo mediterraneo
Di questa tendenza culturale è testimone il recente libro Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno (Manifestolibri, pp. 224, € 22,00) di Mario Alcaro, docente di Storia della filosofia presso l’Università della Calabria, che riflette criticamente sugli esiti del processo di modernizzazione del mondo e indica i tragitti filosofici alternativi da percorrere per risolvere alla radice i mali che attanagliano la civiltà occidentale.
In sintonia con quanto rivendicato dai movimenti ambientalisti, Alcaro propone il superamento del produttivismo e del tecnicismo esacerbati, attraverso il recupero della tradizione filosofica “mediterranea”. Infatti, nel Prologo del libro, l’autore spiega che «si esamineranno i rapporti che tra uomo e cosmo vengono ad istituirsi in alcuni momenti delle culture mediterranee, da una parte, e della filosofia moderna e contemporanea, dall’altra. L’intento è quello di proporre un reinvestimento delle fulgide immagini trasmesse dal poliedrico naturalismo mediterraneo».
Lo scritto prende spunto da una tesi di Albert Camus, che, confrontando ne L’uomo in rivolta (Bompiani) il mondo mediterraneo con quello dell’Europa del Nord, ha evidenziato la superiorità culturale del primo, poiché ha saputo storicamente proporre una migliore qualità della vita, non troppo condizionata dalla mentalità utilitaristica e mercantilista.
A partire da questo assunto – che viene comunque assimilato criticamente –, Alcaro si avventura, con grande lucidità e chiarezza espositiva, in una sorta di lungo excursus storico-filosofico, in cui ripropone i punti di vista delle filosofie vitalistiche premoderne, senza per questo scadere in forme ingenue di pampsichismo o ilozoismo (provando, anzi, a motivare le proprie argomentazioni su basi “scientifiche”, con puntuali riferimenti alla biologia e alla genetica).
Per contrastare efficacemente il «fondamentalismo economico» neoliberista, infatti, non basta contestare l’attuale modello di sviluppo capitalistico, ma bisogna «recuperare motivi naturalistici e valori che rappresentano il lascito positivo delle culture mediterranee, dal pensiero greco ed ellenistico a quello latino, arabo e cristiano, sino all’Umanesimo e al Rinascimento».
Dall’animismo greco a Campanella
Il saggio si snoda lungo nove capitoli, nel primo dei quali si affrontano, come introduzione generale, i temi del disincanto postmoderno, dell’origine del nichilismo contemporaneo e dei rischi ecologici connessi alla mentalità produttivistica.
Nei capitoli seguenti, l’attenzione dell’autore si focalizza dapprima sulla visione “animistica” della natura degli antichi Greci (in particolare di Platone, di Aristotele, degli epicurei e degli stoici), poi su alcune tematiche portanti della filosofia ellenistica e medievale (l’esistenza dell’Anima mundi, le differenze fra neoplatonismo e gnosticismo, le teorie di Sant’Agostino e di San Tommaso sul mondo e la corporeità).
La trattazione si sposta successivamente sulle concezioni ilozoistiche dei tre maggiori filosofi rinascimentali: Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio. È attraverso loro che «si afferma una visione non antropocentrica, ma cosmocentrica, in cui il mondo non è ancora ridotto ad un insieme di proiezioni rappresentative dell’uomo e a suo proprio terreno di intervento e di azione».
Alcaro ricorda che l’ascendenza dei tre grandi naturalisti mediterranei fu duratura, visto che essi influenzarono innumerevoli pensatori moderni, come Denis Diderot, Gottfried Leibniz, Wolfgang Goethe, Henry More, Friedrich Schelling, Baruch Spinoza (forse il maggior filosofo panteista moderno “non mediterraneo”) e molti poeti romantici, giungendo persino ad affascinare filosofi dell’età più recente, come Henri Bergson, Martin Heidegger e Alfred Whitehead.
Vitalismo versus meccanicismo
Nella parte centrale del saggio si riassume la nascita del pensiero scientifico moderno, con le sue vaste implicazioni filosofiche (la visione meccanicistica del cosmo, l’idea del soggetto distinto dall’oggetto, l’esclusione di ogni finalismo dalla natura, ecc.).
A tal proposito, l’autore chiarisce che il pernicioso abbandono del naturalismo rinascimentale non è da imputare tanto ad uno scienziato sperimentalista come Galileo Galilei («non era suo compito elaborare una visione del mondo, un’interpretazione generale della realtà, una spiegazione del cosmo come totalità»), quanto, in parte, a Isaac Newton («la “sintesi newtoniana” ha un tale successo da contrassegnare un’epoca […] e da modificare gli abiti mentali e la cultura del suo tempo») e, soprattutto, alla teologia di Martin Lutero, «in cui la realtà umana e la vita terrena sono poste in una “assoluta lontananza” dalla trascendenza divina». Ma gli strali polemici dello studioso calabrese si riversano anche sul dualismo meccanicistico di Cartesio, poiché «la responsabilità dell’immagine dell’universo come macchina ricade sul filosofo che assume la meccanica come modello per la sua spiegazione metafisica del cosmo».
La cultura filosofica moderna, del resto, ha spesso mutuato i concetti cartesiani, quali «il paradigma del soggetto autonomo e indipendente», «il dualismo e il meccanicismo», «l’eliminazione totale della finalità naturale». Infatti, per innumerevoli pensatori (da John Locke fino a Edmund Husserl, passando per Kant ed Hegel), «l’io, la coscienza, la ragione, costituiscono una sorta di quartier generale da cui partono gli ordini e le direttive strategiche che mettono in riga la totalità degli enti intramondani».
Il nono capitolo è dedicato ad illustrare le teorie di chi, fra Ottocento e Novecento, ha provato a contrastare la visione meccanicistica del mondo e a far rifiorire il vitalismo, la corporeità e l’organicismo, in special modo Bergson col suo élan vital (tra i tanti nomi menzionati dall’autore, ricordiamo pure Samuel Alexander, Hannah Arendt, Ernst Bloch, Miguel de Unamuno, John Dewey, Wilhelm Dilthey, Sigmund Freud, Gilles Deleuze, Michel Foucalt, Maurice Merleau-Ponty, Josè Ortega y Gasset, George Santayana, Max Scheler, Georg Simmel, Pierre Teilhard de Chardin, oltre al già citato Whitehead). Nell’Epilogo, infine, si approfondiscono proprio i contenuti dell’evoluzionismo bergsoniano, insieme alle complesse asserzioni di Heidegger intorno all’“Essere”, al suo rapporto con gli enti, al suo disvelarsi nelle forme del linguaggio estetico.
Ritorno al panteismo
Il senso dell’opera di Alcaro si può cogliere compiutamente leggendo alcune sue affermazioni contenute nell’ottavo capitolo (La rimozione dei fini di natura), che riportiamo di seguito: «Ciò che si è detto sin qui ha un unico fine: quello di evidenziare che l’idea dell’anima come sostanza e il dualismo anima-corpo hanno impedito e impediscono di intendere la coscienza e in generale i fenomeni dello spirito come fatti naturali. Non si può continuare a fingere. La volontà è una cosa del mondo come un temporale, come il Rio delle Amazzoni, come la valle dei mandorli ad Agrigento».
Lo studioso calabrese aderisce, in sostanza, ad una visione del mondo ascrivibile al panteismo, secondo cui la vita e l’intelligenza sono intrinseche alla natura stessa. Lo spirito e la materia, il “soggetto” e l’“oggetto” non vanno intesi dualisticamente – come contrapposti o totalmente distinti –, ma devono essere considerati unitariamente, quali parti costitutive di un’unica realtà (il Deus sive Natura di spinoziana memoria), cosicché «la physis acquista un’immagine ben più ricca e complessa di quella che emerge dal meccanicismo della fisica e delle sue consorelle».
Si tratta di una prospettiva decisamente “ottimistica”, che, includendo l’uomo all’interno di un processo naturale di tipo finalistico, contesta l’«eccessiva e intollerante pretesa egemonica» della scienza e la sua presunzione di essere «la sola conoscenza abilitata a disegnare l’immagine dell’universo», anche se non è necessario rigettare in toto il metodo scientifico. Infatti, Alcaro ritiene che «per riaffermare lo spirito scientifico è bene che la filosofia mostri che non si può più seguire la vecchia strada della tradizione scientifica e fare marcire problemi di decisiva importanza per l’esistenza umana».
La critica alcariana si scaglia, inoltre, contro le tre tendenze filosofiche prevalenti nell’epoca attuale, ossia «la corrente ermeneutica di matrice tedesca», «la corrente analitica anglosassone» e «la corrente postmoderna francese», che presentano difetti comuni: il soggettivismo, il relativismo, la dicotomia fra uomo e natura, la svalutazione dell’essere delle cose, ecc.
In conclusione, pur essendo chi scrive dell’avviso che ogni interpretazione complessiva della natura – soprattutto se «teleonomica» – rischia sempre di scadere nella metafisica, ci pare di poter asserire che, in ogni caso, il saggio di Alcaro indichi una via percorribile per superare lo scientismo acritico e la tecnocrazia imperanti nella società odierna.
LUDWIG WITTGENSTEIN E IL SENSO DELL’INEFFABILE
Fra gli studiosi che avviarono il dibattito epistemologico nel primo Novecento spicca la figura del filosofo viennese Ludwig Joseph Wittgenstein (1889-1951), autore del celebre Tractatus logico-philosophicus (pubblicato da Einaudi insieme ai Quaderni 1914-1916, pp. XII-272, € 20,00). Questo importantissimo scritto influenzò, negli anni Venti, ampi settori della cultura filosofica, in particolare i neopositivisti del Circolo di Vienna (Hans Hahn, Moritz Schlick, Rudolf Carnap, Otto Neurath), ravvivando le discussioni sui fondamenti e i limiti della scienza.
La lite con Popper
Dotato di una cultura molto versatile – prima di laurearsi in filosofia aveva studiato ingegneria e s’intendeva di arte, musica e letteratura –, Wittgenstein, però, era provvisto di un carattere stravagante e bizzarro, che lo pose spesso in conflitto, oltre che con se stesso, anche con gli altri: è nota una sua furibonda lite con Karl Popper, durante un convegno a Cambridge nel 1946, che fu sedata dal pronto intervento del suo mentore e amico, Bertrand Russell!
Pur essendo afflitto da momenti di vero e proprio disagio esistenziale – soprattutto dopo aver preso parte come volontario alla Grande guerra – il filosofo austriaco riuscì, tuttavia, a mantenere il suo equilibrio mentale, viaggiando molto e dedicandosi allo studio e all’insegnamento. In alcune fasi della vita, però, abbandonò le sue abituali attività, rivolgendo la propria attenzione alla progettazione di case e di prototipi per l’aeronautica, oppure ritirandosi in disagiati romitaggi in Norvegia.
La sua stessa carriera accademica, iniziata a Cambridge nel 1939, s’interruppe improvvisamente nel 1947, quando, in preda all’ennesima crisi depressiva, decise di abbandonare il lavoro universitario e riprese a girovagare per il mondo, fino alla fine dei suoi giorni.
Un pensatore “oscuro”
Chi volesse accostarsi alla figura di Wittgenstein può leggere il recente saggio di Martino Cambula Ludwig Wittgenstein. Stili e biografia di un pensiero (Rubbettino, pp. 160, € 15,00), che fornisce un’interpretazione originale delle sue complesse problematiche, ponendole in relazione con il pensiero dei più grandi filosofi di ogni epoca.
Cambula, nella Prefazione, afferma che «il presente studio segue l’itinerario di ricerca di Wittgenstein nelle sue due fasi essenziali: a) quella del “Tractatus” (1921), impegnata nella ricerca dell’“essenza” (“das Wesen”) del linguaggio e delle proposizioni; b) quella delle “Ricerche filosofiche” (1953), che in prospettiva (di filosofia) “antropologica” abbandona in parte l’essenzialismo semantico (…) alla ricerca degli “usi” che le comunità umane fanno delle parole e delle proposizioni».
In verità, il pensiero di Wittgenstein è piuttosto “oscuro”, anche se «il suo stile, dal punto di vista della forma letteraria, è chiaro e limpido». Le difficoltà sorgono perché le sue dottrine non hanno un andamento discorsivo, ma si esprimono attraverso aforismi, paradossi, rapide annotazioni, con un linguaggio «frammentario, frammentato, incompiuto e “irrequieto”».
Taluni passi dei suoi scritti appaiono di difficile comprensione, tant’è che hanno dato origine ad una svariata serie di letture ermeneutiche, come ci riferisce Alfred Ayer: «Pare che ben pochi ne abbiano capito l’opera al di fuori della cerchia dei filosofi di professione. All’interno di questa cerchia non c’è, inoltre, un accordo molto generale sull’importanza delle sue opinioni e neppure sulla loro corretta interpretazione».
Il Tractatus logico-philosophicus
La prima grande opera di Wittgenstein, il già citato Tractatus logico-philosophicus, consta di 526 “osservazioni”, organizzate in base ad una rigorosa successione numerica, la cui impostazione ricorda gli Elementi di Euclide e l’Ethica di Baruch Spinoza. Sette sono le proposizioni principali, ciascuna delle quali, a sua volta, è sviluppata e commentata da altre proposizioni secondarie, che sono indicate con numeri decimali (ad esempio 1.1, 1.2, ecc.) e che danno luogo ad ennesimi enunciati (indicati con ulteriori cifre decimali).
La domanda centrale del Tractatus è questa: «Qual è l’essenza del linguaggio e della proposizione?». Wittgenstein prova a risolvere il quesito, ricorrendo alla nota teoria dell’“atomismo logico”, che egli condivise con Russell e con vari esponenti del Circolo di Vienna.
Secondo questa dottrina, la realtà è formata da «fatti atomici», ossia da fenomeni composti di oggetti semplici. Ai «fatti atomici» corrispondono, sul piano logico e linguistico, le proposizioni «elementari» o «atomiche», che, essendo «isomorfiche», rispecchiano gli «stati di cose» e ne rappresentano – kantianamente – la «forma logica», ma non «l’essenza reale».
Le cosiddette «proposizioni complesse» o «molecolari» – che costituiscono sia il linguaggio ordinario, sia quello prettamente scientifico – derivano dalle proposizioni elementari, di cui sono «funzioni di verità», ossia esplicazioni ulteriori. Sono validi, sul piano scientifico, solo gli enunciati che raffigurano i «fatti atomici», come le proposizioni delle scienze naturali, mentre sono «insensate» le asserzioni della metafisica (nel cui ambito rientrano l’arte, l’etica e la religione) e, persino, quelle della logica e della matematica, che esprimono proposizioni «tautologiche» e «contraddittorie», prive di corrispondenza con la realtà.
Il senso del mondo
Alla filosofia, cui è negata ogni pretesa gnoseologica, l’atomismo logico di Wittgenstein assegna una funzione meramente “analitica”, che si limita a stabilire la corretta applicazione delle regole linguistiche. In particolare, il vero metodo della filosofia dovrebbe consistere in ciò: «Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare –, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno».
Senza inoltrarci ulteriormente nelle intricate disquisizioni del pensatore austriaco, occorre ricordare che nel Tractatus egli critica le pretese euristiche della metafisica, le cui asserzioni considera indimostrabili. Tutto quello che attiene alla sfera del «mistico» (il mondo dell’immaginario e dell’ipotetico), perciò, non può essere oggetto di una seria discussione scientifica e, poiché il linguaggio si riferisce sempre e soltanto ad oggetti semplici, non si può dire nulla intorno a ciò che è «ineffabile».
Cambula ci avverte, tuttavia, che la metafisica finisce per assumere un ruolo centrale anche nelle riflessioni del “primo Wittgenstein”, perché, partendo dal presupposto che esista «qualcosa di “più alto”», egli utilizza le idee metafisiche «per “giustificare” l’esistenza del mondo e del linguaggio, per renderla in qualche modo comprensibile». Il senso del mondo, come dice il filosofo viennese, «dev’essere fuori di esso», perché «noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati».
La celebre proposizione con cui si chiude il Tractatus («Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere») compendia egregiamente questa sua ineffabile tensione verso l’“assoluto”.
Il “secondo Wittgenstein”
Agli inizi degli anni Trenta, Wittgenstein rivede le sue concezioni filosofiche, tant’è che si parla di una “seconda fase” nello sviluppo del suo pensiero. Questo nuovo orientamento, già presente nello scritto del 1930 Osservazioni filosofiche (Einaudi, pp. CXLVIII-304, € 22,72), trova la sua espressione più completa nelle Ricerche filosofiche, un’opera pubblicata postuma nel 1953 (Einaudi, pp. XX-304, € 22,00), nella quale il pensatore austriaco, come rileva Cambula, «vuole correggere i “gravi errori” […] in cui è incorso nel “Tractatus”, nella prospettiva fuorviante di trovare l’“essenza” di ogni linguaggio possibile».
Nelle Ricerche, partendo dall’analisi del linguaggio ordinario, viene elaborata la «teoria del significato come uso», più nota anche come «teoria dei giochi linguistici»: il senso delle parole non dipende più dal nesso con gli oggetti reali, ma dal loro «uso linguistico», cioè dall’uso che ne viene fatto dentro un determinato paradigma linguistico. Poiché i nomi costituiscono degli elementi variabili, il cui senso cambia in base all’uso contestuale, nel linguaggio ordinario si possono inventare combinazioni semantiche sempre nuove e imprevedibili. La comunicazione umana, pertanto, non è sottoposta a regole precostituite, ma soggiace ai bisogni esistenziali del «mondo della vita», e gli stessi fenomeni logico-linguistici assumono una pertinenza culturale e antropologica più ampia, che esula dalla mera “analisi logica” delle proposizioni scientifiche e include l’ambito dei valori morali e spirituali. La filosofia, secondo tale prospettiva, diventa uno strumento di ricerca «del particolare, del diverso, delle differenze che segnano e, in qualche maniera, rendono possibili i nostri “giochi linguistici” […] e le nostre “forme di vita”», assumendo due nuovi e più impegnativi compiti: da un lato, descrivere la «morfologia di significati» delle parole, secondo l’ambito in cui esse si adoperano; da un altro, liberare la mente dalle illusioni insite nelle «teorie universali e onnicomprensive».
Un filosofo «postmoderno»
Wittgenstein – soprattutto nel secondo periodo della sua attività filosofica – ha, dunque, messo in discussione le ambizioni onnicomprensive della scienza e, criticando anche i pericoli insiti nello sviluppo tecnologico, ha anticipato le intuizioni “postmoderne” di molti pensatori posteriori.
Cambula, in tal senso, è convinto che il filosofo viennese «ha messo in evidenza, forse in una prospettiva più epistemologica che antropologica, con uno stile sobrio e profondo, le medesime aporie della modernità che i filosofi “postmoderni” descrivono con maggiore ricchezza di analisi e di considerazioni».
I benefici che si possono trarre dalla lettura degli scritti di Wittgenstein travalicano l’ambito puramente culturale, poiché ogni lettore viene stimolato a ricercare il senso della propria esistenza e a rivalutare quelle discipline – come l’estetica, l’etica e la religione – che, senza avere la pretesa di attingere la “verità” in modo indubitabile, possono servire ad affrancare l’uomo dai disagi esistenziali.
IL “CASO CHAUSSOY”: RIFLESSIONI SULL’EUTANASIA
Luca Coscioni, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby sono stati, in Italia, i casi più eclatanti di persone inferme che hanno chiesto ai loro medici di interrompere un’esistenza ormai gravosa.
Pur rendendoci conto che il tema dell’eutanasia è molto delicato e ferisce i sentimenti e le convinzioni etico-religiose di tante persone, ci domandiamo come si possano biasimare i tetraplegici che chiedono espressamente di porre fine ai loro tormenti esistenziali o i malati terminali che rifiutano inutili terapie, spesso consistenti in trattamenti medici coatti e dolorosi, che finiscono solo per prolungarne l’agonia.
Nel 2004 Frédéric Chaussoy, medico responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, ha pubblicato lo scritto Je ne suis pas un assasin (Oh! editions), nel quale racconta il tragico caso di Vincent Humbert, un giovane pompiere francese di diciannove anni che il 24 settembre 2000 fu coinvolto in un grave incidente stradale.
Ricoverato presso l’Unità dei risvegli dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, Humbert, dopo nove mesi di coma, si ridestò in condizioni disastrose: tetraplegico, muto e quasi cieco. Qualche tempo dopo iniziò a muovere il pollice destro, per mezzo del quale riuscì a comunicare con la madre Marie e a rivolgere all’allora presidente della Repubblica, Jacques Chirac, un appello che fu diffuso dalla stampa ed emozionò la Francia intera.
In questa supplica Humbert chiese di poter esercitare “il diritto di morire”, ma la sua preghiera rimase inascoltata per tre anni, finché la madre non tentò di esaudire il suo desiderio, somministrandogli una forte dose di barbiturici. Trasferito d’urgenza presso il reparto di rianimazione, il giovane ottenne, infine, grazie all’intervento del dottor Chaussoy, quanto aveva lungamente richiesto.
Je ne suis pas un assasin – che ha avuto in Francia un gran successo editoriale, vendendo ben 100.000 copie – è stato ora tradotto in italiano col titolo Non sono un assassino. Il “caso Welby-Riccio” francese (Prefazione di Mario Riccio e Introduzione di Giancarlo Fornari, Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice, pp. 176, € 10,00), a cura dell’Associazione “LiberaUscita”, che si batte per legalizzare il testamento biologico e depenalizzare l’eutanasia, e con la collaborazione di Valérie Péronnet.
Nella Prefazione Mario Riccio – il medico anestesista che ha aiutato Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita e che è stato protagonista in Italia di una storia molto simile a quella di Chaussoy – così presenta il libro: «È un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico dell’emergenza».
Un’appassionata autodifesa
Non sono un assassino è l’appassionata autodifesa di colui che ha permesso a Humbert di porre fine ai suoi insensati tormenti.
Chaussoy narra tutta la sua vita e redige una sorta di diario, in cui ci fa capire come sia maturata in lui la decisione di aiutare Vincent a morire, alternando il racconto dell’affaire Humbert con brevi excursus sulla propria professione medica e su vicende personali.
L’autore, tra l’altro, ci informa, di un particolare molto importante: in un primo tempo, ha provveduto a rianimare il giovane pompiere il 24 settembre 2003, lo stesso giorno in cui la madre gli ha somministrato i sonniferi.
Due giorni dopo, essendosi nel frattempo interrogato a lungo sulla legittimità dell’eutanasia, decide di confrontarsi con l’èquipe medica del suo reparto per stabilire come procedere: Humbert, infatti, ha subito danni celebrali seri, non ha più ripreso conoscenza e sopravvive ormai tramite un respiratore meccanico. I colleghi convengono con lui sull’opportunità di «interrompere le terapie attive», cioè di non proseguire più il trattamento per mantenere in vita artificialmente il ragazzo.
Chaussoy, a questo punto, compie un gesto coraggioso, senza pensare alle possibili conseguenze legali: stacca la spina del respiratore che tiene artatamente in vita Humbert e gli somministra due dosi di un neurosedativo, che ne accelerano la morte (altrimenti il paziente, senza più ossigeno, sarebbe morto lentamente per asfissia, dopo un’atroce agonia).
L’accusa di omicidio e l’assoluzione
Tutti gli atti compiuti da Chaussoy testimoniano la sua serietà professionale e la sua scrupolosità: infatti, egli avrebbe potuto liberarsi subito da ogni impiccio, lasciando che Vincent, giunto nel suo reparto già in coma, morisse avvelenato dai barbiturici. Il suo primo impulso, però, è stato quello di rianimarlo, operando secondo l’usuale prassi deontologica; solo in un secondo momento ha deciso di comportarsi diversamente, assumendosi fino in fondo le responsabilità della propria scelta.
La notizia del decesso di Humbert rimbalza subito sui mass-media. E uno zelante giudice istruttore incrimina per omicidio Chaussoy, dopo aver ricevuto il verbale di un lungo interrogatorio cui è stato sottoposto dalla polizia locale.
Il dottore ha raccontato con lealtà l’andamento dei fatti, ammettendo di aver sedato il paziente dopo avergli sospeso la “terapia attiva”. La sua sincerità gli costa una grave imputazione, che rischia di rovinare la sua vita e quella dei suoi familiari (Chaussoy ha ben cinque figli da mantenere!).
Il medico di Berck-sur-Mer diventa, suo malgrado, famoso e migliaia di attestati di stima e di solidarietà gli giungono da vari colleghi, ma anche da tanti altri cittadini.
L’indagine si protrarrà per un paio di anni, concludendosi nel 2006 con la piena assoluzione di Chaussoy e della madre di Humbert, perché, secondo il giudice, hanno agito in base a ragioni di alto valore umanitario e «sotto l’influenza di una costrizione che esonera gli imputati da qualsiasi responsabilità penale».
L’“imprudenza” di Chaussoy
Una frase del libro riassume pienamente la filosofia che sta dietro la scelta di Chaussoy: «Dobbiamo sapere anche fermarci nella lotta contro la morte, con dolcezza e rispetto, quando si è provato troppo a prolungare la vita, e questa diventa indegna». Non sarebbe stato, dunque, un atto di violenza, bensì d’amore quello eseguito dal medico francese. Bisogna, infatti, essere altamente altruisti per trovare la forza di compiere un gesto umanitario che potrebbe comportare dure sanzioni penali.
Chaussoy ci fornisce, altresì, un significativo ragguaglio su ciò che spesso avviene, di nascosto, nei reparti di rianimazione degli ospedali: «La gente che muore nei reparti di rianimazione, superattrezzati di macchine per la vita, muore perché a un certo momento è stata presa la decisione di non utilizzare più queste macchine per mantenerla in vita». La cosiddetta “eutanasia passiva” – che consiste semplicemente nell’interrompere ogni cura per le malattie gravissime e irreversibili – è spesso praticata in silenzio, talvolta accompagnandola “attivamente” con iniezioni di anestetici che servono ad alleviare le sofferenze dei degenti e ne affrettano l’inevitabile decesso.
L’“imprudenza” del dottor Chaussoy, quindi, è consistita proprio nell’aver detto la verità: se avesse omesso i particolari e si fosse limitato a parlare di «sopraggiunte complicazioni», non sarebbe stato coinvolto nell’inchiesta sulla morte del giovane pompiere. Sull’onda del dibattito fra “colpevolisti” e “innocentisti” suscitato dal “caso Humbert” (che ricorda in certo qual modo l’affaire Dreyfus di fine Ottocento), è stata poi approvata dal parlamento francese una legge che prevede la possibilità per i medici di interrompere le cure dei malati terminali, ma che non contempla, tuttavia, il ricorso ad alcuna forma di “morte dolce”.
Eutanasia e testamento biologico
Nelle Appendici del libro sono riportati, oltre a una serie di utili informazioni sull’Associazione “LiberaUscita”, anche la proposta di legge per la depenalizzazione dell’eutanasia e il disegno di legge per la legalizzazione del testamento biologico.
Senza entrare nel merito delle due proposte di legge ancora da discutere, vorremmo comunque fornire ai lettori alcuni chiarimenti in merito agli argomenti che vi vengono trattati.
L’articolo 32 della Costituzione italiana dispone che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Un’interpretazione corretta di tale articolo dovrebbe comportare che ogni malato, purché sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, possa rifiutare le terapie che gli vengono prescritte, anche a costo di morire. Il disegno di legge sul testamento biologico recepisce questa norma, permettendo a ciascuno di esprimere per iscritto – come spiega Giancarlo Fornari nell’Introduzione del libro – «il proprio consenso o dissenso nei confronti di determinate cure, esercitando così il diritto concesso a tutti i cittadini dalla nostra Costituzione». L’eutanasia, invece, consiste – usando sempre le parole di Fornari – nel «procurare, in casi prestabiliti e con tutte le necessarie garanzie, la morte di una persona, pienamente capace di intendere e di volere, che la richiede».
Quindi, le due questioni vanno ben distinte e opportunamente valutate. Ci rendiamo conto che l’eutanasia è una pratica discutibile e assolutamente non generalizzabile. Ma questo non significa che, in talune situazioni di malattia e infermità particolarmente gravi e su esplicita richiesta dell’interessato, non possa essere quantomeno depenalizzata.
Ci pare, viceversa, certamente auspicabile l’approvazione del “testamento biologico”, cioè di una legge che consenta ai cittadini, tra l’altro, di decidere per tempo se accettare o meno il trattamento medico coatto nel caso in cui incorrano in gravissime patologie o in traumi estremamente invalidanti (impedendo così il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che in realtà è solo “accanimento” contro una persona indifesa, perché di “terapeutico” non ha un bel niente!). Sarebbe molto più intelligente, in alternativa, ricorrere per i malati terminali alle “cure palliative”, ossia alla somministrazione controllata di farmaci antidolorifici e anestetici, presso appositi reparti ospedalieri o in cliniche specializzate.
In conclusione, vorremmo citare un altro brano del bel libro di Chaussoy: « Al centro di ogni decisione deve essere l’interesse del malato, e di lui solo». Condividiamo pienamente questo punto di vista, perché siamo convinti che la medicina debba mirare a guarire gli infermi e a lenire il loro dolore senza porsi l’assurdo obiettivo di prolungare all’infinito la vita tramite opinabili artifici terapeutici, che forse servono solo a favorire i guadagni di gente senza scrupoli.
(da Giuseppe Licandro, Riflessi del tempo. Saggi filosofici e storici, Introduzione di Fulvio Mazza, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Capo Testa 2 (acrilico su tela, 1997) di Riccardo Ghiribelli, per gentile concessione dell’autore.
Alessandra Cavazzi
(LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)