Il tentativo di imporre la lettera ebraica schwa (ə) per designare un genere neutro inesistente nella lingua italiana è un segno del passaggio dall’orizzonte celeste a quello terrestre, con perdita dell’infinito e del sacro
In Esodo 3,13-20 Mosè chiede a Dio di rivelargli il suo nome e Dio risponde: «Io sono colui che sono». San Tommaso spiegherà che tale risposta definisce l’essere assoluto e non determinato attraverso nessun’altra specificazione aggiunta; essa non significa che cosa è Dio, bensì, in qualche modo, il mare infinito e quasi non determinato della sostanza. Perciò, quando tentiamo di dire il nome di Dio attraverso la via della negazione, in primo luogo neghiamo da lui i nomi e gli attributi corporali; in secondo luogo anche quelli intellettuali rispetto al modo in cui si trovano nelle creature, come la bontà e la sapienza; e allora resta nel nostro intelletto soltanto il fatto che Dio è, e null’altro.
Lo stesso Tommaso aggiunge poi che il nome di Dio risiede nel Tetragrammaton, cioè quello che è il suo nome segreto e impronunciabile. In ebraico, come in ogni lingua semitica, venivano scritte soltanto le consonanti e il nome di Dio era, pertanto, trascritto col tetragramma IHVH (iod, hé, waw, hé). Noi non conosciamo le vocali che entravano nella pronuncia del nome perché era rigorosamente vietato agli israeliti pronunciare il nome di Dio. Nei rituali veniva usato il nome Adonai (Signore). In seguito, gli ebraisti rinascimentali assumeranno proprio le vocali di Adonai, con un addolcimento della prima a, per leggere il tetragramma nella forma Jehovah. Ciò che veniva pensato come suprema esperienza mistica dell’essere e come nome perfetto di Dio era la contezza di significato del gramma stesso, della lettera come negazione ed esclusione della voce (nomen innominabile, che si scrive ma non si legge). Come nome innominabile di Dio, il gramma era l’ineffabile, era la lettera che si faceva esperienza ultima di linguaggio per chi, avendo i piedi sulla terra pietrosa del deserto, guardava decisamente verso l’alto e aveva un respiro eterno.
Appartiene alla lingua ebraica (medievale) la lettera schwa (ə), che indicava una vocale brevissima o addirittura inesistente. Nell’Ottocento è stata ripresa per far parte dei simboli fonetici internazionali. Oggi viene usata al posto della desinenza maschile per rendere la (nostra e non solo la nostra) lingua più inclusiva. Evita cioè che ci sia una predominanza del genere maschile sull’altro, sugli altri. In tal senso, ha recentemente vinto la concorrenza dell’asterisco. La schwa è la moderna esperienza della lettera impronunciabile e rende ogni parola che la contiene praticamente muta alla voce (si scrive ma non si legge).
Tale gramma di recente conio è quindi la nostra esperienza ultima di linguaggio, perfettamente inserita nel moderno dovere civile, imposto a noi tutti, di rifuggire le distinzioni di genere, che vengono reputate essere fonte di sopruso e infelicità. Non ci viene più vietato di nominare Dio ma, nel cambio di orizzonte, ci è fatto divieto di pronunciare parole che potrebbero causare traumi psicologici. Non avendo più lo sguardo verso l’alto, oggi siamo costretti a concentrarci sui piccoli accidenti quotidiani. Le piccole vanità diventano ragione di vita. Ogni piccolo potere diventa orizzonte ultimo dell’esistenza. In tal senso, anche lo stare attenti a ogni presunta sopraffazione linguistica assume rilevanza vitale. Certamente, allora, l’attenzione rivolta a tale angusto materialismo, per lo più massmediatico, ci toglie il respiro eterno rivolto all’infinito e ci impone di guardare definitivamente rasoterra, al livello dei piedi che poggiamo su tappeti igienizzati (leggi pure «La Crusca dice che la “schwa” è inaccettabile. E non sbaglia»).
Lucilio Santoni
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 191, novembre 2021)