“Né sole, né luna”: i “Quadri narrati” del nuovo romanzo di Francesco Cento
Come il precedente (Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum), anche il nuovo romanzo di Francesco Cento – Né sole, né luna. Quadri (narrati) del Settecento calabrese, Prefazione di Marina Savoia, inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 238, € 14,50, sedicesimo volume della collana di narrativa La scacchiera di Babele – si innesta nel filone della narrativa meridionale incentrata sulle “delusioni storiche”.
Stavolta l’autore ambienta a fine Settecento e non in epoca garibaldina, come nella scorsa opera, le vicende “corali” di una piccola comunità calabrese.
Ricerca/rievocazione storica e sensibilità sociale si accoppiano per offrire ancora una volta – attraverso quadretti collettivi o le singole vicende dei personaggi maggiori – un affresco completo di un’epoca, di un luogo, di una società, di una collettività. A caratterizzare la narrazione, inoltre, è uno sviluppo teatrale, da “melodramma” (grande passione di Cento), al cui interno l’andamento musicale – talora brioso e vivace, talvolta nostalgico e sentimentale, altre volte doloroso -, i grandi movimenti collettivi, i dialoghi fitti, disvelano l’eterno “complotto” e “inganno” della Storia nei confronti degli “umili”.
Dell’opera anticipiamo l’inizio del XVIII capitolo: provenienti da Napoli, sbarcano i funzionari del re. La loro permanenza sarà caratterizzata da una serie di equivoci indimenticabili, tipici della commedia e dell'”opera buffa”.
Tratto di mare imprecisato, lungo la costa della Calabria Citra, 1795.
Il mare scuro, abbruttito dal cielo ingombro di nuvole che volavano sopra l’acqua, muggiva feroce. La ciurma era già all’erta da quando il capitano, sogguardando l’orizzonte, si avvide d’un’increspatura sul limitare del cielo. Aveva ordinato con la voce pesante e nella lingua oscura di chi è nato sul mare. La feluca manovrò in maniera da trovarsi in un’insenatura sicura ancor prima della tempesta. Solo allora i tre passeggeri constatarono la perizia di quella gente taciturna che fino allora avevano scambiato per selvaggi senza costrutto.
I tre napoletani, ciarlieri, compagnoni, grandi narratori di storielle sul re e la regina, sui monaci e le monache, sui preti e su tutto quello che di scurrile era presente nella loro memoria, erano sopportati pazientemente dai marinai che per tutto il viaggio non avevano detto assolutamente nulla se non stringati richiami tra loro, senza che i tre potessero intendere parola alcuna.
Solo in occasione della tempesta, la concitazione dei comandi aveva allargato il vocabolario del capo e movimentato l’austera manovra dei marinai.
Il capitano Salvatore Scifo si era rassegnato a fare quel viaggio di ritorno nelle Calabrie coi tre passeggeri che appesantivano la barca coi bagagli e, ancor peggio, stralunavano le teste dell’equipaggio con tutte quelle facezie. Certo era stato ben pagato, non si poteva lamentare! Gli era stato assicurato che avrebbe trasportato dei galantuomini: un funzionario del Regio Catasto Onciario col suo servo e un artista, un valente pittore napoletano; aveva risposto che sarebbe stato onorato di averli a bordo e invece si erano dimostrati delle schifezze d’uomini.
Come capitava spesso in quegli anni, dacché c’era stato il flagello (lui stesso era vivo per miracolo) fior di signoroni arrivavano nelle Calabrie a misurare, a scrivere, a meravigliarsi del terribile terremoto; elargivano mance spropositate, che bastavano per tutto il guadagno di un anno. Ma, passata la smania, tutta quella gente non si vide più e Salvatore fu costretto a riprendere i suoi viaggi per Venezia. Quella sì, città! Che i Magnifici di Borgo neanche se la sognavano! Con palazzoni pieni di frange e merletti, di mille e mille colori, alti come il castello del principe, immersi nell’acqua. E uomini e donne sempre in orgasmo: gran dame che si muovevano senza i mariti, ognuna sulla propria barca, e la ricchezza correva per le strade così come a Borgo correva la fame e la disperazione. Epperò quella città, quel ben di Dio galleggiante sull’acqua, non era cosa per loro, perché, se l’avesse voluto, il Padre Eterno li avrebbe fatti nascere lì, in mezzo alla contentezza, così a quest’ora avrebbero avuto ancora le proprie famiglie tutti quanti e non sarebbero stati costretti a navigare col dolore nel cuore.
Sbarcati che furono, il mare incominciò a ingrossarsi senza ritegno e dal cielo l’acqua venne giù, spinta dai diavoli. Ettore Mozzillo (il funzionario regio) e i suoi amici ringraziarono Iddio per essersi imbattuti in quel felucaro saggio e coscienzioso che aveva saputo condurli al riparo, prima che potesse succedere qualche grosso guaio.
Andare nelle Calabrie si era dimostrato arduo. Imbarcarsi per una terra sconosciuta e lontana, di cui sentiva parlare un gran male e fare dei grandi scongiuri e dolenti raccomandazioni a san Gennaro e a tutti i santi al solo nominarla, voleva dire abbandonare Napoli, gli affetti e gli amici per chissà quanto tempo. Non poter vivere la vita comoda d’impiegato presso il Regio Catasto Onciario come fino allora aveva vissuto, perché chissà a quali mansioni sarebbe stato adibito dacché il capo del capo (“a capa ra cap’e cazz’“, come lo chiamavano i suoi colleghi anziani), don Saverio De Vico, s’era messo in agitazione attorno a dei vecchi registri delle gabelle inevase, su segnalazione di chissà chi.
Ettore, accompagnato da questi pensieri, si sedette accanto al fuoco abbottandosi gli occhi di fumo, dato che, nella locanda dove si erano ricoverati, non esisteva il camino e il fumo si disperdeva nella stanza tentando di uscire dal tetto.
Il pittore, invece, sotto la stentata veranda di legno di quel localaccio, insisteva nell’acquerellare lo scorcio di costa investito dalla tempesta.
L’acqua e il vento sembravano voler strappare quella bettola dalle fondamenta. Ettore, rassegnato al volere di Dio, continuava nei suoi pensieri tumultuosi sorseggiando un ottimo vino rosso. Quel favore lo doveva ai suoi colleghi che si erano messi a corbellare don Saverio De Vico mentre questi tentava di fare dei proseliti alla causa della Cassa Sacra, ma quelli, vecchie volpi, avevano fiutato il tranello e avevano risposto per le rime, senza farlo a vedere, come si conviene ai più sozzi e laidi uomini sulla faccia della terra, causando, in questo modo, la rabbia di De Vico e la conseguente scelta di colui che avrebbe raggiunto le Calabrie.
(da Francesco Cento, Né sole, né luna. Quadri (narrati) del Settecento calabrese, Prefazione di Marina Savoia, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: particolare di Ritratto di Giovanna (gesso, 1984) dello stesso Francesco Cento. Sito internet dell’artista: www.francescocento.it.
Rino Tripodi
(LM EXTRA n. 22, 15 dicembre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 60, dicembre 2010)