Con la motivazione dell’emergenza sanitaria il governo aveva sospeso l’accesso civico agli atti. E la richiesta di dati più raggiungibili sul contagio rimane per ora inascoltata
Il 17 marzo 2020, quando ancora il totale di positivi al Covid-19 supera di poco le 31.000 unità, il governo emana il decreto-legge “Cura Italia”, contenente «misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese». Fra le norme introdotte per il contrasto alla pandemia, una solleva molti dubbi, soprattutto fra giornalisti e Organizzazioni non governative: si decide, infatti, di sospendere fino al 31 maggio 2020 i «termini di risposta alle istanze di accesso civico semplice e civico generalizzato». L’accesso civico è uno strumento, tanto fondamentale quanto ancora poco utilizzato (in Italia) dalla cittadinanza.
Esso consente a chiunque di richiedere documenti e informazioni in possesso delle Pubbliche Amministrazioni (Pa). Si distingue in: semplice, riguardante documenti soggetti a obbligo di pubblicazione; e generalizzato (o Foia, acronimo di Freedom of Information Act). Quest’ultimo consente l’accesso a documenti ulteriori rispetto a quelli che le Pa devono obbligatoriamente rendere disponibili nella sezione “Amministrazione trasparente”. Senza dilungarsi ulteriormente sulle procedure necessarie per fare richiesta di accesso civico agli atti, è facile intuire quanto sia importante tale strumento per un efficace controllo dal basso dell’operato statale. A maggior ragione in un periodo convulso come quello degli inizi dell’epidemia di coronavirus, quando si è fatto spesso ricorso a procedure emergenziali per l’affidamento di forniture sanitarie. Viene pertanto da chiedersi quale sia stato l’effettivo contributo della sospensione del Foia nella lotta all’epidemia, se non di ridurre la trasparenza dell’operato degli enti pubblici, Istituto superiore di Sanità e Comitato tecnico scientifico (Cts) inclusi, nella gestione dell’emergenza.
Emblematico è stato, in questo senso, il caso della richiesta di accesso ai verbali del Cts, riunitosi fra fine marzo e inizio aprile, da parte della Fondazione Luigi Einaudi: sulle trascrizioni delle riunioni, decisive nell’orientare le misure contenute nei vari Dpcm che dovevano arginare la diffusione del coronavirus, il governo aveva inizialmente posto il segreto di Stato, impedendone di fatto la pubblica consultazione. Salvo poi ritrattare, anche a causa della pressione mediatica, e avallare, a inizio agosto, la richiesta della Fondazione Einaudi.
La sospensione dell’accesso civico, benché la pandemia continui a imperversare, è fortunatamente finita con la prima ondata del virus. Questo a maggior ragione fa dubitare della reale intenzione di salvaguardia della pubblica salute della norma inserita nel decreto Cura Italia. Nonostante la possibilità di accedere agli atti sia stata introdotta nel nostro Paese con grande ritardo (esattamente 50 anni dopo il Freedom of Information Act, promulgato negli Usa nel 1966), i dati resi noti da Fondazione Openpolis certificano quasi il 90% di richieste accolte su sei Comuni campione. Segno che, comunque, la strada è quella giusta. Eppure, le modalità di accesso civico in Italia sono ancora problematiche: come riporta l’Osservatorio Foia di Openpolis, «quasi tutte le regioni pubblicano il registro degli accessi. Ma con modalità e contenuti molto difformi, che spesso vanificano la possibilità di monitoraggio e confronto sull’utilizzo del Foia». Anche per le richieste ai ministeri ci sono «tanti registri diversi e poca uniformità». Un quadro che viene confermato dalla recente inchiesta di IrpiMedia sulle mascherine prodotte in Cina da lavoratori uiguri «costretti ai lavori forzati» e vendute anche in Italia.
Degli undici soggetti pubblici ai quali sono state inoltrate richieste di accesso civico generalizzato, per sapere se le aziende incriminate fossero presenti negli elenchi delle stazioni appaltanti, solo tre «hanno risposto pienamente». Gli altri si sono limitati a quelle che gli autori dell’inchiesta definiscono «risposte evasive e insufficienti». Proprio per chiedere più trasparenza sul Covid-19, 162 associazioni e quasi 40.000 cittadini hanno firmato una lettera aperta al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, chiedendo «dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili». Chiedendo, insomma, che i numeri sull’andamento del contagio vengano considerati un bene comune. Per ora senza ricevere risposte concrete.
Le immagini: a uso gratuito da pixabay.com., e il logo del Foia, Freedom of Information Act.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 181, gennaio 2021)
Aprono veramente gli occhi con questi articoli..