Il problema del testamento biologico, oltre che nella cronaca, nella legge e nelle coscienze, è ormai entrato tra gli argomenti d’interesse delle tesi universitarie. Un esempio eccellente al riguardo è il lavoro di Giulietta Luul Balestra, che, nell’ambito del corso di laurea in Antropologia sociale dei saperi medici presso l’Università degli studi di Bologna, ha presentato la tesi dal titolo Il Testamento biologico. Un’analisi antropologica tra norma e “società civile” (2009), una trattazione molto completa e articolata, che sviscera il tema da molti punti di vista.
Essa inizia con una sorta di mappatura di alcuni dei termini mediatici, bioetici e giuridici più importanti, per poter meglio raccontare dal punto di vista storico, legislativo e umano i principali casi italiani e stranieri, quali Englaro, Welby, Nuvoli e altri, esaminando anche in dettaglio il ddl Calabrò e le proposte di registro delle Dat della Rete laica di Bologna e del Comitato Art. 32 di Modena.
Prosegue poi nella seconda parte applicando le metodologie antropologiche di ricerca al tema del testamento biologico, definendo due principali campi d’indagine: da un lato, gli attivisti protagonisti della mobilitazione su scala locale per l’istituzione di registri comunali o provinciali di testamenti biologici, dall’altro operatori sanitari di diversa estrazione e specialità fra quelli particolarmente coinvolti in contesti di fine vita. Riportiamo di seguito alcuni passaggi significativi dell’Introduzione che precede il saggio vero e proprio.
Come molti italiani, ho cominciato a interessarmi davvero al testamento biologico al momento della morte di Eluana Englaro, nel febbraio del 2009. Prima, un interesse vago ma chiaro per le relazioni tra corpo e potere mi spingeva emotivamente verso temi bioetici, storie esemplari, immaginari condivisi nei quali, nell’incontro, l’uno e l’altro trovavano forma. Ad oggi – a un anno da allora – il testamento biologico è molte cose differenti. La sua definizione vuole che: «Il testamento biologico è un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato». Il testamento biologico, dunque, è uno strumento per rifiutare cure non desiderate e, anche, teoricamente per richiedere quelle desiderate. Ma il testamento biologico, si diceva, è molte cose differenti. Il testamento biologico oggi è un oggetto: lo si può prendere in mano e compilare. Molte associazioni e fondazioni ormai ne hanno prodotto vari modelli, non troppo dissimili l’uno dall’altro. Il testamento biologico è un’idea: l’idea di affermare le proprie volontà, l’idea di autodeterminarsi che appare salvifica, ad alcuni, diabolica, ad altri. È un’azione: è un’affermazione e, dunque anche, una negazione, di diritti, di valori, di verità o della loro assenza.
Incontratesi recentemente sul campo condiviso dei significati e delle implicazioni morali delle applicazioni della biomedicina, bioetica e antropologia differiscono, tradizionalmente, nel diverso approccio alla questione del “bene”: il dovere essere, per l’una; l’essere, per l’altra. Un bene che esiste in sé, per la prima; un bene che esiste solo nel vissuto di chi ne fa esperienza, per la seconda. L’incontro tra bioetica e antropologia nel campo preciso dell’applicazione alla biomedicina (un incontro di cui si intravedono in entrambe le tracce recenti) si propone come il ponte che può proteggere discipline e approcci da opposti rischi: per la bioetica, quello di costituirsi su fondamenta e perseguire finalità etnocentriche, fondamenta e finalità parziali, profondamente culturali, ma rappresentate come universali; e per l’antropologia quello di incappare in un relativismo morale che si traduca in una non assunzione di responsabilità di fronte all’ingiustizia e alla sofferenza. Così, il loro avvicinamento possibile e progressivo somiglia all’affermazione di una sorta di relativismo metodologico: un relativismo che non precluda l’analisi contestuale, ma che, d’altra parte, non precluda neppure l’assunzione responsabile della propria parzialità di fronte all’oggetto di studio. Il dibattito sul testamento biologico, ritengo, dovrebbe tenere conto e far tesoro di questo incontro.
Oggi, mentre ci si ammala e si muore senza testamento biologico, l’analisi di quelle pratiche doveva suggerirmi che nelle dinamiche concrete delle scelte di fine vita, l’autodeterminazione è plasmata e costruita differentemente a seconda dal contesto di riferimento. Una riflessione su questi contesti si mostra imprescindibile per una riflessione più ampia sulla praticabilità dell’autodeterminazione stessa.
Una proliferazione di sensi per una proliferazione di parole. All’epoca di Eluana Englaro (ma sarà vero che è finita?) tutti parlavano del testamento biologico: il mondo politico, il mondo religioso, la società civile, le società professionali; individui, gruppi, associazioni, ignoti e arci-noti, tutti producevano parole. Talmente tante che districarsi tra esse può essere a volte, estremamente complicato; a volte, farle rientrare tutte in un quadro di senso può sembrare un’impresa impossibile. Oggi è più che mai importante continuare a parlarne, ed è più importante che mai che i molti soliloqui del caso si trasformino in veri dialoghi.
(da Giulietta Luul Balestra, Il Testamento biologico. Un’analisi antropologica tra norma e “società civile”, tesi di laurea inedita, Università degli studi di Bologna, 2009)
Chi desiderasse leggere la tesi per intero, può scaricarla liberamente dalla pagina del sito di Rete Laica Bologna dedicatole.
L’immagine: Pietà (1460, olio su tavola, 48×33 cm, Venezia, Museo Correr) di Cosmè Tura, noto anche come Cosimo Tura (Ferrara, 1433 circa – Ferrara, 1495).
Viviana Viviani
(LM MAGAZINE n. 13, 15 settembre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 57, settembre 2010)
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