Dopo le recenti polemiche e i pamphlet contro il mondo cooperativistico, cui anche “LucidaMente” ha dato ampio rilievo, il presidente di Coop Alleanza 3.0 esce dal proprio notorio riserbo e rilascia una lunga intervista in esclusiva alla nostra rivista: un’appassionata difesa del settore
Santi o diavoli? Benefattori del popolo o ipocriti ingannatori? Preziosa risorsa economica per l’Italia o concorrenti sleali? Sono le domande che nel nostro paese molti si pongono sul mondo delle cooperative dopo i recenti scandali e l’uscita di vari pamphlet, dall’ormai classico Falce e carrello del patron di Esselunga Bernardo Caprotti, da poco scomparso, a quelli di Mario Giordano e, ancora più aspro, dell’ex assessore al Comune di Bologna Antonio Amorosi (vedi le nostre recensioni A chi i profughi? A noi! e Cooperative dalle mani sporche). E anche Marcello Cestaro, leader col fratello del gruppo Famila, ha affermato: “Io come Caprotti: in guerra con le Coop”.
In via preliminare ci sembra corretto chiarire ai nostri lettori che il mondo delle cooperative comprende una galassia di varie realtà, operanti nella grande distribuzione organizzata (alimentare e altro), nei servizi alla persona, nella solidarietà, e via dicendo. Inoltre, che “coop” è un’abbreviazione usata per indicare tout court le società cooperative, che spesso si tende, magari tendenziosamente, a confondere interamente con Coop Italia (consorzio di consumatori, insomma, i famosi supermercati) o Legacoop (federazione delle varie cooperative che vi aderiscono), che sono realtà a se stanti (di origine prevalentemente comunista). Aggiornamenti basilari per i lettori distratti: nel 2011, sotto la presidenza dell’attuale ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti, la Legacoop ha dato vita all’Alleanza delle cooperative italiane, fondendosi con Confcooperative (bianche, cattoliche) e Agci (di origine socialista e repubblicana); il 1° gennaio 2016 Coop adriatica, Coop consumatori Nordest e Coop estense si sono fuse in Coop Alleanza 3.0.
La nostra rivista, com’è noto, si caratterizza per la sua libertà e apertura: ospitare tutte le voci e “sentire tutte le campane”. Ecco, dunque, che sul mondo cooperativistico in generale, e in particolare sulla società che presiede, il bolognese Adriano Turrini, presidente appunto di Coop Alleanza 3.0, ci ha concesso una lunga intervista in esclusiva. Nato a Crespellano, da poco sessantenne, sposato con due figli, brizzolato ma in piena forma, cordiale, dall’aspetto mite, ci ha accolti nel suo ufficio di Villanova di Castenaso, presso Bologna.
Quasi innumerevoli i suoi incarichi: ricordiamo solo che è stato presidente di Legacoop Bologna dal 1998 al 2004; dal gennaio del 2014 ha assunto la presidenza di Impronta etica (sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa); fa parte del Consiglio di amministrazione di Unipol. Noto per la sua ritrosia e riservatezza, non è mai intervenuto nelle polemiche bolognesi che han fatto seguito all’uscita del libro Coop connection di Amorosi, nel quale viene citato. In una delle sue rare esternazioni ha affermato che laddove, in ambito cooperativistico, esistano comportamenti scorretti o criminali, come nel caso di Mafia Capitale, occorre fare piena pulizia. Poterlo intervistare è stato per noi un autentico scoop. Anzi, giocando con le parole, uno sCoop. E di questo lo ringraziamo. Ecco la batteria di domande.
Come sta Coop adriatica o, meglio, Coop Alleanza 3.0?«In una società che vive male è difficile stare bene. Coop Alleanza, comunque, gode di una discreta salute e sprigiona una buona vitalità: in nove mesi, dalla nascita, abbiamo aperto o ristrutturato 72 negozi, incrementato di 500 persone l’occupazione e abbiamo 100.000 nuovi soci. I numeri non esprimono tutto ma siamo soddisfatti».
Cominciamo con le domande “cattive”. Tante. Le sembra normale avere importanti incarichi entro settori così diversi come quello della grande distribuzione e quello delle assicurazioni Unipol?«Perché cattiva? Parrebbe a lei normale che il presidente della Cooperativa che è anche il socio di maggioranza relativa in Unipol non sedesse nel Consiglio della stessa? Se non lo facessi, credo che i consiglieri di Coop Alleanza dovrebbero, spero gentilmente, chiedermi di cambiare mestiere e in fretta».
Nel proprio libro Amorosi accosta lei agli «uomini del caminetto», cioè, per far capire al lettore, la presunta potente “cupola” affaristica bolognese. Davvero esiste e lei gode del suo “calduccio”?«Il caminetto, nel passato, evocava immagini positive e di rinascita: penso agli interventi di Franklin Delano Roosevelt post grande crisi… Non ho letto il libro di Amorosi, ma credo, per quanto lo conosco, che abbia banalmente scopiazzato quello che da tempo affermano parlamentari come Carlo Giovanardi. O Rodolfo Ridolfi, consigliere politico dell’ex ministro Renato Brunetta. È un luogo comune stupido che tende solo a deformare una situazione. Credo, più nel particolare, che la cooperazione, grande strumento moderno di cambiamento, faccia paura. Una volta perché ideologizzata, oggi perché, in una società che mette al primo posto il profitto e che genera diseguaglianza, viene visto male quel soggetto imprenditoriale che deve generare utili non per arricchire ma per reinvestire».
Non vi è troppa interscambiabilità di incarichi tra cooperative, politica, amministrazione locale, altre società?«Se stabiliamo che in politica sono tutti delinquenti, forse sì. Ma considerato che così non è, non vedo nulla di male in chi, partendo o essendo sempre stato dipendente e socio di cooperativa, vi ritorna dopo aver concluso una sua esperienza politica o chi, da cooperatore e cittadino, si presta per un’esperienza politica».
Non si configura come concorrenza sleale il fatto che le società cooperative pagano solo una parte delle tasse (a seconda che siano una cooperativa di consumo, di lavoro o agricola, le imposte vengono rispettivamente calcolate solo sul 65, 40 o 20% degli utili)?«Proviamo a sfatare un mito con un’affermazione provata: le cooperative pagano più tasse di altre imprese! Abbondano le ricerche in proposito e le segnalo la più recente fatta da Euricse [European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises, ndr] in collaborazione con l’Università di Trento. La confusione sulle imposte merita quindi due precisazioni. La prima. È vero che le cooperative godono di agevolazioni per l’Ires (imposta che tassa gli utili) per il semplice motivo che, come ha previsto la nostra legislazione, gli utili di una cooperativa non possono essere redistribuiti e sono indivisibili. La seconda. Le imposte riguardano poi ogni voce del bilancio, a partire dall’Irap, alle imposte locali, alle imposte sul lavoro. La cooperativa quindi, di norma a intensità occupazionale più elevata, paga più imposte di altre società. Chi continua a blaterare di concorrenza sleale, quindi, e a mio modestissimo parere, non è informato o, essendolo, è in malafede».
È vero che le grandi cooperative come quella che presiede, coi famosi “libretti”, raccolgono denaro dei risparmiatori e con quello giocano in borsa? Ne avrebbero il diritto?«No, non è vero. E basterebbe prendersi la briga, forse faticosa, di leggere un bilancio per rendersene conto dell’ennesima “leggenda metropolitana”».
Vuole assicurare i risparmiatori che hanno messo i propri soldi al sicuro, presso Coop Alleanza 3.0, che non li vedranno svanire nel nulla, come già successo altrove (ad esempio, Cooperative operaie del Friuli-Venezia Giulia)?«I risparmiatori sono assicurati dal patrimonio di una cooperativa e non certo dalle mie parole. Coop Alleanza, grazie alle generazioni che l’hanno fatta nascere dalle oltre 600 cooperative che esistevano ai primi del Novecento, ha un patrimonio di oltre 2,5 miliardi e mantiene liquido e pronto gran parte del suo prestito. Non posso parlare per altri».
Vuole replicare a Oscar Giannino che ha affermato che in Italia stiamo assistendo non solo alla perdita di produttività del lavoro ma anche del capitale, e che le coop hanno contribuito a tale fenomeno da vincenti?«Non riesco quasi mai a capire cosa voglia dire Giannino. Questo è uno dei casi e non posso rispondere a un’affermazione che, sicuramente per ignoranza mia, non comprendo».
Aveva ragione Caprotti (e oggi Cestaro) nell’affermare che, nei territori a guida politica Partito democratico, una Coop avvia un suo super o ipermercato in pochi mesi, mentre gli “altri”, se ci riescono, devono aspettare anni e anni?«Quando lo affermava Caprotti credo che il Partito democratico non fosse nemmeno nelle idee dei suoi promotori… Caprotti, ora deceduto, è stato condannato per diffamazione anche in relazione a queste affermazioni. Cestaro, invece, in chiave di rapporti con la politica, non ha certo qualcosa da imparare da altri, ovvero da rimproverare ad altri. La cooperativa che presiedo ha atteso 18 anni per aprire un superstore a Padova, più di 20 per aprirlo a Pescara e, nel caso del piccolo centro di San Ruffillo (ora aperto da anni), oltre 12 per farlo a Bologna. Credo che, molto più semplicemente, occorra toglierci un brutto vezzo di parte dell’imprenditoria italiana: pretendere di fare quel che si vuole e in barba delle regole. Era quello che voleva fare Esselunga in via Andrea Costa a Bologna, pretendendo di costruire il doppio di quanto ammesso e poi, nella logica di caricare ad altri le proprie responsabilità, buttare la palla nel campo avversario. Anche di questo parlavamo da tempo con Caprotti, in uno scambio epistolare purtroppo interrotto dalla sua scomparsa. Ovviamente con opinioni diverse, ma con grande rispetto personale. Esselunga, non finirò mai di dirlo, ha mille difetti, ma resta una grade azienda da cui, nei decenni, c’è stato molto da imparare, così come la stessa Esselunga ha imparato le politiche della qualità e della private label dalla Coop. Quindi, tornando alla domanda: non è vero! Diventa però verosimile, come accade oggi in alcuni casi, se lo si ripete all’infinito come un mantra e se diventa, come credo nel caso di Cestaro, il tentativo di buttare in caciara la mancata soluzione di problemi solo suoi».
È vero che dove apre un super o ipermercato per ogni posto di lavoro guadagnato se ne perdono circa tre?«Le statistiche dicono l’esatto contrario e comunque, per quanto ci riguarda, abbiamo negozi grandi, gli Iper, ma anche piccolissimi e in comuni e in frazioni dove non andrebbe nessun altro operatore. Più in generale, però, è vero che la Gdo [Grande distribuzione organizzata, ndr], se incontrollata, produce effetti negativi sul tessuto urbano. È un tema su cui riflettere ma non per cercare delle colpe: quanti maniscalchi hanno chiuso con l’avvento del motore? Non dobbiamo parlare di generica modernità, cosa non vera, ma ricordare più semplicemente che trent’anni fa proliferavano in Italia diverse insegne nazionali che oggi non ci sono più. Non ci sono perché hanno visto un’opportunità, nell’Italia in ritardo, prima Casino, poi Rewe, Carrefour, Auchan e ora Aldi. E gli imprenditori italiani si sono affrettati a fare cassa. La Gdo in Italia non l’ha inventata la Coop. La Coop si è difesa innovando. Se poi vogliamo credere che, dall’avvento di multinazionali estere (accadrà anche con Esselunga?), le cose non cambino per l’economia italiana, possiamo crederlo. Così come possiamo credere, mutuando un vecchio detto locale, che “Gesù Cristo è morto dal freddo”. Crediamolo, ma non pretendiamo di offendere la logica e misconoscere i fatti».
E il fatto che la conseguente chiusura delle precedenti botteghe e negozi al dettaglio impoverisce i centri abitati e la comunità civile, aprendo la strada al degrado e ai problemi di sicurezza?«Continuo a credere che la chiusura di tanti piccoli negozi non abbia come responsabile principale la Gdo ma, molto spesso, il ricambio generazionale e l’incapacità di cambiare. È però vero che il problema esiste e va affrontato, così come è vero che un pezzo di rinascita commerciale del centro di Bologna non è certo merito della Gdo. Peraltro, avendo Coop venti negozi, a volte piccolissimi, nel cuore e nella prima periferia di Bologna, è il soggetto più interessato a combattere il degrado».
Un’indagine della rivista indipendente per i consumatori Altroconsumo ritiene che, considerando il rapporto qualità-prezzo dei prodotti alimentari, la Coop non è tra i primi posti (Dove fare la spesa per risparmiare)…«L’indagine di Altroconsumo riguarda i prezzi, non il rapporto qualità-prezzo, che è tutt’altra cosa. Coop risulta comunque più conveniente nel Nordovest, in gran parte del Centro Italia e in alcune province del Sud. Altre indagini, più raffinate ed eseguite con metodi scientifici, esaminano molti più prodotti comparabili, vagliano il prezzo per tutto l’anno, l’insieme delle promozioni fatte e la qualità dei prodotti forniti. E, inoltre, l’innovazione di prodotto, i controlli sul prodotto e la sicurezza alimentare. Per queste indagini Coop non ha rivali!».
Coop appare come uno degli esempi più tipici del “politically correct”, ovvero badare alla forma buonista e non alla sostanza, vendere un mondo irreale, sdolcinato, da The Truman Show. Come può replicare a tale appunto?«Se essere “politically correct” vuol dire lavorare, con umiltà e modestia, per cambiare in positivo una società sempre più diseguale, noi siamo politically correct! La critica, di solito, ci viene mossa da chi vive sulle critiche ad altri e non si è mai curato di pensare cosa lui possa fare di positivo. Se scontare la spesa a cassintegrati e disoccupati, portare gratuitamente, attraverso migliaia di volontari, la spesa a chi non può muoversi da casa, raccogliere i prodotti in scadenza (da 15 anni e ben prima delle mode) e donarli alle comunità per sfamare gli indigenti (12 milioni il valore del 2016 in Coop) vuol dire essere politically correct, allora lo siamo. Anzi, ne siamo orgogliosi».
Vien da pensare male riguardo al fatto che i media bolognesi han dato poco spazio al libro-denuncia di Amorosi, in buona parte “ambientato” nel capoluogo felsineo e, soprattutto, che non abbiano cercato di interpellare i personaggi citati nella pubblicazione…«Dovrebbe chiederlo ai media bolognesi, nazionali e mondiali. Non ho letto il libro di Amorosi, pur in vendita nelle nostre librerie, e quindi non riesco a essere più preciso. Peraltro, se non ricordo male, Amorosi scrive per diversi media e quindi non mi pare che gli manchino casse di risonanza».
Il nostro collaboratore Christian Corsi, sul finire del suo articolo (Cooperative, un successo viziato) del mese scorso, auspicava innanzi tutto – ma ci sembra un’utopia – il recupero del «valore autentico della cooperazione». Oggi cosa è rimasto dello spirito ideale cooperativistico socialista e comunista (da Camillo Prampolini in poi, tanto per intenderci; vedi Se in Italia avessero avuto più spazio i riformisti…)?«La cooperativa è un modernissimo strumento. Lo strumento è intergenerazionale e se, parlando male della cooperazione, si vuole invece colpire persone o dirigenti (“l’odiata casta”), si sappia che questi, prima o poi, lasceranno il campo. Si critica spesso ciò che non si conosce o che ti sembra strano perché non omologabile e non ci si pone il problema dell’accesso a una cooperativa in cui, banalmente autocandidandoti ed essendo votato a scrutinio segreto da tutti i soci che lo chiedono, puoi diventare consigliere e quindi anche presidente. Perché, allora, anziché passare tempo su Facebook sentendosi i depositari di una tradizione cooperativa che non si conosce, non lo si fa ? Forse perché richiede sacrificio e dedizione? Non è credibile quanto affermo? Ci si informi e ci si metta alla prova! Ho fatto l’esempio della governance di Coop Alleanza 3.0 in cui, tra l’altro, non puoi ricoprire una carica amministrativa per più di tre mandati. In Italia, poi, restando allo strumento, sono nate centinaia di imprese cooperative da aziende in crisi e si sono salvati migliaia di posti di lavoro. Ma ogni storia è unica. Non si recupera ciò che ancora esiste, i valori e la mission, li si rende coerente con le fasi storiche. Non è quindi un’utopia perché occorre fare altro».
In effetti, esistono cooperative “farlocche” che poco hanno a che vedere con la vostra realtà…«Le cooperative, genericamente accumunate in un tutt’uno, hanno ognuna una loro storia. In Italia, complice una legislazione monca e molti furbetti, sono nate migliaia di cooperative false (spurie). Spesso per volontà dell’imprenditore stesso che le promuoveva per esternalizzare dei suoi processi e comprimere il costo del lavoro. Questi sono i peggiori nemici della cooperazione! Questi soggetti, chi li promuove e chi li utilizza, vanno combattuti e senza tregua ma, su questo, vediamo una grande latitanza della politica e del mondo imprenditoriale. Credo che, in questo campo, il mondo associativo dovrebbe recuperare una sua utilità piena: perché non sottoscrivere un accordo che “metta al bando” l’uso di tutte quelle aziende, cooperative e non, che fanno dello sfruttamento sulla persona la loro ragione di esistere? Perché non espellere gli associati che utilizzano questi strumenti e scorciatoie? Noi ci siamo!».
Sempre Corsi auspicava un’alleanza tra realtà italiane, cooperative e non, ad esempio della grande distribuzione alimentare, per essere competitivi sul mercato internazionale (invece, sono francesi e tedeschi a invaderci…).«Ho letto con interesse l’articolo di Corsi che vedo però ammantato da molta ingenuità o forse frutto di informazioni parziali: le aziende italiane della Gdo sono nani se rapportate a quelle mondiali o anche solo europee. La nostra occasione l’abbiamo persa quando esistevano GS, poi venduta ai francesi, Rinascente, Standa ecc… Il momento in cui la politica di altri, come la Francia (il presidente François Mitterrand paragonava la Gdo alla sua portaerei per esportare i prodotti francesi nel mondo), favoriva il processo di “esportazione” della Gdo, mentre quella italiana, associata a un’imprenditoria miope (allora i proprietari delle catene citate si chiamavano Agnelli, Berlusconi e Benetton), ne favoriva la vendita a operatori internazionali in nome della modernità e della globalizzazione, ma, aggiungo io, molto più semplicemente per fare cassa. Ci rimane però il prodotto, un’agricoltura che esalta le tante biodiversità e le nicchie, una tradizione alimentare che il mondo ci invidia. Non facciamo quindi alleanze per aprire negozi all’estero, costruiamo una rete per promuovere il prodotto dei piccoli operatori agroalimentari. Questo è necessario».
Eccoci, dunque, che ci siamo “allargati” alla realtà “globale” e agli sconquassi Brexit e Trump. I lavoratori dipendenti, gli operai, la gente comune, che un tempo credevano nei partiti socialisti e comunisti, oggi si sentono traditi da loro, dall’acritica adesione all’Unione europea tecnoburocratica e alla globalizzazione selvaggia che impoverisce, e persino dalle cooperative, percepite come attività di puro profitto economico o di “sfruttamento” dei bisogni sociali o migratori. Lei gira per strada, sugli autobus, nei mercatini, negli ambulatori dei medici di famiglia?«Sentirsi traditi da un qualcosa che non esiste più, come i partiti comunisti, mi sembra il simbolo della percezione e non della realtà. Ciò detto, ribadisco un concetto: smettiamola di parlare “delle cooperative”! Facciamo un servizio alla chiarezza e all’informazione, diamo un nome al soggetto. Io sono stanco di essere tirato in ballo per soggetti, come le cooperative spurie di cui parlavo poc’anzi, che con noi non hanno nulla a che vedere se non la ragione sociale. Sarebbe come accusare la Fiat, una Spa, per un illecito commesso dalla Parmalat… altra Spa. Combattiamo le cooperative spurie, false e il malaffare, ma combattiamo togliendo loro la ragione di esistere e quindi intervenendo “sui mandanti”, su chi le fa nascere, e sugli utilizzatori che spesso operano con la giustificazione del “così fan tutti”. Il fine, che sia il profitto o la salvezza di posti di lavoro, non può mai giustificare il mezzo, se quest’ultimo è illegale. Ho visto e letto di dirigenti cooperativi che, con la scusa di salvare o sviluppare posti di lavoro, sono arrivati a compromessi con la malavita».
E, allora, che fare in questi casi?«Occorre fare pulizia e chiarire che chi usa queste pratiche va rimosso e perseguito. Se, per salvare un’azienda, sia cooperativa che altra, debbo fare compromessi illegali, allora è meglio che la cooperativa muoia: ha terminato la sua ragione di esistere! La cooperazione nasce per il riscatto del lavoro, per crearne di buono, per dare sicurezza alimentare, per aggregare la produzione, per rispondere a bisogni sociali. Se media col malaffare, non fa il suo mestiere e non adempie alla sua missione. Banalmente, non serve più».
I “poveracci”, ossia i socialmente deboli resi ancora più fragili dall’epocale tracollo economico, vale a dire i ceti che la cooperazione pulita difende e aiuta, come ha detto lei, sembrano ormai votare, in maggioranza, per i partiti cosiddetti di destra o populisti (e che sarebbe meglio definire, senza spocchia, “popolari” o antisistema). Soggetti politici che, almeno in apparenza, sembrano avvertire e comprendere di più il loro disagio, se non disperazione senza futuro…«Non mi occupo di politica attiva da moltissimo tempo, ma resto con una passionaccia e una grande attenzione ai fenomeni. Mi permetta quindi di dire che oggi più di ieri non vedo partiti “popolari” e che quelli antisistema, se sono partiti, prima o poi determineranno le regole di un sistema».
Ci avviamo alla fine della nostra garbata conversazione. Eppure, l’esperienza di tanti – ma anche nostra personale – è che in Emilia e altrove, il mondo della sinistra (e del Pd, in particolare) reagisca con spocchia, arroganza e intolleranza ai limiti della proscrizione e dell’ostracismo verso chi dissente o assume posizioni “eretiche”, specie se idealmente e politicamente vicino (non immagina quanti tolgono il saluto o l’amicizia facebook a chi non si è “allineato”). Un odio profondo verso la libertà e l’anticonformismo… Retaggio stalinista? Lei è un’eccezione?«Per essere “un’eccezione” dovrei rappresentare il Pd… Ma, se ne faccia una ragione, non è così e non c’è nulla di più distante dalla realtà! Pur guardando con il dovuto rispetto a ogni forma di politica, sia quella espressa dal Pd (il termine “retaggio stalinista” per il Pd di oggi mi pare antistorico), che quella movimentista del Movimento 5 stelle, ma anche della Lega Nord, non credo di essere la persona più indicata a dare la risposta a una tesi alla quale non potrei portare nessun valore aggiunto. La cooperativa che presiedo opera in circa 400 comuni e ha contatti, spesso richiesti, per il supporto di iniziative di carattere sociale o culturale, con sindaci di ognuno dei partiti richiamati e anche con altri. Siamo laici da decenni e rispettiamo chi ci rispetta, non chi ci fa favori che non sono richiesti».
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 132, dicembre 2016)
Intervista molto interessante: i miei complimenti all’intervistato e all’intervistatore.
Gentilissimo lettore, grazie.
Quante belle domande, quante risposte false e in malafede. Il mondo cooperativo “Big” dovrebbe sparire, con tutti i suoi privilegi prevalentemente occulti. Non se ne può parlare, perché esistono ancora giudici distorti che tappano la bocca alla verità. Ma presto tutto questo orrore finirà.
Gentilissimo lettore, grazie per averci scritto.
Comunque occorre dare atto a Turrini di non essersi sottratto a domande abbastanza scomode.
Sarà poi la verità storica, con “la giusta distanza”, a emettere una valutazione sul fenomeno cooperativistico odierno.