È il momento di ripensare in maniera critica l’industria moderna e riflettere sullo scandalo che la convenienza di un individuo si basi sullo sfruttamento di altri
Benvenuti nell’era del “tutto e subito”, dove beni e servizi non solo si possono ottenere in tempi brevissimi e con ogni garanzia ma anche (e soprattutto) a prezzi irrisori. È in atto una rivoluzione industriale 2.0 in cui la filosofia di consumo è volta alla ricerca della massima resa con la minima spesa. Il modello di produzione solleva l’acquirente da rischi e oneri, scaricandoli su lavoratori e ambiente. In un contesto simile, il benessere individuale e momentaneo prevale su quello collettivo e di lungo termine.
L’ascesa incontrollata di aziende come Amazon ne è la dimostrazione: il colosso statunitense del commercio elettronico garantisce consegne rapide tutti i giorni della settimana (sì, compresa la domenica). Non solo: registrandosi con un account premium è possibile ricevere gli ordini in meno di 24 ore. La necessità di accorciare l’attesa del cliente si traduce in orari di lavoro lunghi e faticosi per fattorini e addetti allo smistamento. Secondo Business Insider un “supermagazziniere” incaricato di confezionare la merce tratta fino a 24mila pacchi al giorno e percorre uno spazio equivalente a dieci chilometri, non può parlare con i colleghi e deve fornire una motivazione se richiede di andare al bagno per più di una volta in un turno. Una vera e propria alienazione dell’individuo, la cui manodopera viene meccanizzata e “spremuta” all’estremo per trarne la maggiore efficienza.
Funziona così anche l’industria del fast fashion, che concentra i suoi stabilimenti in zone come il Nord Africa, dove la forza lavoro è sottopagata e vigono normative meno stringenti in tema di sicurezza e inquinamento. Un rapido sguardo ai cartellini di Bershka, Primark o Zara basterà a far nascere seri dubbi su quale sia il guadagno nel vendere i capi a prezzi così stracciati.
Il rinnovo delle collezioni è, appunto, fast poiché uno stock di abiti deve essere pronto in poche settimane. Le grandi catene di vestiario inviano le materie prime alle industrie tessili locali, ad esempio del Marocco, che riconsegnano poi la merce ultimata con costi e tempi record. Per farlo è necessario sottoporre gli operai a orari indegni, con una quasi totale assenza di tutele e uno stipendio misero (La frenata del fast fashion. Da H&M a Zara e Uniqlo, il modello da ripensare, Corriere della Sera). Diverso continente, stesso modus operandi: in Cina i livelli di smog nell’aria, leggermente diminuiti con il lockdown, sono ritornati quelli di sempre o sono addirittura peggiorati. Ma incolpare Pechino di una scarsa serietà a riguardo non basta: serve essere consumatori consapevoli e domandarsi cosa si celi dietro ogni oggetto che acquistiamo. Abiti, articoli per la casa, giocattoli e molto altro sono lì davanti ai nostri occhi, accessibili alle nostre tasche ma con un trascorso, una catena di produzione che li ha condotti sullo scaffale.
Questo modello, votato alla fruizione istantanea dei prodotti, si è diffuso in diverse sfere della vita quotidiana. Abbiamo un’irrefrenabile voglia di sushi a mezzanotte? Chiamiamo un Glovo (o un Deliveroo, o un JustEat). Un rider ci porterà il cibo nei 45 minuti successivi e ne otterrà pochi euro di guadagno (L’odissea dei “riders”: ecco chi paga il prezzo della “gig economy”, LucidaMente 3000).
Vogliamo andare a Corfù al costo di un caffè? C’è Ryanair a fornire voli anche a un euro. Ovviamente, i dipendenti o i piloti volano per molte ore consecutive senza pause e le emissioni ambientali sono enormi. Insomma, ci troviamo di fronte a uno schema reiterato: consumare e non pensare. L’aspetto critico è che molte persone, pur coscienti di che cosa comportino le proprie scelte, continuano a perseguirle. La convenienza è troppo alta rispetto a quello che è percepito come un rischio basso o comunque lontano. E allora l’unico modo di invertire la rotta è cambiare il nostro concetto di “convenienza”, improntandolo a un consumo etico: comprare un articolo di qualità e che duri nel tempo, anziché tanti scadenti che saranno da buttare dopo un anno; prediligere aziende sostenibili e che trattino equamente i lavoratori, per i figli che dovranno abitare la realtà del futuro e cercarvi un impiego; apprezzare il processo nel quale un prodotto viene concepito ed elaborato e acquistare anche la storia e l’unicità del prodotto stesso, pure questo può essere un valore.
Ecco solo pochi esempi di come si potrebbe rivoluzionare la mentalità e diventare acquirenti più responsabili. Si dice che molti astronauti, vedendo la Terra dallo spazio, sperimentino l’effetto “veduta d’insieme”, ovvero la travolgente sensazione di costituire un minuscolo tassello dell’Universo e dover agire per preservarlo, la consapevolezza di essere parte di una collettività il cui male è il proprio male e, viceversa, il cui bene è anche il bene del singolo. Dovremmo metaforicamente guardarci da fuori e cominciare, nel nostro piccolo, a pensare come gli astronauti.
Le immagini: uno stabilimento Amazon (foto tratta da la Repubblica) e un negozio di Zara.
Alessia Ruggieri
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 176, agosto 2020)