Il segretario della sezione Turati di Bologna analizza la situazione politica e guarda al futuro
L’ultima tornata elettorale, prima amministrativa, referendaria poi, è risultata un momento di enorme rilevanza politica per il nostro Paese.
Le elezioni amministrative hanno determinato una chiara sconfitta per il patto di centro-destra, sconfitta causata dal non mantenimento delle reiterate promesse fatte agli elettori fin dall’inizio della legislatura, dalle solite grane giudiziarie del ministro del Consiglio, condite anche dai presunti scandali sessuali che hanno turbato l’elettorato cattolico e quello maggiormente sensibile al tema dell’etica nella vita pubblica, dalle mancate risposte ai drammatici problemi posti da chi si ritrova ogni giorno più povero e senza prospettive come tanti giovani precari e disoccupati.
All’appuntamento elettorale va aggiunto il referendum, che ha avuto come connotazione una forte politicizzazione andando al di là dei veri contenuti dei quesiti referendari e trasformandosi in un referendum su Berlusconi stesso.
Dalle elezioni amministrative risulta che il Partito socialista italiano, nonostante l’enfatizzazione da parte dei dirigenti nazionali di un complessivo 2,3 per cento (raggiunto nei comuni con oltre 15.000 abitanti), subisce una sonora sconfitta proprio nelle principali città: infatti, nelle dieci città con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti riesce ad eleggere un consigliere comunale con la propria lista solo a Salerno (con il Psi al 4,5%) e a Milano, dove il compagno Biscardini è eletto in lista con il Partito democratico. Siamo un partito a macchia di leopardo (o per meglio dire a piccole macchie). La sua sopravvivenza nel Mezzogiorno è garantita da personalità che godono di un consenso personale e questo consenso si riflette indirettamente sul partito che rappresentano; nell’Italia settentrionale, invece, tenuto conto delle diverse dinamiche elettorali dove vi è una prevalenza del voto di opinione, il partito, sia da un punto di vista organizzativo sia da un punto di vista politico, risulta praticamente inesistente.
I socialisti sono sconfitti, i riformisti, quelle persone che vorrebbero affrontare la politica con sano pragmatismo, sono in netta ulteriore minoranza, soprattutto per la posizione del Pd, proiettato verso una coalizione più spostata a sinistra e ancora giustizialista, con il richiamo di sirene che promettono tutto e subito e non riescono a fornire che sogni, seppur questi necessari, vista la totale assenza di un progetto che possa accreditarla come alternativa al centro-destra, determinando l’ormai obsoleta rappresentazione di un’armata Brancaleone che ha come unico collante l’antiberlusconismo.
Dobbiamo domandarci se i nostri risultati sono ancora figli e frutto della damnatio memoriae del Psi della prima repubblica o se ci sono responsabilità che attengono al presente. Se da un lato l’aver mantenuto ad ogni costo e in ogni modo il lumicino acceso nei bui anni della seconda repubblica è sicuramente stato un importante traguardo raggiunto dai dirigenti socialisti, dall’altro il cambiare costantemente pelle non ci ha aiutato ad acquisire una visibilità certa, continua e permanente. Chiusi nelle diatribe identitarie del passato, amministratori di una rendita di posizione derivante dalle necessità generali di costruire coalizioni ampie e da leggi elettorali che favorivano questa soluzione, i gruppi dirigenti del movimento socialista hanno praticato una navigazione tattica oscillando tra una linea identitaria ed un’altra proiettata nella ricerca di aggregazioni con altre forze riformiste. Una politica che è stata spesso incapace di costituire la propria caratterizzazione su battaglie di largo respiro e di rilevanza nazionale.
Fatte queste opportune premesse, occorre interrogarsi sul nostro stesso senso di esistere e sull’utilità del nostro partito.
Attualmente il Psi è sicuramente utile a pochi compagni che riescono a svolgere un qualche ruolo di amministrazione locale grazie all’etichetta partito; la salvezza di una organizzazione di partito non serve, in sé: non serve perpetuare un partito piccolo per garantire le carriere di microgruppi dirigenti provinciali e regionali che mirano a mantenere in qualche modo un assessorato o un seggio o, ieri, una piccola pattuglia di parlamentari e, forse, domani, confluendo in contenitori più grandi. Sarebbe assurdo, dopo aver rifiutato l’ingresso nelle liste del Pd da ospiti, andarvi da sconfitti.
L’altro interrogativo è quale compito possiamo svolgere oggi e nell’immediato lasciando che la strada maestra, che non può essere decisa dagli eventi quotidiani e dalle posizioni di singoli esponenti, sia frutto, in un partito che si definisce democratico, di un congresso che deve essere svolto nel più breve tempo possibile, evitando i consessi falsamente unitari che lasciano poi a ognuno la libertà di muoversi secondo convinzioni e convenienze proprie.
Il nostro compito oggi è di fornire il nostro contributo per far sì che una coalizione di centro-sinistra, superando la sola aggregazione antiberlusconiana, sia pronta a governare con un programma credibile, realizzabile ed efficace, uscendo dalla mera elencazione dei problemi da affrontare ma individuando soluzioni verosimili con priorità a breve, medio e lungo termine.
Al primo punto i provvedimenti urgenti per un nuovo welfare fondato sulla cittadinanza, non sulle corporazioni, i gruppi d’interesse, l’appartenenza regionale o familiare. Occorre un reddito di cittadinanza, un salario minimo, politiche attive per l’occupazione, una riforma fiscale che privilegi il lavoro rispetto alla rendita.
Non va dimenticata la rivisitazione della Carta costituzionale, senza tabù, che riveda l’assetto istituzionale finalizzandolo al minor costo della politica, con la riduzione dei parlamentari, la riduzione dei comuni, il superamento delle province, almeno nelle città metropolitane.
Potremo così verificare se esistano le condizioni per alleanze con le forze politiche, alleanza non più basate sui tornaconti personali ma improntate ad uno spirito e ad una prassi riformista.
Dobbiamo interloquire anche con forze del cosiddetto terzo polo, superando vecchi e nuovi pregiudizi, ricordando nuove e vecchie affinità, come ad esempio le posizioni di destra sociale di Futuro e libertà per l’Italia, in particolare sul precariato, chiarendo che nel nostro paese distinguiamo una molteplicità di riformismi, da quello cattolico, dal quale ci distingue soprattutto la nostra difesa della laicità dello Stato, a quello laico, liberale e repubblicano col quale, specie in Romagna, condividiamo antiche radici, fino a quello nato all’interno della cultura comunista, specie nella nostra regione, e a quello ecologico.
Sempre più gli elettori voteranno non rispetto all’identità dei partiti, ma per la capacità di risolvere i problemi.
Per avere una bussola che ci mantenga su una linea di navigazione e ci consenta di compartecipare ai programmi e all’alternativa di centro-sinistra, occorre puntualizzare, ad esempio, cosa significa essere riformisti e socialisti, consentendoci di verificare se rimangono intatte le motivazioni che ci hanno fato aderire in tempi più o meno recenti al Psi.
Il riformismo è un metodo, un approccio di chi pensa che le condizioni dei più disagiati, di chi vive del proprio lavoro, possano essere migliorate da un’azione politica quotidiana, che ridistribuisce la ricchezza prodotta anche attraverso il sistema di sicurezza sociale, la politica fiscale, del lavoro, dei diritti, della sanità e della previdenza, creando le condizioni migliori per il numero più grande di persone, in uno stato di piena libertà e totale democrazia.
Non può dirsi riformista una politica che toglie ai poveri per dare ai ricchi, come quella del ministro Tremonti, o che disegna una scuola entro la quale ricompaiono le divisioni di ceto, e dove la dinamica sociale è governata dallo status di nascita, magari esente da tasse di successione per i grandi patrimoni, e via via controriformando, mantenendo, e non regolando, palesi storture, come il totale controllo dei mezzi televisivi sia pubblici sia privati, ingenerando un gigantesco conflitto d’interessi che non ha eguali al mondo.
Il riformismo è laico, rifiuta dogmi, liturgie, che sono tipiche di una ideologia onnipervasiva, nonché ogni messaggio salvifico che si oppone al libero dispiegarsi del pensiero, della critica, della libertà di espressione e di analisi. Il riformismo rispetta l’indipendenza della scienza e dell’arte, nonché l’autonomia della società civile, che deve essere libera di organizzarsi senza piegarsi ad un modello precostituito. Carattere peculiare del riformismo è la concretezza e la capacità realizzatrice, una volta individuate le risposte da dare ai problemi che la società deve affrontare, da quelli sociali a quelli dello sviluppo economico, a quelli della pace e della difesa delle istituzioni democratiche.
È tale ispirazione – di metodo e di contenuto – che ha permesso al movimento socialista di stampo riformista di creare, dalla fine della seconda guerra mondiale, il “miracolo” dello stato sociale, che costituisce l’autentica rivoluzione pacifica dell’epoca contemporanea. Una rivoluzione che ha fatto definire il ventesimo secolo come il “secolo socialdemocratico”. In conseguenza dell’affermarsi del welfare s’è venuta a creare una profonda trasformazione nella struttura delle società più avanzate con un processo di socializzazione della ricchezza collettiva che trasferisce alle scelte pubbliche circa la metà del reddito prodotto annualmente da ciascun paese. Questo significa che per effetto dell’azione riformista si è prodotta una radicale mutazione genetica nel sistema che si definiva capitalistico, che oggigiorno assume una natura profondamente diversa da quella sua originaria.
Se lo stato sociale costituisce il pilastro di quello che può definirsi il “modello di cultura” riformista, gli altri due pilastri sono rappresentati dal laicismo e dal garantismo: cioè due aspetti fondamentali di quello stato di diritto, che sono essenziali alla visione e all’iniziativa del riformismo socialista, e ne contrassegnano anche la propria identità.
In realtà per dirsi riformisti bisogna coerentemente proporre e fare riforme. E soprattutto non avere paura. Anche perché, come sostenevano i vecchi riformisti, fare le riforme può essere impopolare, ma non farle è antipopolare.
Come socialisti e riformisti è necessario distinguere in termini di valori e ideali, tra invarianti e varianti.
I valori invarianti sono quelli connessi all’identità permanente del socialismo democratico e ne costituiscono il gene immutabile. Essi sono fermi nella loro validità: la libertà, la solidarietà, il rispetto per la personalità umana, la lotta per la giustizia sociale e contro ogni forma di disuguaglianza, il rifiuto di ogni forma di oppressione degli individui, dei popoli, delle classi sociali più deboli.
Accanto ad essi ci sono valori e obiettivi varianti, che mutano con il trasformarsi della società, poiché il movimento socialista vive e opera nella società reale e non nell’astrazione. I suoi principi sono realizzati, non soltanto dichiarati: per cui si deve tener conto del mutare delle situazioni reali. La forza del socialismo riformista è stata, nel passato, come dovrà esserlo nel futuro, la sua capacità di mutamento, che non contraddice i suoi valori permanenti, ma li adegua costantemente, interpretando e sovente anticipando le nuove esigenze, i nuovi bisogni che emergono dalla vita degli individui e dei popoli.
Oggi tutti si dicono riformisti, anche chi da governo attua vere e proprie controriforme, o chi dall’opposizione fa della pura e semplice difesa dello status quo il proprio essere riformista. Certo non è facile trovare una coalizione che racchiuda in sé tutti questi valori, ispirazioni, peculiarità; del resto non possiamo essere arroccati in noi stessi con la presunzione di essere ancora i primi della classe. Non c’è nemmeno un partito, al momento, che contenga in sé tali caratteristiche: se ci esistesse, sarebbe naturale il nostro autoscioglimento.
Al di là delle critiche che ogni compagno legittimamente avanza, è preferibile che tutti assieme si pervenga alla richiamata necessità di un congresso per decidere, ripeto assieme, ruolo, funzione, alleanze, strutture organizzative orizzontali o verticali, o anche il superamento del Psi o la sua confluenza in altre formazioni politiche. In quest’ultimo caso sarà forse allora che converrà a un vecchio socialista adoperarsi affinché un circolo, una fondazione, un’associazione, mantenga viva, almeno dal punto di vista storico, un’esperienza entusiasmante che ha saputo emancipare un popolo intero.
Franco Ecchia (segretario della sezione Turati del Partito socialista italiano – Bologna) e gli iscritti alla sezione
(LucidaMente, 9 agosto 2011)