Gli antagonismi all’interno della Mezzaluna fertile rischiano di destabilizzare una regione già fragile e divisa. Il defilarsi degli Usa apre le porte a Putin e rischia di ridare slancio a un fondamentalismo islamico mai del tutto sopito
11 ottobre 2019, l’esercito turco ha dato il via a un attacco militare contro i curdi invadendo il territorio a nord della Siria. Il raìs di Ankara Recep Tayyip Erdoğan ha approfittato dell’inaspettata ritirata delle forze armate americane, unica difesa del popolo curdo contro l’invasione turca. La comunità internazionale ha condannato apertamente la violenta escalation, senza tuttavia promuovere degli interventi effettivi: sanzioni economiche, intervento diretto dell’Onu, embarghi. Negli ultimi giorni si è fatta avanti la Russia di Vladimir Putin, ormai unico vero ago della bilancia in Medio Oriente.
I curdi sono un popolo di etnia e lingua indoeuropee, a maggioranza musulmana sunnita, insediato in una parte della cosiddetta Mezzaluna fertile – ai confini tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Una loro peculiarità è l’importanza delle donne nella società (e anche nell’esercito) e la tolleranza verso le altre culture, etnie e religioni. Il loro obiettivo principale è la creazione di uno Stato indipendente: il Kurdistan. Con il Trattato di Losanna del 1923 alla fine della Prima guerra mondiale, gli alleati tradirono le promesse fatte al popolo curdo – Trattato di Sèvres del 1920 – ridisegnando i confini in Medio Oriente. Oggi questa popolazione continua a vivere in uno stato di minoranza nei Paesi in cui permane, subendo violente repressioni. La situazione è ulteriormente peggiorata nel 2014, con l’ingresso dei curdi nel conflitto in Siria contro lo Stato islamico. Evitandoci una guerra sanguinosa, il popolo curdo ha avuto la possibilità di guadagnare visibilità e sperare in un aiuto da parte dell’Occidente per la sua causa.
La Turchia di Erdoğan, preoccupata per la possibile nascita di uno Stato curdo indipendente ai suoi confini meridionali con la Siria, ha iniziato a colpire le basi dei curdi siriani. Lo scorso 7 agosto, dopo un lungo negoziato, il Raìs turco ha raggiunto un accordo con gli Usa: la costituzione di una zona cuscinetto nel Nord della Siria. Quest’area, larga 32 km e lunga 480 km, presidiata da qualche centinaio di soldati americani, avrebbe diviso le forze di Ankara da quelle curde. A inizio ottobre Donald Trump decide a sorpresa di ritirare le truppe statunitensi dalla safe zone, giustificando tale scelta con il mancato aiuto dei curdi durante lo sbarco in Normandia (sic!). L’offensiva turca non si è fatta attendere, violando con l’esercito la zona di sicurezza. L’obiettivo di Ankara è duplice: indebolire le milizie e il popolo curdo, da sempre visto come una minaccia per la sicurezza nazionale, e spostare in quella zona cuscinetto migliaia di profughi siriani rifugiatisi negli ultimi anni in Turchia.
La Turchia ha conquistato la città siriana di Ras al-Ayn che si trova al ridosso del proprio confine. Erdoğan mira a prendere il controllo anche di Manbij e Kobane. La prima strategica in quanto sorge lungo la M4 – rotta commerciale – la seconda simbolo della lotta contro l’Isis, sconfitto nel 2015. Inizialmente le milizie dell’Ypg (Unità di protezione popolare) sono state le uniche a opporsi all’avanzata turca, ma i dirigenti curdi hanno dovuto fare i conti con la realtà, accettando attraverso la mediazione russa l’alleanza con il presidente siriano Bashar al-Assad. Il 22 ottobre Putin, insieme a Erdoğan, è riuscito a trovare un’intesa a Sochi sulla spartizione delle aree curde nel nord-est della Siria. I curdi hanno avuto a disposizione alcuni giorni per allontanarsi dalla fascia di sicurezza stabilita dalla Turchia, lunga 120 km e larga 3 km. Damasco controllerà la parte settentrionale del Paese, mentre Mosca e Ankara pattuglieranno congiuntamente il confine turco-siriano.
Cosa ci resta di questa difficile situazione? Per prima cosa il sacrificio del popolo curdo, immolato per l’ennesima volta sull’altare della convenienza politica ed economica della Russia e degli Stati uniti. In secondo luogo, l’Unione europea è apparsa debole e appiattita anche questa volta. A cosa sono servite le prese di posizione di alcuni Stati membri contro la vendita di armi alla Turchia – tra l’altro solo per il futuro? Trump ha confermato il disinteresse della sua amministrazione per le situazioni che non riguardano l’America direttamente. Questa decisione va a vantaggio diretto della Russia, sempre più egemone in Medio Oriente grazie anche a questa nuova alleanza che si va profilando con la Turchia. I Paesi europei non possono tacere davanti alle minacce di Erdoğan di aprire i cancelli che trattengono migliaia di profughi siriani, non possono voltare le spalle al popolo curdo che ha combattuto al nostro posto una guerra sporca contro Daesh. Stato islamico che, nonostante la morte del loro leader Abū Bakr al-Baghdādī – riportata il 27 ottobre dal presidente Trump – non è stato sconfitto del tutto. Centinaia di sostenitori del califfato, approfittando dell’azione militare turca, sono fuggiti dai campi di detenzione siriani sorvegliati dai miliziani curdi. L’Occidente è stato più volte responsabile della destabilizzazione del Medio Oriente attraverso scelte miopi e di convenienza. Non possiamo più nasconderci davanti alle nostre responsabilità.
Paolo Romoli
(LucidaMente, anno XVI, n. 167, novembre 2019)