“Nessuna azione è un crimine”, dice una nota frase di Sade. Tale affermazione potrebbe essere il punto di partenza de L’appuntamento, un originale romanzo di Leonardo Marini, di prossima uscita presso la collana Nerissima della inEdition editrice.
L’antropofagia è il più terribile dei nostri tabù, quello che più atrocemente contrasta le radici della nostra cultura, del comune sentire. Giacomo e Ilario si conoscono per chat e decidono di incontrarsi per compiere questo atto, la più folle violazione del patto sociale.
Giacomo è un uomo fra i cinquantacinque e i sessanta, magrissimo e minuto; della sua esistenza non ha fatto pressoché nulla, fuma in maniera compulsiva, vive in un isolamento amaro e astioso. Ilario ha trent’anni e abita con i genitori, ai quali è affezionatissimo. A differenza dell’altro, è socievole, estroverso, ha un suo mondo di affetti e amicizie. Ma qualcosa lo àncora al passato e gli rende impossibile l’ipotesi di un qualsiasi futuro.
L’appuntamento è il racconto della giornata che Giacomo e Ilario trascorrono insieme. Sono determinati a realizzare la loro tremenda e misteriosa ossessione, ma queste ore, di lenta e angosciante attesa, si trasformano, con loro stessa sorpresa, nel principio di una vera e propria storia d’amore.
Benché narri una vicenda di antropofagia, questo romanzo non ha nulla di scabroso. Descrive la nascita di un legame profondo tra due individui. Ed è una riflessione addolorata sulla nostra civiltà, sul nostro tempo.
Le seguenti righe appartengono al dialogo in cui i due protagonisti parlano dell’origine della loro ossessione.
In cucina la radio era ancora accesa, con la frequenza un po’ disturbata. Ilario la spense e guardò lì accanto la custodia dei coltelli. Aprì il frigo e versò un po’ di acqua minerale in un bicchiere. Prima di richiudere vide che in uno degli scomparti c’era una mezza tavoletta di cioccolato bianco. La prese e chiuse lo sportello. Invece di tornare subito in camera, restò un po’ lì, pensoso, con la schiena appoggiata al frigo. Quasi senza accorgersene cominciò a mangiare la cioccolata, a piccoli morsi.
“Ilario, che fai?”, lo richiamò il compagno dall’altra stanza.
“Arrivo.”
Si cacciò in bocca tutto quel che restava della cioccolata e, con il bicchiere in mano, fece per uscire dalla cucina, ma Giacomo entrò proprio in quell’istante.
“Ma stai sempre a mangiare?”
“Come direbbe mio papà,” rispose Ilario, imbarazzato, “mi hai beccato con il sorcio in bocca.”
Giacomo sorrise, prese il bicchiere dalla mano dell’altro e lo bevve, lentamente, tutto in un sorso. Non ancora pago, aprì il frigorifero per versarsi dell’altra acqua.
“Che sete che mi è venuta. Mi sembra di avere la gola piena di sabbia”, riempì il bicchiere fino all’orlo e si sedette, “Ti posso fare una domanda? Ci penso praticamente da quando abbiamo cominciato a sentirci per chat.”
“Dimmi.”
Giacomo esitò, forse per una inopinata timidezza o forse temendo che la sua domanda potesse guastare qualcosa fra lui e l’altro.
“Allora? Che domanda?”, chiese Ilario, divertito e incuriosito, sedendosi davanti a lui.
“Volevo chiedere… Da quando è che hai cominciato a pensare a… a quello che stiamo per fare? Da quando hai cominciato a desiderarlo? Come è successo a te?”
Ilario sorrise per la curiosità del compagno, che era improvvisamente uscito dalla sua ombrosità e mostrava un inaspettato interesse per l’altro.
“E’ vero,” cominciò il ragazzo, tornando ad un ricordo che non aveva alcun bisogno di cercare e scavare nella memoria, “c’è un preciso istante in cui ho cominciato a pensarci. E’ stato qualche anno fa, cinque anni fa. Era appena cominciata l’estate e le giornate si stavano allungando. Un pomeriggio uscii dal lavoro e vidi che il sole non era ancora al tramonto. C’era un bel cielo e mi venne voglia di fare una passeggiata prima di tornare a casa. Camminai un po’ finché arrivai nel piccolo parco del mio paese. Mi rallegrai a vedere che era ancora pieno di bambini che erano usciti da scuola o che erano stati accompagnati là dalle mamme. Vederli ridere e rincorrersi nei loro giochi mi faceva bene. Mi dava allegria e mi rilassavo. Non mi sentivo solo. Il tramonto arrivava lentamente. I colori si facevano più caldi. Su quei prati avevo giocato anch’io tanti anni prima, pensai, e questo ricordo mi dette uno strano senso di sicurezza, di conforto. Respiravo e cercavo di trovare con le narici l’odore dei pini e dei castagni. Non volevo alzarmi. Mi dissi che potevo restare là finché non avesse fatto buio. La luna, quasi invisibile, cominciava a delinearsi in un punto lontano, dove il cielo perdeva a poco a poco il suo colore. All’improvviso vidi una giovane madre che si sedeva sulla panchina di fronte alla mia. Il bambino avrà avuto tre o quattro mesi; era molto bello, e grasso. Sembrava pieno di salute. La donna si mise ad allattarlo. Non potetti fare a meno di guardare quella creatura che succhiava con tutta la sua forza dal seno materno. Vedevo le sue mandibole che andavano su e giù, che tiravano con tutta l’anima. Sembrava preso da una fame insaziabile. La madre lo guardava con tenerezza e lo carezzava. Non so come, ma all’improvviso ebbi l’impressione che quel bambino stesse divorando il seno di sua madre. Non succhiava il latte, pensavo, ma stava divorando il corpo che la mamma gli offriva. Mi alzai, turbato, e inorridito. Andai di corsa a casa. Per tutta la sera cercai di scacciare quel pensiero, invano. Il giorno dopo capii che quel pensiero era un desiderio, e che mi apparteneva. Il tempo, poi, mi ha aiutato a chiarire e ad accettare questa ossessione.”
“E da allora non hai più smesso di pensarci?”, Giacomo si era acceso una sigaretta. La risposta aveva appagato la sua curiosità, ma, senza che ne capisse neppure il motivo, gli aveva messo addosso una certa tristezza.
“No. E mano a mano è diventato sempre più un tormento. Due anni fa sono stato anche da uno psichiatra, ma dopo due mesi ho interrotto la cura. Non capiva nulla. Pensava solo a imbottirmi di farmaci.”
“Psicofarmaci… E’ come tarpare le ali a un uccello. Tanto vale togliergli la vita. Come castrare un gatto per farlo diventare un pezzo d’arredamento comodo e igienico.”
“E tu?”, chiese Ilario a bruciapelo, guardando l’altro dritto negli occhi, “Quando hai cominciato a pensarci?”
Giacomo fu colto alla sprovvista; eppure avrebbe dovuto aspettarsi che l’altro gli avrebbe posto a sua volta la stessa domanda. In pochi secondi di esitazione si rese conto che non poteva più scappare e che era giusto rispondere, sebbene non ne avesse alcuna voglia. Spense la sigaretta che aveva in mano, che non era ancora completamente finita, e se ne accese subito un’altra.
“Io… La mia convinzione è che questo desiderio sia sempre stato dentro di me. Qualcosa che ho sempre sentito dentro. Non c’è un momento in cui è cominciato. E’ nato insieme a me, ecco.”
“Vuoi dire che ci pensavi anche quando eri bambino?”
“Non saprei. Non mi ricordo. Ma non importa questo. Non so dire il momento esatto in cui ho cominciato ad accorgermene, ma, da quando è avvenuto, per me è stato chiaro che questo destino era dentro di me, nelle radici della mia esistenza. E’ come se un velo mi fosse stato tolto dagli occhi. Mi sono sentito pieno di forza, di coraggio, come se vedessi quello che gli altri non vedevano.”
“Non capisco. Che vuoi dire?”
“Tu credi di essere malato? Pensi che il nostro desiderio sia una malattia?”
“Non lo so. Può darsi. Ma non mi importa più.”
“Non è una malattia. Io ne sono sicuro,” mentre parlava, Giacomo era preso da una crescente agitazione, “gli uomini fuggono dal loro destino. I tabù sono il modo con cui la nostra civiltà cerca di nascondersi dalla sua sorte. Ma non hanno nulla a che fare con la verità. Io ne sono profondamente convinto. Il tabù dell’incesto, per esempio, è una sorta di regola interna, che ci siamo costruiti per evitare l’impoverirsi del nostro patrimonio genetico. Se ci accoppiassimo fra consanguinei, nei decenni, nei secoli, diventeremmo sempre più deboli, deformi, malati, fino ad estinguerci. I tabù cercano di preservarci da questa estinzione e ci illudono che l’umanità abbia un ruolo eterno nel mondo, che esso sia stato fatto per noi. Questo vale anche per il cannibalismo. Hai mai letto della tribù dei Fore?”
“No.”
“Fore è un villaggio della Nuova Guinea. Gli abitanti praticavano il cannibalismo, in alcuni riti religiosi. Per celebrare i defunti, facevano cuocere le salme e poi se ne cibavano. Alcuni scienziati occidentali si accorsero là di una grave malattia neurologica che stava decimando il villaggio. Gli indigeni la chiamavano kuru, che nella loro lingua significa “brivido”. Chi si ammalava perdeva la ragione e la capacità del controllo dei movimenti, veniva continuamente attraversato da tremori e spasmi, e gli occhi si muovevano convulsamente, senza poterli mai fermare. Il kuru portava alla morte sicura, al massimo nel giro di diciotto mesi. Gli scienziati scoprirono che la malattia aveva una relazione con i riti cannibalici. Il kuru era provocato da prioni, cioè da agenti infettivi interni all’organismo umano. Noi tutti ne abbiamo dentro di noi, e finché siamo in vita sono come in una sorta di letargo; vivono in noi e non ci fanno alcun male. Ma, mangiando i defunti, i Fore assumevano anche i loro prioni, che all’interno dell’organismo dei carnefici si risvegliavano e diventavano terribilmente virulenti. E’ una malattia in tutto e per tutto simile a quella della mucca pazza. Le mucche hanno cominciato ad ammalarsi perché gli allevatori le nutrivano con dei pastoni in cui tritavano scarti di altri bovini morti e macellati. Gli occidentali convinsero i Fore a interrompere i loro riti cannibalici e così nel giro di alcuni decenni la malattia si estinse.”
Ilario ascoltava, senza fiato. Giacomo spense la sigaretta e continuò a parlare animatamente.
“Quando lessi del kuru mi fu tutto chiaro, come una rivelazione. C’è dentro di noi qualcosa di letale, che aspetta solo di scoppiare. Noi cercheremo ancora di scappare, di fuggire dalla nostra sorte, ma essa dorme dentro di noi. Capisci quanto c’è di sublime in tutto questo? La gente inorridisce al pensiero dell’antropofagia solo per quanto vede di mortale nell’atto di un uomo che divora un altro uomo. Eppure, invece, guarda che perfezione: il carnefice uccide e si nutre del suo simile, e questi, senza neppure saperlo, esercita la sua vendetta, scatenando nell’altro il demone che dorme nel nostro corpo da millenni. Fra secoli, o forse fra decenni, avverrà una immane catastrofe. Gli uomini avranno esaurito ogni risorsa, non avranno più nulla di cui nutrirsi, e per continuare a sopravvivere dovranno divorarsi l’un l’altro. I più forti, i predatori, si ciberanno dei più deboli, e così crederanno di aver scongiurato ancora il loro destino. Si illuderanno di poter ricostruire la nostra storia, la nostra civiltà. Ma presto anche le loro vittime avranno la loro vendetta e faranno esplodere nel corpo dei loro carnefici una malattia da cui più nessuno potrà salvarsi, finché dell’umanità non resteranno che ossa, cenere e carne a imputridire al sole e alla pioggia. E il nostro pianeta continuerà a girare senza gli uomini, nella più totale indifferenza.”
Giacomo era stravolto da ciò che aveva appena detto, come se quelle parole gli fossero uscite dalle labbra contro la sua volontà. Le mani gli tremavano. Ilario le prese fra le sue, dolcemente, per calmarlo.
“Ti ho detto che il mio desiderio è sempre stato dentro di me, e te lo voglio spiegare”, riprese Giacomo, tornando mano a mano a parlare con calma. “Ti ho mentito quando ti ho detto che la mia famiglia era benestante. Questa casa e le altre due che ho affittato le ho comprate con i miei guadagni di quando facevo l’attore. I miei genitori erano contadini, molto poveri. Quando nacqui, c’era un gemello insieme a me. Anzi, lui era il vero figlio. Lui era nato forte, sano, pesava quattro chili. Io invece ero piccolissimo, pesavo poco più di due chili. Parevo malato e sofferente. Ero troppo piccolo. Non riuscii neppure ad attaccarmi al seno di mia madre. Divenni subito giallo di itterizia. Invece Ferdinando, era questo il nome che dettero a mio fratello, si attaccò subito e prendeva latte per tutti e due. L’ostetrica disse che non sarei sopravvissuto. Disse ai miei che si rassegnassero e che fossero felici che l’altro, invece, era sano e grosso come un vitello. Mio padre e mia madre, che non si aspettavano due gemelli, avevano in casa una sola culla, dove fu messo Ferdinando. Io ero così piccolo che fui messo in una scatola da scarpe, imbottita con un po’ di ovatta. C’era solo da aspettare che io morissi. Ferdinando dormiva beato nella sua culla, in camera insieme a mia madre, che era stanchissima e sfinita dal parto. Io piangevo, in questa vecchia scatola da scarpe, posata sul tavolo di marmo della cucina. Mio padre restò a vegliarmi, seduto vicino a me. Ogni tanto provava a carezzare con un dito le mie piccolissime braccia, le mie gambe minuscole e magrissime, e scuoteva la testa, aspettando che finissero le mie sofferenze. Piano piano si addormentò sulla sedia. La mattina dopo, mia madre, quando ebbe finito di dare la poppata a Ferdinando, provò ad accostarmi al seno. Mi attaccai subito. I miei genitori non riuscivano a crederci. A mezzogiorno tornò l’ostetrica, per visitare mio fratello. Fu sorpresa che fossi ancora vivo e che per di più avessi cominciato a nutrirmi. Ma cercò subito di far rientrare la gioia di mio padre e mia madre. Era comunque difficile, quasi impossibile, che sopravvivessi. Ero troppo piccolo, e debole. Eppure dopo tre ore mi attaccai ancora al seno. Dentro il mio corpo malato e inerme cresceva una forza disperata, che nei giorni successivi lasciò sempre più sbalorditi i miei genitori e l’ostetrica. In una settimana ero riuscito a superare l’itterizia. Prendevo peso. Dopo un mese, per quanto minuto e ancora debole, fui fuori da ogni pericolo. Ferdinando era più grande e più sano di me, un bambino bellissimo, e cresceva a vista d’occhio. Ma a due anni si ammalò di gastroenterite e morì. Io, malgrado la mia gracilità, continuai a vivere. A cinque anni presi il tifo, e più di una volta fui per morire, ma superai anche questo. Debilitato dal tifo, pochi mesi dopo mi ammalai di nefrite. Per mesi non potei alzarmi dal letto. Riuscii infine a guarire anche questa volta e in poche settimane recuperai il pieno delle forze. Allora, felici della mia guarigione, i miei genitori si decisero a raccontarmi dei miei primi giorni di vita e del mio fratello Ferdinando, del quale ovviamente non potevo ricordare nulla. “Tu eri destinato a vivere… Dio voleva così…” mi ripeteva mia madre, “Pareva che non ci fosse speranza, e invece avevi in te la forza per vivere. Sei stato tanto male, anche poi, nei primi anni, e poi il tifo, e la nefrite… non hai mai avuto salute. Però hai sempre avuto la forza per sopravvivere. Ferdinando, che invece era tanto sano e bello, è morto così, in un soffio, nel giro di pochi giorni.” Raccontandomi questa storia mio padre e mia madre volevano dirmi che ero forte, che il Signore aveva benedetto il mio destino, e che, malgrado le avversità, mi aveva destinato a vivere. Invece io cominciai a pensare subito a Ferdinando, il fratello di cui non avevo memoria. Immaginai lui bello, sano, forte, e me, magro, malato, macilento. A un certo punto mi dissi che io… che io avevo rubato la sua vita. Era lui quello destinato a vivere, ma io gli avevo divorato la vita che aveva dentro, avevo succhiato le sue forze, le avevo fatte mie. Non ti saprei dire come, ma questo pensiero mi si piantò nella testa. Per anni fui convinto che mio fratello fosse morto per colpa mia. Io mi ero nutrito di quella vita che spettava a lui, lo avevo divorato, mi dicevo. E in un certo senso, anche se non in termini materiali, penso che sia stato veramente così. Ferdinando è morto perché mi sono alimentato di quella vita che spettava a lui. Io che ero gravato da tante malattie, ho saputo superarle tutte grazie a quella salute che era sua, e non mia. Per questo ti dicevo che il nostro pensiero, l’ossessione… è sempre stata dentro di me, dalla nascita.”
Giacomo finì di parlare, con un’espressione malcerta sul volto, e lo sguardo cominciò a navigare intorno alla stanza, per non incontrare quello dell’altro. Ilario si alzò ed abbracciò il compagno, che lo strinse forte. Poi si sciolsero e si ritrovarono l’uno di fronte all’altro.
(da L’appuntamento di Leonardo Marini, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Bambina con uccellino morto (Scuola olandese?, sec. XVI, olio su legno, 36,7 x 29,8 cm, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles).
Claudia Mancuso
(LucidaMente, anno II, n. 9 EXTRA, 15 dicembre 2007, supplemento al n. 24 dell’1 dicembre 2007)