Il jazz flirtava con l’eroina, il rock con gli acidi, l’house con l’ecstasy: il moderno “pill pop” celebra Xanax, Valium e Lexotan
Non è un mistero che fra musica e sostanze stupefacenti vi sia un legame forte. Pochi sono gli artisti che non abbiano ammesso di aver fatto uso di droghe per evadere da una quotidianità insipida e amplificare la propria creatività. Molti dei generi che oggi conosciamo non sarebbero nati se in concomitanza non fossero entrati in commercio stimolanti ed eccitanti affini alle loro sonorità (si pensi all’acid rock e all’elettronica).
Nella sua canzone più famosa, Cocaine, Eric Clapton sosteneva che la cocaina non mentisse mai nella sua i Beatles nella loro celebre Lucy in the Sky with Diamonds tessevano una metafora neppure troppo velata degli effetti dell’Lsd, il cui acronimo si ritroverebbe appunto anche nelle iniziali del titolo. In Italia, il cantautore Fabrizio De André descriveva con la sua poesia cruda ma toccante il senso di fallimento che pervade il tossico in Il cantico dei drogati, mentre il rocker Vasco Rossi architettava emblematici doppi sensi fra la Coca Cola e la cocaina in Bollicine. Questi sono solo una goccia nel mare di esempi, più o meno espliciti, che si possono scovare analizzando la musica degli ultimi anni. Testi e melodie si sono sempre fatti portavoce degli spettri della loro epoca: non c’è dunque da stupirsi se, soprattutto a partire dal rock anni Sessanta, allucinogeni e narcotici siano apparsi nelle canzoni, plasmandole.
La novità è un’altra: le sostanze citate nelle hit che oggi scalano le classifiche non sono droghe, bensì farmaci. Psicofarmaci, per la precisione (vedi Gli effetti devastanti delle benzodiazepine). Anche qui si sprecano gli esempi: in Charlie fa surf il gruppo indie rock italiano Baustelle narra di un ragazzino che prende pastiglie contenenti paroxetina, usata contro la depressione e gli attacchi d’ansia; I Cani, complesso indipendente, canta del bisogno di Lexotan, che possiede proprietà ansiolitiche, ipnotiche e rilassanti. In America sarebbe addirittura nato un genere, il “pill pop” (letteralmente “pop da pasticca”), caratterizzato da sonorità rallentate e continui riferimenti a Xanax, Percocet e altri medicinali (ne ha parlato The Washington Post: Soft, smooth and steady: How Xanax turned American music into pill-pop).
In verità, i farmaci non sono propriamente una new entry nei testi delle canzoni (già Vasco, sempre sul pezzo, nel 1981 inneggiava al Valium), ma in passato non erano tanto preponderanti. A preoccupare è la loro smodata diffusione fra il pubblico che predilige il pop, il rap e l’indie rock, cioè fra giovani e giovanissimi. In poche parole, oggi gli psicofarmaci sono in vetrina: una vetrina che dà sugli adolescenti, individui nella fase più fragile e confusa della loro esistenza. Artisti come la cantante statunitense Lana Del Rey o il rapper Future sono seguiti da orde di teenagers, che in essi si identificano. Il pericolo è che, per spinta imitativa o suggestione, si banalizzi l’effetto terapeutico di medicinali non certo accessibili a tutti, bensì prescrivibili esclusivamente per disturbi e disagi della psiche. La percezione delle pillole potrebbe uscirne alterata: non più curative, né potenzialmente distruttive in caso di abuso, ma sostanze creative indispensabili per dilatare le menti, per alleviare la noia, per “stare su” psicologicamente. Più simili a droghe, che a prescrizioni mediche.
D’altra parte, è un dato di fatto che il consumo di psicofarmaci sia in vertiginoso aumento fra i ragazzi. Uno studio pubblicato sull’European Journal of Neuropsychopharmacology, afferma che l’utilizzo di antidepressivi tra i giovani è aumentato del 40% fra il 2005 e il 2012. L’Istituto di Ricerca farmacologica Mario Negri di Milano ha stimato che nel 2016 in Italia fossero 400mila i bambini e adolescenti con disturbi psicologici, di cui circa 30mila trattati con farmaci. Anche dall’Agenzia italiana del farmaco provengono dati simili e l’Organizzazione mondiale della Sanità ha confermato l’emergenza (L’invasione degli psicofarmaci: si muore più di antidrepressivi & Co che di eroina, Business Insider).
È la scena musicale a farsi specchio di un’età giovanile pregna di preoccupazioni, o sono i teen a emulare ciò che le canzoni propongono loro, inscenando una vita tormentata, quasi borderline? Come spesso accade, la verità sta, esattamente nel mezzo: se da un lato romanzare i disagi esistenziali è un’indiscutibile tendenza della musica, dall’altro la frenesia della società odierna stimola la nascita di psicopatologie. Il problema è dunque reale: i ritmi nevrotici, il costante confronto con le vite degli altri e con la precarietà del futuro, hanno provocato apatia e disillusione, ansia e angoscia. Dovrebbe quindi far riflettere che anche l’ultimo antidoto a una realtà caotica, uno dei pochi palliativi agli stress quotidiani, ovvero un buon brano da ascoltare in tutta calma fermando il tempo, stia assumendo tinte scure e deprimenti.
Per una singolare “hit parade”, si ascoltino 16 canzoni sugli psicofarmaci [dai Nirvana a Battiato].
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XIII, n. 150, giugno 2018)