Dalla legge istitutiva del 1990 ai problemi e alle proposte socialiste odierne, riguardanti anche il territorio bolognese
Riportiamo per intero l’ampia ed esaustiva relazione sviluppata da Franco Ecchia (vedi anche Città metropolitane, Province, unioni e fusioni dei Comuni e Una proposta di fusione dei Comuni della Provincia di Bologna), della Segreteria della Federazione del Psi di Bologna, durante il dibattito su La città metropolitana e i suoi Comuni. Elezione diretta e fusioni. L’evento si è tenuto lo scorso giovedì 9 novembre presso il Cinema Italia di Castenaso, con la partecipazione di importanti esponenti politici locali e nazionali.
«Sono considerate aree metropolitane le zone comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali».
Siamo nel 1990 e questo è l’enunciato della legge 142 dell’8 giugno, l’inizio ufficiale della storia delle Città metropolitane. Nell’ambito di dette aree metropolitane la legge 142/90 articolava l’amministrazione locale in due livelli, quello della Città metropolitana e quello dei Comuni: ciascuno di questi due livelli, caratterizzati da una rappresentatività diretta, di primo grado, avrebbe dovuto avere propri organi elettivi. È opportuno ricordare le diverse opinioni, anche le polemiche, che hanno preventivamente e successivamente accompagnato la legge 142, nel considerare aree metropolitane quelle citate nella legge stessa, per le modeste dimensioni territoriali, numero di abitanti e attività economiche dei rispettivi territori, soprattutto nei confronti con le esistenti aree europee. Certo è che considerare le aree metropolitane sulla base di determinati parametri statistici avrebbe portato, per esempio, Milano assieme a Monza e alla Brianza, Firenze con Prato e Pistoia, Venezia con Padova e Treviso, provocando diffidenze da parte degli organi regionali perché autorità metropolitane forti, elette direttamente, sarebbero state inevitabilmente destinate a contrapporsi alle Regioni stesse.
Sta di fatto che le nove aree, frutto anche dell’attivismo dei parlamentari teso a inserire nell’elenco il Comune più importante delle proprie Regioni, si sono poi ampliate con l’aggiunta di Reggio Calabria e di quelle delle Regioni a statuto speciale (Palermo, Catania, Messina per la Sicilia; Cagliari per la Sardegna). Quattordici città metropolitane (manca all’appello la decisione del Friuli-Venezia Giulia in quanto, in quella Regione, si prevedono le “città metropolitane”, al plurale) sono, per molti, ingiustificate.
Non vi è dubbio che, quando la legge 142/1990 venne approvata, la previsione relativa alla Città metropolitana fu vista come una innovazione di assoluto rilievo. Nel 1994, per prevalente iniziativa della presidenza della Provincia di Bologna, a guida socialista, l’esperienza bolognese portò alla firma dell’intesa denominata Accordo per la Città metropolitana. Questo passaggio risultava essere propedeutico alla costituzione della Città metropolitana nel rispetto della tempistica perentoria dettata dalla L. 142/1990. La firma dell’accordo avvenne in un momento di stallo dell’iter costitutivo: l’esperimento bolognese venne giudicato, dai politici e dai giuristi, come un tentativo lodevole di combattere l’inerzia istituzionale e dare nuova linfa al progetto di riforma degli enti locali che passava necessariamente attraverso la creazione di questo nuovo ente esponenziale. Grazie all’Accordo sulla Città metropolitana, si è tentato di raccordare tutte le istanze locali al fine di trattare in una sede opportuna, la Conferenza metropolitana appunto, quelle tematiche le quali non possono essere trattate dai singoli Comuni ma che necessitano di un confronto per scelte condivise.
L’accordo fu sottoscritto da una cinquantina di Comuni e i rimanenti escogitarono una nuova formulazione: non aderire ma osservare come partecipanti, o partecipare come osservatori. Tra questi, buona parte della zona imolese che, anche in quella occasione, non mancò di sottolineare la propria autonomia così accentuata da consentire, ancora oggi, di mantenere una propria azienda sanitaria, una delle più piccole a livello nazionale, una evidente anomalia di cui va valutato il superamento soprattutto alla luce dell’istituzione della Città metropolitana. Di quel periodo desidero ricordare l’interessamento dei Comuni di Castelfranco Emilia e di Cento per la possibile adesione alla Città metropolitana e le perplessità delle rispettive Province di Modena e Ferrara espresse in sede di Urper (Unione regionale delle province emiliano-romagnole).
Per lungo tempo, poi, si è dibattuto se la Città metropolitana doveva coincidere con il territorio provinciale o comprendere solo Bologna ed i Comuni confinanti. Nelle due ipotesi i Comuni non compresi o non aderenti alla Città metropolitana avrebbero potuto o accorparsi con le Province limitrofe oppure unirsi in una nuova Provincia e a tal fine, in una delle tante, troppe leggi emanate, veniva superato il limite minimo dei 200 mila abitanti per aspirare a divenire nuovo ente. Si paventava, quindi, la possibilità di avere al posto della Provincia di Bologna, due enti: la Città metropolitana e una nuova Provincia con il probabile Comune capoluogo in Imola – essendo il più importante – soddisfacendo così le mai sopite aspirazioni autonomiste di quel territorio che, tra l’altro, aveva intrapreso contatti con Faenza perché essa stessa aspirava ad affrancarsi da Ravenna. Fortunatamente non se ne fece nulla!
Per la cronaca, desidero ricordare le diverse posizioni, da un lato della Regione Emilia-Romagna e della Provincia di Bologna sulla delimitazione della Città metropolitana coincidente con il territorio provinciale (la Regione si espresse con legge 33 del 1995) e, dall’altro lato, il Comune di Bologna, che, come si legge nella Relazione previsionale e programmatica 2000/2002 del dicembre 1999, considerava solo Bologna e i Comuni della cintura, Bologna e il suo hinterland immediato.
Prima di passare alle nuove disposizioni, è bene ricordare la legge costituzionale 3 del 2001 e, particolarmente, la nuova formulazione dell’art. 114 che ha incluso, tra gli enti costituenti la Repubblica italiana, anche le Città metropolitane. Esse vanno considerate entità autonome dotate di personalità giuridica e non più come realtà intermedia e che quindi, qualificandosi come enti esponenziali delle rispettive comunità, siano dotati di organi direttamente elettivi, enti necessari e non più eventuali dal punto di vista istituzionale. La prima riflessione va fatta elencando, brevemente, i motivi delle difficoltà che hanno impedito in tutti questi anni, la nascita delle Città metropolitane. Questi i principali motivi: i continui, troppi, interventi di aggiornamento e modifica della legislazione relativa all’organizzazione degli enti locali; le discordanti opinioni tra gli enti provinciali e comunali (in particolare modo i Comuni capoluogo), l’eccessiva rigidità della legge 142 che ha ingessato l’iter costitutivo e, in seguito, l’introduzione del regime facoltativo con il Testo unico Enti locali che ha alimentato la “litigiosità” interistituzionale.
Sono passati 24 anni (due di più di quelli necessari all’entrata in vigore delle Regioni) e, finalmente, con la legge 56 del 2014 si concretizza la realizzazione delle Città metropolitane raggiungendo almeno tre obiettivi: dare finalmente attuazione all’art. 114 della Costituzione, da tredici anni inattuato per questa parte, dare immediata attuazione alle Città metropolitane, definendone rigorosamente una data certa d’inizio del loro funzionamento (e, difatti, dal 1° gennaio 2015 le Città metropolitane sono i nuovi enti territoriali), e infine, evitare il riaprirsi di diatribe che nel passato, come abbiamo visto, avevano sempre bloccato il processo istituzionale delle Città metropolitane.
Due difetti, a mio parere: il primo la drastica riduzione delle risorse economiche praticate negli anni e quindi con le crescenti difficoltà di assolvere alle funzioni istituzionali, situazione aggravata dalla legge di stabilità del 2015 con il prelievo forzoso dai bilanci di Province e Città metropolitane, producendo una pressione che si è dimostrata insostenibile, tanto che il Governo e il Parlamento hanno dovuto mettere in campo strumenti eccezionali e urgenti per cercare di riportare alla normalità il quadro finanziario dei due enti. Il secondo difetto riguarda, soprattutto, la permanenza di un metodo di elezione indiretta che estromette i cittadini dal circuito della rappresentanza, prevedendo la coincidenza automatica del Sindaco metropolitano con il Sindaco del Capoluogo e i Consigli metropolitani eletti dagli amministratori tra gli amministratori locali mediante un sistema di ponderazione dei voti che, nei fatti, si traduce nella mera allocazione dei ruoli senza un mandato popolare.
Dopo la risposta negativa alla riforma costituzionale – che comprendeva anche la soppressione delle Province ‒ attraverso il referendum del 4 dicembre 2016, occorrerà una rivisitazione della legge 56, soprattutto, da un lato, per semplificare le procedure per pervenire all’elezione diretta degli organi metropolitani – venendo così incontro alla volontà di molte Città metropolitane espresse nei rispettivi statuti o delle indicazioni politiche di parecchi amministratori – e, dall’altro, approvando una legge elettorale da parte del Parlamento, titolare di tale materia.
Nello scorso giugno, in sede di approvazione della legge per disporre finanziamenti alle Province e Città metropolitane, i parlamentari socialisti hanno presentato una risoluzione, approvata alla Camera, con Oreste Pastorelli e Pia Locatelli come primi firmatari, in cui si impegna il Governo su più punti: primo sulla «necessità di proseguire nello sforzo intrapreso al fine di garantire e, se necessario, incrementare le risorse necessarie ad assicurare l’effettivo esercizio delle funzioni fondamentali da parte delle Province e delle città metropolitane, anche promuovendo le opportune modifiche alla legislazione vigente». Inoltre, i parlamentari socialisti impegnano l’esecutivo a adottare «ogni utile iniziativa, anche di natura normativa, volta al ripristino della piena autonomia finanziaria delle Province e delle Città metropolitane, onde garantire la piena copertura finanziaria delle rispettive funzioni fondamentali e una programmazione della spesa rispettosa dei canoni di cui all’art. 151 del Testo unico sugli enti locali».
In realtà la legge 56 prevede la possibilità di elezione diretta degli organi della Città metropolitana alle seguenti condizioni: che ciò sia previsto nello statuto, che nel Comune capoluogo si sia proceduto ad articolare il territorio in più Comuni, che vi sia l’assenso della Regione, che la proposta sia sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della Città metropolitana e che il Parlamento abbia emanato idonee norme elettorali. Un iter lungo e complicato e, pertanto, di difficile attuazione che svela l’intenzione di considerare prioritaria l’elezione indiretta degli organi e l’automatismo del sindaco metropolitano. questo proposito, poiché lo Statuto della Città metropolitana di Bologna non prevede l’elezione diretta dei suoi organi, i socialisti sono per le necessarie modifiche per consentire l’espressione democratica dei suoi cittadini.
Ricordo che il nostro compagno, senatore Enrico Buemi, assieme ad altri, ha presentato in data 17 settembre 2015 il disegno di legge n. 262 per l’elezione diretta del sindaco e del Consiglio della Città metropolitana: potrebbe, o poteva, essere una utile ed interessante base di discussione per una rapida approvazione. La proposta contiene anche una semplificazione eliminando quell’iter lungo e tortuoso sopra riportato e prevedendo che il Comune capoluogo non sia costretto alla elevazione dei quartieri in Comuni. Questa proposta di sistema elettorale rafforza il ruolo istituzionale dell’ente metropolitano con un sindaco metropolitano dotato di investitura popolare ed un consiglio metropolitano espressione dei territori rispettando così, inoltre, la Carta europea delle amministrazioni locali firmata il 15 ottobre 1985 dagli Stati che aderiscono al Consiglio d’Europa, resa esecutiva con legge 30.12.1989 n. 439, la quale recita espressamente di «Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti».
In conclusione, sulla Città metropolitana, per evitare che si riduca a semplice espressione geografica o che possa continuare ad essere un ente somigliante alla Provincia, occorre, da un lato, ripristinare tutte quelle risorse o assicurandole mediante trasferimenti da parte dello Stato o rafforzando l’autonomia finanzia (come previsto dalla Costituzione) per l’esercizio delle funzioni; dall’altro, superare una innegabile debolezza strutturale. È necessario passare da un modello di ente con funzioni importanti ma limitate e attività gestionali intensive, a una struttura adatta a un ente con funzioni più ampie e diverse e con personale, anche professionalmente, diverso e diversamente preparato.
Una breve annotazione sulle Province: dovevano essere abolite, invece sono ancora lì, in stato comatoso, svuotate di danari ma non di funzioni. Il pasticcio provocato dalle soprariportate normative, pasticcio che certamente non sarebbe stato risolto se avesse prevalso il “sì” nel recente referendum costituzionale, vede le Province restare enti locali ad autonomia costituzionalmente garantita e con pari dignità istituzionale con Stato, Regioni, Comuni e Città metropolitane. Non pare ammissibile, peraltro, che enti con dignità e copertura costituzionale siano abbandonati a se stessi e, molti di essi, in pericolo di dissesto finanziario. Occorre sfatare due leggende: la prima relativa alla dichiarata consistente riduzione della spesa che la soppressione delle Province avrebbe prodotto per la finanza pubblica: il risparmio certo può essere conteggiato in circa il 3/4 per cento della somma dei bilanci delle Province, determinato dalla soppressione degli organi istituzionali elettivi. Comunque, se qualche risparmio si è avuto, ne hanno sofferto i servizi causa la loro riduzione, riduzione che ha messo in difficoltà gli amministratori e creato disagi per i cittadini.
La seconda leggenda da sfatare è l’impossibilità di sopprimere un ente. L’esempio è il superamento del Corpo forestale dello Stato, istituito nel 1822: dal 1° gennaio di quest’anno è stato assorbito dall’Arma dei carabinieri con il passaggio dei beni, mobili ed immobili, personale, attività attive e passive, senza soluzione di continuità dei suoi compiti. Poiché, quindi, è possibile sopprimere un ente ma non è possibile sopprimere i suoi compiti e funzioni, nell’ipotetico caso che si ripresentasse la volontà di sopprimere le Province ‒ ricordando che l’Upi regionale qualche anno fa aveva censito 76 funzioni fondamentali e 98 funzioni delegate dalla Regione Emilia-Romagna ‒ consiglierei il passaggio dei loro compiti alle Regioni, le quali potrebbero così lavorare sulla propria organizzazione infraregionale e, soprattutto, di poterlo fare con una certa flessibilità e autonomia, consentendo loro di disporre di margini di scelta sufficienti per adeguare i propri enti di area vasta alla realtà demografica, geografica e socio-politica di ciascuna Regione (ovviamente con le opportune modifiche legislative).
Per quanto riguarda l’accorpamento dei Comuni, in linea generale si sottolinea che tra le sfide recenti che interessano le amministrazioni comunali, quella delle “fusioni” rappresenta la più attuale e la più urgente. La razionalizzazione della spesa pubblica e il carico burocratico sempre più articolato in capo ai Comuni, assieme a una nuova visione meno frammentata del territorio, stanno spingendo diverse amministrazioni comunali a fondersi, dando luogo a nuove entità territoriali. Tale passaggio marca, infatti, la trasformazione di un ente di secondo grado (Unione), indirettamente elettivo, in un ente di primo grado dove esistono un unico Sindaco e un unico Consiglio che rispondono direttamente all’elettorato. La proposta di accorpamento è motivata da due fattori principali.
Noi socialisti riteniamo che le fusioni, diversamente dalle altre forme di associazionismo, comportano l’integrazione dei Comuni preesistenti e la costituzione di un unico ente, nel quale sono aggregate le risorse finanziarie, umane e tecnologiche, che possono consentire l’ottimizzazione dei servizi esistenti e, talora, anche il loro ampliamento. Si ritiene, inoltre, che le fusioni non abbiano i limiti evidenziati per le unioni, poiché, costituendo un ente unico, non dovrebbe esserci il rischio di eventuali duplicazioni di atti, procedure e banche dati. La stessa rappresentanza politica, espressione di un territorio più vasto, farebbe aumentare la forza contrattuale nei confronti dei fornitori, accrescere la potenziale capacità di negoziazione istituzionale con amministrazioni locali di pari livello e di livello più elevato, acquisire un nuovo ruolo verso gli utenti. La maggiore dimensione e le conseguenti economie di scala dovrebbero consentire risparmi sui costi, sia della struttura comunale, grazie alla razionalizzazione dei servizi e all’accorpamento degli uffici, sia della politica, dovuti alla diminuzione dei consiglieri comunali, assessori e sindaci.
La seconda motivazione riguarda l’applicazione della legge 56 che obbliga l’elevazione delle circoscrizioni comunali di Bologna in veri e propri Comuni per procedere verso l’elezione diretta dei suoi organi. Penso che si sia voluto evitare la convivenza di due strutture pesanti: una nuova e con una tradizione tutta da costruire (quella delle Città metropolitane) e una, invece, tradizionale e ben strutturata (quelle del Comune capoluogo). Ritengo anche che tale problematica convivenza possa essere superata dall’applicazione, finalmente, del principio “chi fa cosa”, nell’assoluta chiarezza dei compiti svolti ai vari livelli amministrativi.
L’ipotesi di un’elevazione delle circoscrizioni bolognesi in veri e propri Comuni pone due obiettivi: da un lato avviare un processo, come detto, peraltro previsto dalla legge 56/2014, propedeutico all’elezione diretta degli organi metropolitani, processo lungo e complicato e, dall’altro lato, avere un quadro complessivo post ristrutturazione raggiungendo un equilibrio tra enti, almeno per il numero di abitanti e sistemi elettorali. Stante la vigente legge, quindi, si è ipotizzato la creazione di 5 comuni in sostituzione delle circoscrizioni bolognesi – con un unico Comune per il centro storico, superando così una incomprensibile anomalia che è stata riconfermata con l’ultima ristrutturazione – 5 comuni che, per numero di abitanti, corrisponda ai nove accorpamenti, tutti, quindi, con uguali organi dal punto di vista numerico.
La strada da seguire è quella di sollecitare le istituzioni e le associazioni a promuovere iniziative per l’accorpamento dei Comuni sulla base dei previsti studi di fattibilità da sottoporre poi ai cittadini per il loro pronunciamento referendario. A questo riguardo è importante giungere al convincimento degli abitanti delle zone interessate sulla base non solo della necessità di razionalizzazione della spesa pubblica e il carico burocratico sempre più articolato in capo ai Comuni, assieme a una nuova visione meno frammentata del territorio, ma con progetti di fattibilità che dimostrino la maggiore efficienza, migliori servizi e quindi un risparmio concreto che può essere instradato verso benefici evidenti per la comunità. Le proposte formulate vanno considerate conclusioni di processi graduali che debbono tenere conto anche di accorpamenti parziali, di dimensioni limitate che non possono che trovare i socialisti favorevoli.
Così è stato per la fusione di Porretta Terme e Granaglione. Per questo, anche l’inizio dell’iter che può portare alla fusione dei Comuni di Castenaso e Granarolo rappresenta per noi un primo passo verso una comunità ben più ampia. È un disegno, utopistico, un sogno? Le utopie ed i sogni irrealizzabili sono quelli propugnati dai massimalisti, dai rivoluzionari: tutto o niente e sempre si stringe il niente. Un’azione graduale, prerogativa dei riformisti, può portare, con un paziente lavoro, da un’utopia a una realtà.
Franco Ecchia – Partito socialista italiano, Federazione di Bologna
(LucidaMente, anno XII, n. 143, novembre 2017)