Anche in “Storia e utopia” (Adelphi) il sulfureo pensatore rumeno lancia i propri strali sul declino del nostro continente e, soprattutto, sull’autodisprezzo della sua millenaria cultura
Più volte LucidaMente ha ospitato contributi sul declino dell’Europa, soprattutto in riferimento a quel monstrum giuridico-politico-economico che è l’Unione europea (si vedano Gli inganni dell’Unione europea; L’Unione europea è fallita… anzi, no, è un successo; Bettino Craxi e le sue perplessità e profezie sull’Unione europea; Il “vero” simbolo dell’Unione europea; Ida Magli, a un anno dalla morte. 1: La dittatura europea).
Tuttavia, è facile argomentare sul disastro europeo quando lo si ha ormai sotto gli occhi (almeno di quelli che vogliono vedere). Più sorprendente è che lo abbia fatto qualcun altro più di 60 anni fa. Stiamo parlando del sulfureo filosofo rumeno di prevalente lingua francese Emil M. Cioran (1911-1995), che con pochi altri aforisti, come Albert Caraco o Manlio Sgalambro, ha lacerato con crudeltà il velo delle realtà più sgradevoli. In realtà, tutta l’opera di Cioran è disseminata di foschi presagi sul suicidio europeo, ma in questo nostro breve saggio faremo riferimento solo a Storia e utopia. L’edizione originale di tale opera risale al 1960; in Italia è stata pubblicata inizialmente nel 1969 da Il Borghese (Prefazione di Mircea Popescu), quindi nel 1982 da Adelphi, a cura e con Postfazione finale (Contaminazione totale) di Maria Andrea Rigoni (nelle citazioni utilizzeremo tale versione). Cioran si chiede in modo colorito: «Doveva proprio terminare con questa gentaglia una civiltà così delicata, così complessa?» (p. 27). È una domanda che molti di noi si fanno di fronte alla netta decadenza e impotenza del ceto politico di tutti i Paesi europei e, di riflesso, alla prepotente tecnoburocrazia delle élite dell’Ue.
Il progetto di un’Europa unita è sempre fallito miseramente, perché i popoli europei vivono una molteplicità di culture e sono ciascuno geloso delle proprie: «Carlo Magno, Federico II di Hohenstaufen, Carlo V, Bonaparte, Hitler furono tentati, ciascuno a modo proprio, di realizzare l’idea dell’impero universale: vi fallirono» (p. 35). È comunque da almeno un secolo che l’Europa ha concluso il proprio ciclo espansivo. Anzi, «l’Occidente […] vive nella vergogna delle sue conquiste»: oggi si cerca di definire tale atteggiamento coi termini autodisprezzo, oicofobia, autorazzismo. Così gli occidentali, «complicati e devastati quanto possibile, cercano il “progresso” altrove, fuori di se stessi e delle loro creazioni, […] debilitati a furia di raziocinazioni e di scrupoli, rosi da sottili rimorsi, da mille interrogativi, màrtiri del dubbio, abbagliati e annientati dalle proprie perplessità» (p. 42). A dire il vero, in Europa e in Occidente sono garantiti i diritti umani e civili, la libertà e la democrazia parlamentare, l’uguaglianza e la dignità delle donne, nonché ogni espressione artistica; però radical chic, terzomondisti, nostalgici comunisti, femministe, filoislamici, cercatori della spiritualità orientale, amanti dell’esotico, ecc., e comunque odiatori della nostra civiltà (Cancel culture), sputano su tali conquiste ed esaltano culture, per quanto rispettabili, ma all’interno delle quali gli indiscutibili progressi civili sopra menzionati non esistono affatto (Africa, Cina, islam).
Eppure, nonostante la fine della sua espansione, anzi il ritrarsi e farsi da parte, anche per il crollo demografico, l’Europa era stata, prima e dopo il suo apice, un riferimento culturale per tutte le popolazioni della Terra. Da qualche decennio non lo è più, ed è questa la tragedia. Infatti, afferma Cioran, «una civiltà si rivela feconda per la facoltà che essa ha di incitare gli altri a imitarla; se cessa di sedurli, si riduce a un cumulo di frammenti e di vestigia» (p. 35; vedi anche Gli scenari di Samuel P. Huntington: errati o profetici?). Una tessera del mosaico è data pure dalla quasi completa desacralizzazione e secolarizzazione del nostro continente, fondato, tra l’altro, proprio sulla confessione cristiana. È folle accettare religioni intolleranti e con tratti barbarici, ed equipararle alle altre, secondo il luogo comune, sbagliato, che tutte le religioni sono uguali e sono “di pace”. Ma «mettere in causa i propri dèi significa mettere in causa la comunità alla qual presiedono. […] Le nazioni stanche dei loro dèi, o di cui gli dèi stessi sono stanchi, quanto più civili saranno, tanto più facilmente rischieranno di soccombere» (p. 69). Così l’intero Occidente, «soccombendo agli eccessi della propria tolleranza, risparmia l’avversario che non la risparmierà, autorizza i miti che la minano e la distruggono, si lascia catturare dagli allettamenti del suo carnefice. Merita forse di sopravvivere, quando i suoi stessi princìpi la invitano a scomparire?» (p. 67).
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Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 190, ottobre 2021)