Intervista a Raffaella Milandri, che torna in libreria con un volume d’inchiesta, edito da Mauna Kea, su una vicenda storica venuta alla luce nel 2021 in Nord America che ha scosso il mondo e coinvolto direttamente anche Papa Francesco
L’ultimo libro della giornalista, scrittrice, fotografa, editrice, viaggiatrice in solitaria e attivista per i diritti umani dei popoli indigeni Raffaella Milandri è una vera e propria indagine che cerca di fare chiarezza su una complessa quanto tragica vicenda emersa nel 2021 in Canada: il ritrovamento di numerose tombe, prive di nominativi, di giovani nativi indiani. In questa intervista l’autrice ci apre il suo cuore e ci rivela, tra le altre cose, come è venuto alla luce Le scuole residenziali indiane. Le tombe senza nome e le scuse di Papa Francesco (Mauna Kea Edizioni, pp. 258, € 17,10).
L’attivismo per i diritti umani dei nativi americani
Prima di tutto ben ritrovata [qui gli altri articoli di LucidaMente dedicati a Raffaella]! Iniziamo con la curiosità che ci contraddistingue: che cosa hai fatto in questi ultimi anni? Sappiamo che continui a coltivare i tuoi molteplici interessi: scrittura, studio e attivismo per i diritti dei popoli indigeni…
«Piacere mio di ritrovarci! Negli ultimi tre anni ho dato priorità allo studio, dedicandomi alla laurea in Antropologia che è andata a implementare la mia preparazione sui popoli indigeni. Poi alla scrittura come mezzo di divulgazione: sia con le mie opere, sia curando e traducendo grandi classici di autori nativi americani, inspiegabilmente mai pubblicati in italiano, quali Luther Standing Bear, Charles Eastman e Zitkala-Sa.
Ciò che scrivo parla soprattutto di attualità: molti pensano che i nativi americani siano pressoché estinti o vivano ancora nei teepee [le tende coniche, ndr]; invece, in base all’ultimo censimento, sono oltre nove milioni e hanno una grande vitalità sociale. La Cherokee Nation, ad esempio, costruisce anche aerei».
È uscito di recente il tuo ultimo libro, incentrato sulle scuole residenziali indiane. Ce ne puoi parlare, iniziando da come hai approcciato l’argomento fino al suo sviluppo?
«Il mio libro Le scuole residenziali indiane. Le tombe senza nome e le scuse di Papa Francesco è nato dal fatto che, negli ultimi due anni, i nativi americani e canadesi sono stati al centro di una vera e propria ondata mediatica mondiale. Prima ci sono stati i rilevamenti nel suolo di ex scuole residenziali indiane (istituite per l’assimilazione culturale e religiosa forzata dei nativi in Nord America) e di tombe non marcate, che hanno scosso l’opinione pubblica. In seguito sono arrivate le scuse di Papa Francesco, che ha compiuto un viaggio penitenziale in Canada la scorsa estate.
Seppure se ne sia ampiamente parlato, è mancata un’analisi obiettiva dei fatti e la maggior parte delle persone si è schierata a priori ma senza avere le basi di conoscenza necessarie per una valutazione valida. Cosa che succede ormai regolarmente sui social, dove fazioni contrapposte si insultano subito, senza ragionare. Quindi ho fatto una ricerca minuziosa su testi e media, portando alla luce la storia delle scuole residenziali indiane, le testimonianze dei sopravvissuti, i report governativi, e poi ricostruendo le reazioni della stampa, dei governi e della Chiesa.
La Chiesa cattolica ha gestito la maggioranza di queste scuole in Nord America, finanziata (come le altre Chiese) dai governi. In sostanza, attraverso la ricerca occorreva mettere in risalto i “cattivi” ma senza emettere verdetti, bensì solo con il susseguirsi analitico dei fatti».
Sappiamo che il libro è anche frutto del tuo recentissimo percorso di studio, coronato da poco a Bologna con la laurea.
«Il libro era appunto indispensabile per mettere in sequenza gli eventi e dare una chiave di lettura obiettiva al pubblico. Sono venute fuori delle scoperte interessanti e, nonostante le molte critiche, Papa Francesco si è rivelato un inatteso alleato della causa dei popoli indigeni e dei nativi del Nord America, dando ampia visibilità a quello che lui stesso ha definito “un genocidio”.
Il mio libro, che è scaturito dalla tesi di laurea, e la mia laurea stessa sono dedicati alle vittime dei collegi indiani; proprio per questo, presentandomi alla cerimonia di discussione a Bologna con l’abito tradizionale Crow fatto su misura per me dalla mia famiglia adottiva nativa e speditomi dal Montana, ho voluto “chiudere il cerchio”. Ci tengo a dire che ho potuto indossare quell’abito solo su autorizzazione della mia famiglia Crow, altrimenti si rischia una forma perniciosa di appropriazione culturale.
I nativi americani sono un popolo dagli usi e costumi affascinanti, a patto di rispettarli. In Italia abbiamo purtroppo esempi di chi pratica cerimonie native a scopo di lucro. E il pubblico non è sempre preparato a distinguere tra ciò che è millantato e ciò che è reale».
L’importanza di una divulgazione obiettiva dei fatti storici
Strutturalmente cosa differenzia quest’ultima tua fatica dai precedenti libri? E cosa c’è dentro della Raffaella di oggi, di ieri e, perché no, di domani?
«Questa mia ultima fatica è diversa perché, anziché schierarmi e commentare in prima persona, ho lasciato che fossero i fatti e l’analisi logica a parlare. Non è contro nessuno, ma solo a favore della verità. Anzi, da poco ne ho inviata anche una copia a Papa Francesco, poiché il libro ne studia il comportamento ma non punta alcun dito accusatore.
Cosa c’è dentro? Tanta voglia di divulgare, di far conoscere una parte di storia che, anche per varie questioni politiche, si tende a occultare. Eppure le vicende e la cultura dei nativi americani hanno tantissimo da insegnarci, soprattutto su noi stessi e sulla civiltà occidentale. Un vero “specchio” culturale.
Non so molto sulla Raffaella di domani: ogni volta mi trovo davanti a una montagna enorme da scalare, colma di pregiudizi e impedimenti da parte di chi teme che io parli in maniera troppo “politica” di vittime di sistemi colonialisti che, magari con il nome di “multinazionali”, prosperano anche oggi».
Dal tuo primo libro e dall’inizio delle tue avventure di viaggio ti ritieni cambiata?
«Sì, sono cambiata. Sono la classica idealista che ha preso tante bastonate. Nella mia opera di attivista e divulgatrice ho sempre pensato che fosse doveroso indagare e rivelare “scomode verità”. Oggi devo concludere che la verità, se non fa comodo a “qualcuno di importante”, è un fattore secondario. Quindi sono più riflessiva e cerco di aggirare gli ostacoli, di scalare quella montagna di cui parlavo prima indossando in un certo senso una tuta mimetica».
Parlare senza conoscere e conoscere per parlare
Hai definito questo libro «il classico testo che fa casino anche senza averlo letto». Perché?
«Sulla pagina Facebook della casa editrice ha avuto oltre tremila reazioni e centinaia di commenti. E prendendo spunto solo dal titolo, senza neppure leggere la sinossi, il pubblico ha commentato contro la Chiesa, il Papa o i governi, emettendo sentenze che non avevano molto a che fare con un percorso d’inchiesta. Si tratta di un tema “caldo”: ora dobbiamo vedere se le persone si accontenteranno di “pontificare” (permettimi il gioco di parole) o vorranno documentarsi sul libro, che è il primo testo completo e di stampo accademico sull’argomento, con una bibliografia molto ricca».
Che cosa ci puoi dire del coinvolgimento diretto di Papa Francesco?
«Tutto l’ultimo capitolo parla delle sue scuse e del suo viaggio penitenziale, analizzandone i discorsi, le reazioni agli stessi da parte dei media, dei governi e dei leader indigeni, valutando sia fonti vaticane che non. Si tratta di una ricostruzione dettagliata che lascia spazio al lettore per trarre le proprie conclusioni.
Il Papa, come capo della Chiesa cattolica, ha un’enorme visibilità e credo abbia fatto del suo meglio per gestire la situazione. Lo spinoso tema, poi, della Dottrina della scoperta, derivata dalla bolla papale Inter Caetera di circa settecento anni fa, va davvero preso con le pinze: i nativi hanno chiesto al Pontefice la revoca della bolla, mentre a fine marzo i Dicasteri per la Cultura e l’Educazione e per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del Vaticano hanno solo “ripudiato” la Dottrina.
La revoca della bolla potrebbe in realtà rivoluzionare il mondo come lo conosciamo, dato che sulla Dottrina della Scoperta si sono mosse tutte le “conquiste” di interi continenti da parte delle potenze europee nei secoli scorsi. È un tema molto complesso, che richiederebbe tantissime pagine».
Dalla conoscenza al coinvolgimento emotivo
Quali emozioni provi a parlare di questo libro e del tuo traguardo accademico?
«A dire la verità, ora mi sento in una sorta di “depressione post partum”. È stato un percorso che ha richiesto molta determinazione, per rendere compatibili con gli studi il mio lavoro primario (consulente di marketing), l’opera di traduzioni che sto portando avanti e la mia carica di presidente di un’associazione no profit, la Omnibus Omnes. Nessuno si stupisca se negli ultimi tre anni ho viaggiato pochissimo! E anche il Covid non ha aiutato…».
Sei molto coinvolta nelle tue battaglie e in ciò che scrivi. Fai parte di una famiglia Crow e, come raccontavi prima, ti sei laureata in abiti tradizionali…
«È solo dal 2017 che in Montana esiste una legge (SB 319) che permette ai nativi americani e ai loro familiari di laurearsi con il tribal regalia, ovvero l’abito tradizionale tribale. In precedenza era proibito. In virtù di questo, a maggio 2022, con una circolare, il segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, ricordava ai membri tribali di indossarlo in simili occasioni.
È stato in quel momento che ho chiesto alla mia famiglia Black Eagle se potevo farlo, in quanto membro adottivo, per la discussione della mia laurea a marzo 2023. Da allora Audrey, la moglie di mio fratello Crow, ha lavorato alacremente per confezionare il mio bellissimo vestito per la cerimonia all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono stati molto fieri di me.
Pensate: il governatore dell’Oklahoma ha poi bandito la cerimonia di laurea in tribal regalia proprio lo scorso aprile. Un passo avanti e due indietro…».
Tornando al libro, si può definire un tentativo di scuotere coscienze e sensibilità?
«Dipenderà tutto dal fatto che sia recensito dai media e letto dal pubblico. A volte ho pensato: “Ecco, i giornali non ne parleranno, magari solo per evitare argomenti scomodi. Chissà se Papa Francesco lo leggerà e mi farà una delle sue famose telefonate…”. Sono molto fiera di questo libro, per il rigore con cui l’ho costruito.
Quanto alle sensibilità, ci sono dei report raccolti dal governo del Canada stesso che mi hanno fatto piangere e nell’opera avviso il lettore della delicatezza dei temi trattati. Non escludo che altri piangano. I nativi hanno davvero sofferto delle pene indicibili nelle famose scuole residenziali indiane. Una tragedia da urlare a gran voce e spesso minimizzata per coprirne le responsabilità».
L’essenza del viaggio
Che cosa significa esplorare territori sconosciuti o pericolosi? Che cosa attingi dalle tue esperienze?
«Questa domanda richiederebbe tante pagine di risposta, ma cercherò di riassumere: viaggiare vuol dire mettere alla prova me stessa e affrontare le mie paure ma con la coscienza che sto cercando di fare qualcosa per gli altri. Come ho raccontato in altri libri, tipo In India e Io e i Pigmei, ci sono situazioni pericolose che ho affrontato solo ed esclusivamente per spirito di verità e per cercare di fare opera di denuncia di soprusi terribili compiuti nei confronti di popolazioni indigene. Al tempo stesso ho incontrato persone meravigliose: mi basta pensare a loro e sono appagata».
Progetti futuri? Sogni?
«Sto valutando di iscrivermi alla laurea magistrale di Etnologia; ampliare la mia conoscenza mi rende felice. Però devo valutare bene prima di assumere altri impegni. Vorrei fare alcuni viaggi ma la situazione geopolitica non è incoraggiante e, in più, i costi sono lievitati. Spostarsi da sola richiede importanti investimenti economici. Il mio sogno? Non essere più invisibile per le tematiche che tratto, avere quindi maggiore riscontro così da poter divulgare il mio bagaglio di esperienze e di conoscenze».
Che consigli dai a chi ama viaggiare e desidera scoprire terre e culture lontane?
«Per scoprire l’altro, il culturalmente diverso, occorre aprire il proprio cuore e essere umili. Porgersi all’altro come un discepolo di fronte al maestro, con rispetto e con l’ardore di ascoltare e imparare. Dopo questo passo fondamentale, arrivano la comprensione e la fratellanza. Quanto ai viaggi avventurosi, io li sconsiglio: non vale la pena rischiare la vita per finire, poi, sul trafiletto di un giornale perché magari si viene arrestati in un Paese straniero o si soccombe durante una sommossa. Sono diventata saggia dopo che, in Papua Nuova Guinea, sono stata circondata da rivoltosi armati di machete».
Ti va di lanciare un messaggio ai giovani? Uno sprone, un incoraggiamento per affrontare la vita, soprattutto nella società consumistica occidentale?
«Occorre seguire il proprio animo e non avere mai paura di essere diversi. Occorre non farsi condizionare e coltivare i propri sogni. Occorre nutrire i propri ideali e fregarsene di quello che è “conveniente” per apparire o per guadagnare. Molti giovani sono in realtà concreti e realistici e perseguono i loro obiettivi. Ma la cosa importante è, ripeto, non avere paura di essere diversi, non cercare di essere per forza come gli altri. Gli altri, alla fine, siamo noi».
Le immagini: la copertina dell’ultimo libro di Raffaella Milandri Le scuole residenziali indiane. Le tombe senza nome e le scuse di Papa Francesco; un po’ di foto dell’autrice durante alcuni dei suoi numerosi viaggi e in abito tradizionale Crow nel corso della sua recente cerimonia di laurea in Antropologia a Bologna.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 210, giugno 2023)
Ho letto con grande interesse l’articolo sull’ultimo libro di Raffaella Milandri. È incredibile come la sua passione per i diritti dei popoli indigeni e la sua dedizione alla verità abbiano portato alla luce una storia così potente. La sua capacità di indagare e raccontare con obiettività è davvero ammirevole.