Esattamente dieci anni fa, il 4 marzo 2005, a Baghdad veniva ucciso l’agente del Sismi che aveva appena liberato Giuliana Sgrena, la giornalista rapita dagli jihadisti. Due le versioni contrastanti su ciò che accadde lungo la Route Irish
Il 4 marzo 2005 perse la vita Nicola Calipari, capo della II Divisione Ricerca e Spionaggio all’estero del Sismi (il servizio segreto italiano), ucciso a Baghdad dal “fuoco amico” delle truppe statunitensi. Calipari stava riportando a casa Giuliana Sgrena, la giornalista de il manifesto rapita un mese prima dall’Organizzazione della jihad islamica. Ripercorriamo brevemente le tappe di quell’infausta vicenda, che non è stata mai del tutto chiarita.
Dopo il rilascio della giornalista – avvenuto in seguito al pagamento di un riscatto da parte delle autorità italiane – Calipari, la Sgrena e l’autista Andrea Carpano presero posto su una Toyota Corolla che s’incamminò lungo la Route Irish, la strada ad alto rischio che dal centro di Baghdad porta al suo aeroporto. Alle ore 20,50 la Toyota s’imbatté in un posto di blocco dell’esercito statunitense approntato per proteggere il transito dell’ambasciatore americano John Negroponte. I soldati del check-point iniziarono improvvisamente a sparare contro la macchina e uno di loro, Mario Luis Lozano, colpì a morte Calipari ferendo anche Carpano e la Sgrena. Stando alle dichiarazioni della giornalista riportate nel saggio Fuoco amico (Feltrinelli), il coraggioso funzionario del Sismi la protesse dai colpi di mitragliatrice facendole scudo col proprio corpo (vedi Guerra “sporca”? Non raccontatela). Sull’accaduto esistono due versioni divergenti, frutto del lavoro di una Commissione militare d’inchiesta voluta dal governo statunitense alla quale hanno partecipato anche due rappresentanti del governo italiano.
Secondo il rapporto delle autorità militari americane, si è trattato di “un tragico incidente” dovuto all’imperizia dell’autista della Toyota il quale, guidando a una velocità prossima agli 80 chilometri orari, non si sarebbe fermato in tempo al check-point. I soldati statunitensi avrebbero attuato la “procedura delle quattro S” (Shout, Show, Shove, Shoot) che prevede, prima di sparare sugli autoveicoli in transito, l’avviso a distanza con grida, raggi laser e colpi in aria. I rappresentanti del governo italiano hanno sottoscritto una relazione di segno diverso, accreditando la testimonianza della Sgrena secondo la quale la Toyota «non andava affatto forte (quaranta-cinquanta chilometri orari), non c’era stato alcun preavviso per fermarci, la macchina è stata illuminata contemporaneamente all’arrivo dei proiettili, ed è stata colpita da destra e all’altezza dei passeggeri, non al motore – dove è arrivato un solo colpo – o alle ruote per fermarla». La giornalista ha sempre sostenuto la tesi dell’aggressione premeditata – forse per impedirle di raccontare quanto aveva visto in Iraq o per punire l’Italia a causa dei riscatti pagati agli jihadisti – e ha riferito che uno dei rapitori, poco prima del rilascio, l’aveva così avvisata sulle intenzioni dei militari statunitensi: «Stai attenta: gli americani non vogliono che tu torni viva in Italia».
WikiLeaks ha pubblicato un cablogramma dell’ambasciata americana a Roma,datato 9 maggio 2005, dal quale si evince che il governo presieduto da Silvio Berlusconi ha poi avvalorato la versione fornita dai militari statunitensi, evitando di far insorgere un incidente diplomatico tra Italia e Usa. Sempre WikiLeaks ha rivelato che Sheik Hussein, ex capo di Al-Qāʿida a Baghdad, avrebbe telefonato ai funzionari del ministero dell’Interno iracheno avvertendoli che l’automobile su cui viaggiava la giornalista italiana era imbottita di esplosivo e costoro avrebbero poi messo in allerta i militari americani inducendoli a sparare. La Sgrena, in un articolo apparso il 24 ottobre 2010 su il manifesto, ha spiegato che dopo la liberazione venne trasportata per un breve tragitto dai rapitori dentro un’automobile forse imbottita di tritolo, ma poi fu prelevata dagli agenti del Sismi, i quali comunicarono all’ambasciata italiana e all’ufficiale di collegamento con gli americani l’itinerario della loro macchina lungo la Route Irish. La giornalista ha inoltre affermato che le fasi della sua liberazione furono sempre seguite dall’alto da un elicottero statunitense (vedi Giuliana Sgrena, Caso Calipari, la tesi Usa e la verità lontana, in www.nuovaresistenza.org).
Lozano, ritenuto l’unico responsabile della sparatoria, è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Roma nel giugno del 2006 con l’accusa di «delitto politico che lede le istituzioni dello Stato italiano». Il processo però si è concluso con il proscioglimento dell’imputato per «difetto di giurisdizione» in quanto il giudizio sull’operato dei militari americani impegnati in Iraq era di esclusiva pertinenza della magistratura statunitense, la quale peraltro ha scagionato Lozano da ogni addebito. Il “caso Calipari” è stato rimosso per qualche anno dalla memoria collettiva, finché nel 2012 Erminio Amelio, magistrato romano, ha pubblicato il saggio L’omicidio di Nicola Calipari (Rubbettino) nel quale ha smontato la versione fornita dal governo americano e ha ricostruito l’accaduto sulla base dei fatti accertati.
Calipari si era formato nel mondo degli scout della sua città natale, Reggio Calabria, apprendendone lo spirito di dedizione e la capacità di affrontare con coraggio e raziocinio le situazioni complesse. Dopo la laurea in Giurisprudenza, conseguita nel 1979, aveva fatto carriera nel settore dirigenziale della Polizia e nel 2002 era entrato a far parte del Sismi allora diretto dal generale Nicolò Pollari. In breve tempo il reggino si era segnalato come uno dei migliori agenti segreti italiani, dotato di un’umanità e di un senso pratico che gli avevano permesso di ottenere la liberazione delle volontarie Simona Pari e Simona Torretta e degli addetti alla sicurezza Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, presi in ostaggio da gruppi armati iracheni. Il 19 marzo 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo ha insignito della medaglia d’oro al valor militare alla memoria – consegnata alla moglie Rosa Villecco – premiandone l’abnegazione con la quale si è immolato per salvare la vita della giornalista che aveva contribuito a liberare.
Le immagini: foto di Nicola Calipari (fonte: www.nuovaresistenza.org); una veduta di Baghdad; la copertina di Fuoco amico.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno X, n. 111, marzo 2015)