Intervista alla scrittrice Raffaella Milandri, che illustra la situazione dei diritti umani nello stato oceanico e lancia un appello attraverso la nostra rivista
Capita spesso di leggere notizie di torture, mercificazione o vere e proprie esecuzioni femminili nei Paesi del Terzo mondo. In Papua Nuova Guinea ciò accade di frequente: ha fatto il giro del web il video di Leniata Kepari (cfr. Kepari Leniata: mother accused being a witch is burned alive), madre ventenne bruciata viva perché accusata di essere una strega; tipico del posto è anche il rito del bride price (“prezzo della sposa”). Per saperne di più abbiamo intervistato la scrittrice, fotografa e viaggiatrice solitaria Raffaella Milandri, attivista per i diritti umani dei popoli indigeni.
Iniziamo con una panoramica sulla Papua Nuova Guinea: un territorio ricco di giacimenti d’oro e petrolio e con usanze tribali. Di chi sono le responsabilità del mancato rispetto dei diritti umani?«La risposta che mi viene spontanea è che manca l’interesse a sviluppare il Paese. La Papua Nuova Guinea è stata colonia australiana e ha ottenuto l’indipendenza nel 1975; Michael Thomas Somare è stato primo ministro per diversi mandati non consecutivi, detenendo il potere per circa diciotto anni, fino al 2011. Il governo è accusato di profonda corruzione, mentre alle potenze straniere che attingono alle risorse minerarie fa comodo che questa terra rimanga un’isola di nome e di fatto. Ricordo, inoltre, che essa confina con la Papua occidentale, provincia dell’Indonesia, dove avvengono epurazioni etniche e ne accadono di tutti i colori. Ritengo, dunque, che non ci sia un reale interesse a fare evolvere lo stato papuano».
Quali sono state le sue esperienze nel luogo? Cosa l’ha maggiormente colpita?«Fondamentalmente ho riscontrato il perdurare del colonialismo, con aziende straniere e professionisti pieni di denaro che hanno ville lussuose e frequentano club esclusivi, con le guardie armate all’ingresso e il filo spinato tutto intorno. Una vita sotto vetro. Chi lavora in questi posti guadagna una quantità di soldi incredibile. Tuttavia in Papua ci sono anche più di 800 tribù con tradizioni diverse, stanziate in differenti realtà geografiche, dalle montagne alle città e alle isole minori. Ci sono solo tre centri urbani degni di questo nome: Port Moresby, la capitale, Mount Hagen e Lae. Indubbiamente c’è il richiamo delle città, anche se molti continuano a stare nei villaggi. A Port Moresby esiste l’unico centro commerciale, dove però si trovano prodotti a prezzi esorbitanti (ad esempio, 2 litri di latte costano 7 euro). La città è stata costruita per i ricchi e chi ci arriva, se non ha la giusta preparazione e qualche appoggio, finisce per patire la fame. Vi sono palazzoni pieni di uffici nel centro della capitale, per il resto baracche e povertà. Mancano virtùmorale e autorità politica».
Per quanto riguarda certe tradizioni violente, anche in Papua Nuova Guinea la donna diventa il parafulmine della società. Da noi il fenomeno è conseguente a un decadimento di valori etici, là, mi pare di capire, a una loro assenza totale.«Sì. La tradizione e l’innovazione sono in contrasto e questo ha esacerbato gli animi, creando oggi più problemi di cinquanta anni fa. Il bride price una volta era “semplicemente” l’acquisizione, attraverso il pagamento in maiali, di una donna all’interno della famiglia del marito. Con il passare del tempo i suini sono stati sostituiti dai soldi, ma in alcuni casi i parenti di lei chiedono troppo, lo sposo non è d’accordo e il matrimonio può sfociare in gesti di violenza, anche se deve ugualmente procedere: quando una ragazza viene promessa poi non è facile ricollocarla, è come fosse “marchiata”. Ciò accade anche in India».
Quali altri esempi di usanze tribali contro i deboli ci può riportare?«Poco tempo fa un uomo ha ucciso e mangiato sua figlia di 3 anni: l’ho saputo da amiche del luogo prima che la notizia rimbalzasse nei media di tutto il mondo. Dialogando con molte persone si capisce che, sotto lo strato religioso imposto dal colonialismo (in Papua Nuova Guinea si professa soprattutto il cristianesimo, ma anche l’islamismo), resistono i riti tradizionali e la magia. Va detto che, se prima non si sapeva delle violenze sulle donne, non se ne parlava o forse non si verificavano casi numerosi, il progresso economico ha accelerato attriti ed esecuzioni. La legge Sorcery, indulgente con chi uccide una “strega”, ha dato il via a tanti supplizi, molti dei quali nemmeno motivati da questa scusa. Spesso si trattava di donne colpevoli di essere gli elementi deboli della società: vedove, sole con figli…».
Il Sorcery act che ha citato è stato revocato pochi mesi fa. Di cosa si trattava esattamente?«È una legge che tutelava chi, per stregoneria, dava fuoco a una donna. Il caso di Leniata Kepari ha suscitato una specie di rivoluzione e nel maggio scorso è stata portata avanti dalla parte femminile del Paese l’haus krai, una forma di lutto e protesta nazionale contro violenze e uccisioni».
Facciamo un passo indietro: perché sopprimere, con la scusa della stregoneria, vedove o madri sole?«Dietro ci possono essere interessi di eredità o lotte tra diverse tribù. Il quadro che sto facendo non è bello, me ne rendo conto. Un altro problema di cui voglio parlare è rappresentato dalle violenze sessuali, spesso da parte di chi viene da fuori. L’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha richiamato ufficialmente un colosso minerario canadese poiché i suoi dipendenti hanno compiuto molti stupri nella zona della Papua Nuova Guinea in cui lavorano. L’alta manovalanza e gli operai specializzati provengono dall’America e dagli stati più industrializzati, mentre la manodopera più bassa arriva da Cina, Filippine, India, Indonesia, Malesia. I legali dell’industria mineraria hanno contattato le vittime per convincerle a non denunciare, né fare causa».
Le hanno comprate?«Sì può dire di sì, sminuendo l’accaduto e offrendo loro un pollo, dei vestiti di seconda mano o merci irrisorie come risarcimento».
Secondo l’ultimo report dell’Onu, in Papua Nuova Guinea si verificano il 66% di violenze domestiche e il 50% di stupri che rientrano nella casistica della quale ha appena parlato. Lei, a questo proposito, raccoglie e distribuisce telecamere usate e cellulari per permettere alle donne di documentare la loro situazione.«Sì, tramite l’associazione di cui faccio parte, la Papua Nuova Guinea yumi kirap (yumi kirap significa “insorgiamo”), operiamo questo genere di raccolta. Per noi un cellulare fuori moda è spazzatura, per loro un grande strumento di lotta. Pensi che recentemente siamo stati contattati perché una donna in ospedale voleva rilasciare la sua testimonianza e c’era poco tempo a disposizione. Il momento più delicato, infatti, è quello della decisione: se, quando si verifica, non siamo pronti, si perdono occasioni preziose. L’obiettivo è divulgare la verità attraverso i media, per sensibilizzare l’opinione pubblica e, di riflesso, lo stesso governo, oltre a compiere un’azione di prevenzione».
Lanciamo un appello: nel nostro piccolo cosa possiamo fare per fronteggiare questi problemi?«Come mi disse un leader tribale, che ha cambiato il mio modo di comunicare, “solo l’informazione può salvarci”. Diffondere le notizie, parlarne e capire. Pensi che una volta una donna di estrazione abbastanza elevata mi ha contestato, dicendo: “Abbiamo tanti problemi con le donne di qui”. Quando cominciamo a guardare solo al nostro giardino, è la fine. Le violenze, qui o in Africa, sono causate da una matrice comune, che cambia a seconda del panorama locale. La domandada porre è: “Perché sempre le donne?”. Le modalità sono diverse, ma la tipologia delle vittime è sempre la stessa. In Papua Nuova Guinea la ragione primaria è l’ignoranza e si esercita la violenza anche inculcando la paura di parlare. Per dare un’idea della politica del luogo le racconto un aneddoto: quando ero a Mount Hagen ci sono state le elezioni e, siccome i risultati non andavano bene a coloro che erano stati sconfitti, questi hanno bloccato l’aeroporto e chiuso l’approvvigionamento idrico della città. Se uno perde le elezioni e blocca l’aeroporto, mi può anche stare bene, ma che sospenda la distribuzione dell’acqua proprio no!».
Grazie a Raffaella Milandri per questa intervista che ci ha permesso di conoscere e pubblicizzare la realtà della Papua Nuova Guinea.
Come attivista per i diritti umani degli indigeni, la Milandri porta avanti campagne e petizioni a favore dei popoli vittime di ingiustizie, violenze o che rischiano l’estinzione, divulgando inchieste attraverso filmati, foto e libri; è impegnata anche in campagne informative sul turismo responsabile nei Paesi in via di sviluppo. Il suo ultimo libro, Storie autentiche di indiani d’America (Polaris, pp. 320, € 24,00), raccoglie testimonianze sulla sterilizzazione forzata delle native americane, in atto fino a pochi anni fa. Per contribuire alla raccolta di cellulari e telecamere per le donne della Papua Nuova Guinea si può contattare la Milandri all’indirizzo email: raffaellamilandri@gmail.com oppure su facebook: https://www.facebook.com/raffaella.milandri2.
Le immagini: Raffaella Milandri tra le donne di una tribù della Papua Nuova Guinea e altre foto di indigeni scattate da lei.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno IX, n. 97, gennaio 2014)