Pierre Bourdieu affermava che la società è fatta di campi all’interno dei quali gli individui agiscono come in un’arena, sviluppando strategie e contendendosi le risorse desiderabili. Ogni campo è assieme un campo di potere e uno spazio di differenze. Per lo studioso le azioni possibili degli attori sono vincolate alla distribuzione di reddito, patrimonio, soldi, reti di relazione sociale, istruzione e persino uso di simboli. In sostanza, da differenti tipi di capitale.
Le ricerche sull’immigrazione analizzano questo “pacchetto”, partendo dal fatto che ogni immigrato è prima di tutto un attore che occupa una zona del territorio e agisce in base ai vari tipi di capitale che possiede: economico, sociale, culturale, simbolico.
Prima accoglienza ed ethnic embeddedness
Certo è che quando gli immigrati arrivano a Bologna, spaesati e senza conoscere la lingua, sono esseri nudi e, il più delle volte, privi di qualsivoglia forma di capitale, se non – quando gli va bene – all’interno della stessa comunità d’appartenenza. Ciò però, permette loro di sfruttare solo relazioni, istruzione e simboli della propria cultura di partenza senza permettere l’interazione col contesto d’arrivo.
Hanno bisogno d’una prima accoglienza. Centri come quello di via Pallavicini, Residenza Sociale Temporanea Irnerio, sostengono gli immigrati nella ricerca di lavoro, casa, cibo. Qui dovrebbero transitare per raccogliere quel minimo di capitale economico da cui partire come attori della società, per stabilire relazioni, istruirsi, capire tutta la nuova simbologia del paese Italia.
Alcuni vi rimangono anni: problemi di disagio psicologico ed economico i motivi. “L’immigrato – chiarisce Giuliano Maturano, referente di struttura – non ha solo bisogno di lavoro, casa e cibo, ma di luoghi in cui ritrovarsi che non siano la sola moschea per i musulmani, che li “chiude” nel circolo della comunità d’appartenenza. Centri sociali, dopolavoro, come per tutti i cittadini, la cui frequentazione vuol dire organizzare attività, eventi che facciano intercultura, o magari semplicemente una festa. Devono approfondire e apprendere la lingua del paese d’arrivo per non limitarsi a chiedere un caffè al bar senza poter interagire con la persona che gli sta a fianco”.
I figli degli immigrati
La problematica di andare oltre i bisogni primari ed emergenziali diventa evidente nelle seconde generazioni d’arrivo.
Se le prime si limitavano a uno stile di vita casa-lavoro-casa, le nuove inseguono lo “stile occidentale” e, spesso, devono fare i conti con limitazioni economiche. Creare luoghi dove questa interazione con la cultura d’arrivo possa essere vissuta a prescindere dallo scarso budget a disposizione è fondamentale se si vuole integrarli.
“C’è poi la questione della visibilità – continua Marturano -, della comunicazione nei confronti della cittadinanza. Nella zona dove è sito il centro c’è Villa Salus e la moschea, ma è stato creato attraverso eventi un contatto diretto con la cittadinanza. Se all’inizio la struttura era vista con gli occhi di chi pensa agli immigrati come “invasori” o “delinquenti”, ora ci si è resi conto che questa è gente che lavora, che non è solo una questione di sicurezza e, soprattutto, che dietro ci sono problemi più complessi come lo sfruttamento e la dignità delle persone”.
Spazi urbani e integrazione
Il tema dignità/sfruttamento è delicato e s’intreccia alla relazione tra integrazione e trasformazioni del tessuto cittadino. E’ vero, ci sono segnali d’avvicinamento alle abitudini del paese d’accoglienza, sul piano della fecondità e del sostegno parentale, ma spesso emergono le difficoltà economiche nel trovare un’abitazione separata per i diversi nuclei familiari e la necessità di chiudersi in gruppi allargati.
E poi c’è anche la consapevolezza dello scoglio che rappresenta il non avere origini italiane, in termini di mobilità sociale, affermazione, o addirittura per quanto riguarda la percezione dei propri figli in termini d’intelligenza rispetto ai coetanei italiani. Le famiglie immigrate risiedono per lo più nel centro storico, dove collocano attività commerciali di piccole dimensioni: alimentari, posti telefonici pubblici, mercerie, ecc. o in quartieri abitati da famiglie con reddito medio-basso che negli ultimi anni hanno visto crescere il fenomeno immigratorio.
Di fatto, questi avvenimenti hanno comportato una vera e propria ridefinizione di tali zone che ora sono caratterizzate proprio dalla presenza d’attività commerciali orientate a una clientela “etnicamente definita”.
Nascono nuove realtà cittadine
Gregorio Dimonopoli, coordinatore del settore immigrazione e sicurezza della Cooperativa Nuova Sanità, che si occupa anche di mediazione dei conflitti nella comunità, da un lato parla d’una realtà numerica triplicata che, “anche se non direttamente, muta la percezione della cittadinanza autoctona”, dall’altro di come gli stranieri stiano sempre più popolando spazi abbandonati, “dalle botteghe del centro storico e non, fino a quelle abitazioni che ormai hanno una connotazione di minore vivibilità (zone ad alta densità di traffico, rumorose, ecc.)”.
Dimonopoli ricorda che parlare di zone, più che di città, aiuta a identificare le specificità e a evitare gli errori degli anni Sessanta come la costruzione di quartieri tipo Pilastro o Barca. Questi, sorti per rispondere all’arrivo massiccio di meridionali, finirono per essere citati come esempio di concentrazione criminale, rendendo difficile poi restituire ai loro abitanti la dignità necessaria per la convivenza con i cittadini bolognesi di nascita. Fare tesoro di tali esperienze serve a evitare ghettizzazioni, pregiudizi sociali, generalizzanti allarmi che sfocino in accuse di questo o quel nemico.
Per quanto riguarda le politiche sociali, e nonostante l’Amministrazione comunale abbia sempre cercato d’adeguarle ai forti cambiamenti, Dimonopoli evidenzia le problematiche che ne rendono difficile la riuscita: il restringimento delle risorse e il non avere una situazione dedicata. “È tuttora necessario coinvolgere tutte quelle amministrazioni locali che siano toccate da queste tematiche. […] Di qui dunque la necessità di politiche concertate e sinergiche. Questo tuttora non è risolto. In più, ci sarebbe anche da analizzare quante forme e realtà d’intervento dell’associazionismo, del volontariato e della cooperazione hanno realizzato modelli di supporto che in alcuni casi hanno letteralmente sostituito compiti del pubblico, senza però che si costruisse qualcosa che diventasse “Sistema””.
Mercati fantasma e sfruttamento
Alle trasformazioni del territorio s’agganciano problematiche connesse al profitto, sia da parte italiana sia degli stessi immigrati.
Per esempio Djamel, pakistano, racconta di dormire su una branda nel retro di uno degli innumerevoli alimentari sparsi per Bologna. Scopo per lui: l’assunzione da parte del proprietario, suo connazionale, per poter avere il permesso di soggiorno. Scopo per il datore: dichiarare un costo per il lavoratore e dargli meno della metà scritta sulla busta paga. Djamel è contento perché così si è regolarizzato e può vivere la sua miserevole vita italiana, il datore perché guadagna tanto a scapito di un Djamel, comunque soddisfatto.
E, visto il numero di questi market, è ipotizzabile lo sviluppo di una prassi consolidata, d’un mercato “grigio” tra legale e illegale, tra bianco e nero.
Per Khadim, invece, senegalese, devo fare uno sforzo di memoria e tornare a circa due anni fa, esattamente al giorno in cui l’ho incontrato. Dopo che, di notte, gli avevo dato un passaggio a casa, zona Bolognina, m’invita per un tè, ci tiene a ringraziarmi. Uno scantinato di meno di due metri quadri senza finestre. Dentro, una branda e un fornellino a gas. La cacca la faceva in una busta di plastica, la pipì nello scolo al centro di quella “sua” stanza, puntando preciso, la doccia, riscaldandosi l’acqua e buttandosela addosso sopra lo scolo, per non allagare tutto. Costo: 400 euro. Motivo: situazione irregolare. Affittuario: italiano.
Cosmin invece è rumeno. Appartiene alla “classe nera” dell’edilizia. Il suo caporale, rumeno anch’esso, gli ha detto: “All’inizio non ti assumo, ti regolarizzo poi con la busta paga e ti fai il tuo permesso”. Cosmin ha capito subito che il suo tempo “nero” è a discrezione di alcuni “piaceri” del capo. Quindi giù la testa a lavorare come un mulo 12/13 ore al giorno finché il caporale, guadagnando sul suo lavoro, non sia riuscito a comprarsi i piaceri tanto agognati, e che altrettanto desidera anche Cosmin: macchina e casa. Il problema è che il capo ha deciso di comprare casa e macchina in Italia e in Romania.
I piaceri di Cosmin dovranno aspettare.
L’immagine: “pubblicità” di un market su una colonna in via Rialto.
Andrea Spartaco
(LM Magazine n. 3, 15 giugno 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 30, giugno 2008)
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