Considerata inaccettabile in America, la pratica di truccarsi per assumere le sembianze di persone di colore ha causato una bufera mediatica sulla Rai e su Alitalia. Ecco i motivi
Tale&Quale show è un programma televisivo di successo di Rai 1 nel quale i concorrenti vip devono imitare le performance e le fattezze di cantanti famosi. Nella scorsa edizione si sono susseguiti sul palco “omaggi” a Gloria Gaynor, Beyoncé, Louis Armstrong, Barry White, Donna Summer, Stevie Wonder. Che cosa li accomuna? Il fatto di essere talentuosi artisti afroamericani interpretati da persone bianche che, attraverso il make up, hanno cambiato il proprio volto per assomigliarvi.
Attorno a questo si è creato un dibattito: la youtuber americana Tia Taylor ha criticato la trasmissione accusandola di razzismo, trovando sostegno in molti avventori del web (da Fanpage). Altri non vi hanno visto alcun male, ribattendo che le esibizioni sono semmai un segno di stima nei confronti dei musicisti; infatti, anche quando a essere imitati sono cantanti bianchi, le regole del programma tv impongono la somiglianza fisica attraverso trucchi che trasformano i concorrenti. La compagnia aerea Alitalia ha poi suscitato proteste con il suo spot pubblicitario “Where’s Washington, mr. Obama?”, in cui l’ex presidente degli Stati uniti Barack Obama è interpretato da un attore con la pelle appositamente resa più scura dal make up (Gaffe razzista di Alitalia: nello spot con il finto Obama utilizza il blackface, TPI). Questa pratica è apparsa anche in diversi film, da Totò ai più recenti Aldo, Giovanni e Giacomo ne Il ricco, il povero e il maggiordomo (2014).
Per capire che cosa ci sia di sbagliato, è necessario contestualizzare storicamente il blackface e conoscere la serie di valori e implicazioni che vi sono collegati. Diffuso nel XIX secolo in ambito teatrale soprattutto negli Usa, esso consisteva nel mascherarsi attraverso tratti marcatamente irrealistici e stereotipati per costruire una parodia delle persone di colore.
Gli sketch che ne risultavano erano profondamente razzisti e ridicolizzavano gli afroamericani, anche perché a impersonarli erano attori palesemente bianchi. I Minstrel show, così si chiamavano, terminarono solo con il Movimento per i diritti civili degli afroamericani di Martin Luther King, che ne evidenziò la natura offensiva. Sebbene non così gravi, i fenomeni di blackface odierni sono ricollegabili a un tempo in cui i neri erano trattati come macchiette da sbeffeggiare. Alcuni di questi episodi accadono anche per “buona fede”: il pizzaiolo napoletano Gino Sorbillo si è dipinto il volto di nero a sostegno del calciatore Kalidou Koulibaly, vittima di insulti razzisti. La modella tedesca Martina Big si è sottoposta a una lunga serie di operazioni per acquisire tratti africani. In tal caso, il proposito di affiancarsi agli individui discriminati, di render loro omaggio, alimenta ancor più lo stereotipo: è come se, per difendere gli italiani e la loro cultura, qualcuno si munisse di pizza e mandolino o, ancor peggio, di coppola e lupara.
Credere che avere la pelle di colore possa essere il vezzo di una sera è un affronto a chi deve convivere giornalmente con la propria identità, subendo talvolta abusi, aggressioni verbali e fisiche. Il razzismo non è ancora superato al punto da poter accettare una tale rappresentazione in totale leggerezza (Perché c’è razzismo in Italia: ce lo dice un cittadino senegalese, in LucidaMente). Essere neri non è una maschera che si può mettere e togliere a piacimento.
Per saperne di più: Perché dipingersi la faccia di nero è sempre un insulto razzista (da The Vision).
Le immagini: il manifesto pubblicitario di un Minstrel show (da wikipedia.org, di pubblico dominio).
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XV, n. 170, febbraio 2020)