Intervista a Hicham Ben’Mbarek, imprenditore della moda artigianale made in Italy, rinato dopo una terribile esperienza
Il sogno di lavorare nella moda stroncato da un malore. Poi il trapianto e la rinascita. Quella di Ben è una storia di coraggio e di speranza. Una storia che, con l’Italia messa in ginocchio dal coronavirus, assume un valore particolare. Abbiamo intervistato Hicham Ben’Mbarek, imprenditore della moda artigianale made in Italy e fondatore del marchio Benheart.
Qual è la tua storia?
«Sono arrivato in Italia nel 1987 dal Marocco e sono cresciuto a Firenze. Con la mia mamma abbiamo attraversato il mare quando ero piccolino alla volta del Belpaese. Avevo solo sei anni, la mia mamma ventisei e per noi giungervi era un sogno. Da una parte gli italiani si sentono presi di mira dallo straniero, ma in realtà l’Italia viene vista da fuori come un Paese incredibile. Per questo noi abbiamo creduto nella possibilità di arrivare qui, abbiamo attraversato lo stretto di Gibilterra, superato Francia e Spagna e siamo arrivati. Dopo la terza media ho smesso di studiare e sono andato a fare il pasticciere alla storica pasticceria Giorgio [nel capoluogo toscano, ndr] per sette anni».
Come ti sei approcciato al mondo della moda?
«Ero un ragazzo molto creativo, bravo nel disegno a mano libera. Per caso ho creato delle magliette, che vendevo agli amici. Il caso, la mia ambizione, la voglia di fare successo e di crescere mi hanno spinto a cercare di vendere nei negozi. Ho raggiunto un buonissimo successo personale a livello stilistico, con il mio nome e cognome, Hicham Ben’Mbarek, approdando nei più bei punti vendita di tutto il mondo, da Luisa Via Roma a Flò».
Poi, a trent’anni, un evento ti ha cambiato la vita…
«Un bel giorno nel campo di calcio mi sono accasciato in terra, privo di sensi. Stefano, il mio allenatore, ha chiamato l’ambulanza. Mi hanno defibrillato e riportato in vita. Sono stato sette mesi all’ospedale di Siena, in coma farmacologico, finché non è arrivata la donazione di un cuore compatibile. Ho affrontato un trapianto e sono rinato. La mia aspettativa di vita da malato era zero. Dopo il trapianto sono tornato a un’esistenza normale, la mia ambizione è cresciuta ancora di più».
Dopo l’intervento cosa hai fatto?
«Ho dato il nome a un marchio, l’ho chiamato Benheart. Ben sono io, significa figlio, heart cuore. Il logo è una chiave stilizzata con un cuore sopra. È cominciata la mia ascesa. Ho aperto il primo negozio a Firenze. Pagavo 800 euro di affitto al mese, oggi ne paghiamo 40.000 in un solo negozio, in via Calzaiuoli. Conto più di quaranta dipendenti diretti e oltre duecento famiglie prendono uno stipendio grazie all’indotto lavorativo dell’azienda. Il mio successo è esploso, siamo arrivati ad aprire a Beverly Hills, a Tokyo, nei Paesi arabi, finché non è arrivato il coronavirus».
Come vivi, da imprenditore, l’epidemia di Covid-19?
«A livello economico è devastante pensare che le persone a cui davo una speranza di futuro e di stipendio ora sono a casa. Cerco di sentire ogni giorno i miei collaboratori, di incoraggiarli perché torneremo più forti di prima. Viviamo nell’incertezza, l’unica cosa che possiamo fare è pregare che i nostri cari stiano bene e che questa brutta situazione porti via meno persone possibile. Ora è anche brutto considerare il lato economico, meglio pensare a quanti si salveranno. Poi dovremmo pensare a come agire, perché purtroppo l’economia e il business fanno parte della nostra vita. Io sono molto positivo e speranzoso, sono convinto che torneremo più forti di prima. L’importante è che saremo in tanti».
Qual è la filosofia che sta dietro le tue creazioni artigianali?
«La mia esperienza è legata a un sì, a un dono, a un trapianto. Quindi la nostra filosofia è basata sui baci, sugli abbracci. Lo vedi sui nostri social: siamo riusciti a stringere donne musulmane nei Paesi arabi, a cambiare il saluto in Giappone, dall’inchino all’abbraccio. Il cliente esce dal nostro negozio con baci, strette, foto con i collaboratori. Per questo per noi il coronavirus è devastante. Riusciremo a non morire solo se saremo in grado di abbracciarci virtualmente. Sogniamo ogni giorno di tornare alla normalità».
Credi che, in termini di accoglienza e integrazione, stiamo vivendo una parentesi della storia più difficile rispetto agli anni Ottanta?
«Quando sono arrivato eravamo speciali, eravamo diversi ed eravamo pochi. Stranieri, nella mia classe, eravamo solo io e un altro ragazzo. Nella classe di mia figlia invece ci sono albanesi, cinesi, marocchini, senegalesi. Ci sono state molte politiche diverse negli ultimi trent’anni: quelle che accettavano l’integrazione e quelle che la rifiutavano. Questo ha confuso la mente delle persone. Non ho però mai creduto che gli italiani fossero razzisti. Io ho lavorato, mi sono comportato bene e sono sempre stato accolto nel migliore dei modi. E oggi mi piace pensare che ci sono tanti Stati che aiutano l’Italia in questo momento difficile. Anch’io ho cercato di dare una mano, rendere all’Italia quello che mi ha dato. Perché è un bellissimo Paese e ancor di più lo sono i suoi abitanti».
Quanto è difficile difendere l’artigianato locale in un mondo colonizzato dai grandi marchi d’abbigliamento?
«Lo si fa lavorando in Italia, con materiali, collaboratori e modalità italiane: sono convinto che il lavoro artigianale, il made in Italy in cui abbiamo sempre creduto, dopo questa fase difficile tornerà più apprezzato di prima. Sarà un modo per tornare ad apprezzare ciò che abbiamo dimenticato. Fino a poco tempo fa potevamo abbracciarci e sprecavamo il nostro tempo sui telefonini. Ora che abbiamo tempo per stare al telefono ci mancano gli abbracci. Dobbiamo tornare a riscoprire ciò che abbiamo trascurato».
Come guardi al futuro?
«Il mio spirito, anche legato al periodo complicato che affrontiamo ora, è che dalla sofferenza si rinasce più forti, sempre. Questo è indubbio. Io oggi sto male perché vedo gli altri stare male, ma personalmente sono abituato a resistere al dolore, perché sono stato sette mesi chiuso in ospedale, senza speranza di vita… L’ho superato e so come se ne esce. Sono convinto che dal coronavirus usciremo più forti di prima, perché la gente avrà sofferto tantissimo la solitudine, il non poter uscire né abbracciare e baciare gli altri».
Le immagini: Hicham Ben’Mbarek, da solo, intervistato e in compagnia di alcuni volti noti del mondo dello spettacolo internazionale, per sua gentile concessione.
Edoardo Anziano
(Lucidamente, anno XV, n. 172, aprile 2020)