Intervista alla bella realtà musicale del Beneventano: dall’album d’esordio, “Rosmarinus” (Riverberi edizioni), alla filosofia di fondo del gruppo, da Rota al klezmer, dalla tamurriata al jazz
La Banda del Bukò è un collettivo musicale nato nel 2013, al Circolo virtuoso del Bukó di Benevento. Dalla volontà di un gruppo di ragazzi, professionisti della musica e non, di costruire un progetto di natura inclusiva e solidale. Associa la musica dal mondo a un impegno costante: la consapevole ricerca di una socialità sana contro le lusinghe dell’individualismo moderno.
Un modo di fare musica dei più particolari: proprio come una banda, si esibiscono in cammino, per strada (se vuoi approfondire questo tipo di musica, clicca qui). In una magica atmosfera: di dialogo vero con il pubblico. Il loro primo (e per ora unico) album, Rosmarinus, è uscito nel 2015; battezza l’etichetta Riverberi, ideata dal noto trombettista jazz di fama internazionale Luca Aquino, direttore artistico dell’omonima kermesse annuale irpina, la Riverberi-Appia in Jazz. Ne abbiamo parlato un po’ con Eduardo de Curto, Giampaolo Vicerè, Francesca Mazzoni e Danilo Romano, membri della Banda del Bukò.
Eduardo, partiamo da Luca Aquino. È un trombettista beneventano con nove dischi alle spalle e famoso nel panorama jazz internazionale. Quanto è stato importante l’incontro con questo artista per l’uscita dell’album?
«Luca ci ha dato “la spinta” a realizzare un progetto che, altrimenti, sarebbe rimasto solo un’idea. Ci ha fornito un termine temporale entro il quale lavorare e ha fatto sì che realizzassimo in concreto questo disco. Ci ha poi coinvolto nel progetto di presentare l’album all’interno della rassegna musicale Riverberi-Appia in Jazz e proprio l’occasione ha funto da sprone a ultimare il lavoro intrapreso. L’idea di Luca era infatti quella di sperimentare alcune produzioni che affiancassero il festival: Rosmarinus è stato, diciamo così, “la prova numero uno” dell’etichetta Riverberi».
Giampaolo, una domanda su Saraghina rumba. Primo brano di Rosmarinus: rielaborazione dell’omonima musica del compositore Nino Rota, colonna sonora del film Otto½ di Federico Fellini. La Saraghina del film è donna sensuale e giunonica, mossa da una personale danza scatenata. Essa si concede ai marinai, sulla spiaggia marchigiana, in cambio di pesce fresco: le saraghine, appunto. Perché proprio questa figura, questa musica e la danza a essa associata come primo pezzo del vostro album?
«In realtà, la scelta è stata suggerita soprattutto dal brano, dalla musicalità del pezzo, non tanto dalla storia che conteneva. La sua forma era piuttosto semplice da realizzare, arrangiare, armonizzare. È stato il primo esperimento della Banda. Lo abbiamo provato tra noi e abbiamo iniziato a suonarlo da subito, perché permetteva un facile accordo tra le parti. Ed è proprio questa la caratteristica principale del nostro progetto musicale: essere strumento di accordo, d’integrazione sociale. La banda è “uno stare insieme” attraverso il mezzo musicale, senza muri, senza ostacoli: chiunque, professionista e non, può venire a suonare. Insomma: noi non cerchiamo persone abili con la musica, esperti del mestiere; ma donne e uomini capaci di stare in gruppo e fare gruppo, vogliose di suonare con semplicità e spontaneità. La Saraghina, nella sua forma musicale, era più che adatta: a “incontrarci” in musica, tutti insieme».
Danilo, chiacchieriamo un po’ di musica klezmer. Un’armonia che viene dalle antiche comunità ebraiche dell’Est Europa. Il vostro album rielabora tre brani di questo genere (Odessa; Froggy Waltz; Sem Sorok). Si concede però slanci verso un’altra grande tradizione musicale, il jazz. Come siete riusciti a legare insieme questi due orizzonti culturali, all’apparenza così distanti?
«Molto spesso i nostri componimenti sono nati dall’incontro in sala prove, e gli spartiti sono stati scritti dopo le esecuzioni. Esecuzioni ricche, d’improvvisazione e di libertà. Ciascuno degli artisti, è ovvio, conviveva con il proprio background musicale: il sapore jazz dei pezzi e, in generale, la loro contaminazione con altri generi ha questa precisa ragione. Di fronte a un testo nuovo da provare, il pensiero iniziale di tutti è stato: “Io ho questo brano tra le mani, questa l’armonia e questi gli accordi; più o meno il pezzo fa così”. E poi… lo conosci il telefono senza fili? Una melodia passa da un orecchio all’altro, da uno strumento all’altro. Si modifica sempre un po’, fino a diventare un “risultato”: delle parole in musica che hai ascoltato, e della tua personale sensibilità. L’eco jazz è frutto di questo fenomeno: della comunione d’intenti, del mettersi in musica insieme, della volontà di creare qualcosa di bello e nuovo. All’inizio è improvvisazione, forse; ma poi il prodotto, fissato nelle tracce di un disco, è una rielaborazione originalissima».
Francesca, una domanda sulla Tammurriata balcanica, quinta traccia dell’album. Cover della Tarantella Schiavona di Mario Salvi, uno dei più grandi interpreti italiani dell’organetto. È l’unico pezzo che si riallaccia in modo diretto alle vostre radici campane. Come mai questa scelta di allontanarvi dalla vostra tradizione popolare?
«La Tammurriata balcanica, più che l’avvio di una distanza, è un punto di partenza. Noi siamo partiti dal nostro territorio; molti di noi hanno fatto e continuano ancora a fare musica popolare. In qualche modo, “c’eravamo tutti molto dentro” la musica delle nostre origini. Al via dalla tammurriata: una base solida da cui esplorare e sperimentare tutti gli altri suoni dal mondo; un trampolino di lancio. In realtà, è anche il nostro momento, quello in cui per davvero ci sentiamo coinvolti: siamo molto gioiosi e rilassati quando la suoniamo. Sono armonie che ci appartengono, echi della nostra terra; il momento, durante il concerto, in cui siamo molto complici, e ci divertiamo».
Eduardo, nel disco il vostro inedito si chiama Ornitorippo Freshness. Perché questo titolo?
«Non so se emerge chiaramente dal brano, ma Ornitorippo è un supereroe. Unisce “i poteri” dell’ornitorinco, con quelli del ghiacciolo, il famoso Calippo. Capace di portare freschezza, una freschezza che è salvifica. Il tema, e anche il problema affrontato con la Banda, è quello del surriscaldamento globale: molte specie animali rischiano l’estinzione. Allora c’è bisogno di una creatura che con la sua vitalità salvi il mondo. Noi l’abbiamo ideata: la canzone è proprio un omaggio a questo nuovo eroe moderno».
Per chiudere, uno per volta. Toglietemi una curiosità: perché bisognerebbe ascoltare la Banda del Bukò?
Francesca: «La Banda del Bukò non è solo un gruppo musicale, ma un atto di resistenza. Noi ci siamo sempre: nel bene o nel male riusciamo a trovare la forza in questo mondo di stare ancora insieme. Ascoltare la banda del Bukò è sentire la nostra storia, il viaggio che stiamo facendo come famiglia musicale».
Eduardo: «La Banda del Bukò è una fucina di cose nuove, di proposte che possono sempre cambiarci. Un’officina di musicisti che decidono di sfruttare l’opportunità nata dal semplice stare insieme: se metti vicino persone con un percorso importante di studi, e persone che hanno un approccio, diciamo così, più amatoriale, il risultato non è un qualcosa di minore, ma di più particolare, di più contaminato. In fin dei conti, questo connubio di approcci diversi può portare a risultati per paradosso anche più ambiziosi di quelli che in genere ci si aspetterebbe».
Danilo: «Fare un gruppo con le porte aperte significa che non sai con chi farai musica: proprio quest’apertura, questo non porre argine alla “provvidenza” conduce su una strada più inaspettata, più originale».
Giampaolo: «Noi della Banda del Bukò siamo veri: vogliamo esserlo sempre, e la musica che proponiamo è melodia che suggerisce il cuore».
Le immagini: la Banda del Bukò in azione e la copertina di Rosmarinus (2015).
Lorenza Cianci
(LucidaMente, anno XIV, n. 165, settembre 2019)
Sarebbe bello ascoltarli!