Annosa è la questione di cui si continua a dibattere tra mille posizioni. Alcuni chiarimenti e il sogno di un’Assemblea costituente…
L’autonomia differenziata non è altro che il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una Regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e di materie di competenza esclusiva dello Stato. Insieme alle competenze, le Regioni possono anche trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale secondo le necessità collettive.
La riforma del Titolo V della Costituzione
Una superficiale informazione parla di “folle proposito di riforma del Governo Meloni”. Occorre precisare che il governo di centrodestra vuole “attuare” la riforma del Titolo V della Costituzione, riforma che, ideata per contrastare le pulsioni secessioniste della Lega, fu approvata dal centrosinistra (Governo Amato), con legge costituzionale n. 3 del 2001, con pochissimi voti di maggioranza; legge poi sottoposta a referendum confermativo lo stesso anno con una scarsa partecipazione, attestatasi al 34 per cento. La riforma del Titolo V, quello concernente l’organizzazione degli enti locali, non è mai stata attuata. Alcuni Governi avviarono l’iter legislativo, ma poi non se ne fece niente. Sono trascorsi ventidue anni senza che sia approdata in Parlamento una legge attuativa della riforma (un tempo, per il momento, pari a quello trascorso dalla istituzione costituzionale delle Regioni e la sua concreta realizzazione). Brutto segno per la più bella Costituzione del mondo se le riforme rimangono inattivate per un periodo così lungo!
Le richieste del 2018 di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna
Non è che in questo periodo non si sia proprio mosso nulla. Nel 2018 le tre Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna inoltrarono la richiesta di nuovi compiti, richiesta sfociata poi in una intesa tra Governo e Regioni. Per la cronaca: la Lombardia arrivò alla richiesta dopo un referendum scarsamente partecipato; nella Regione Veneto il referendum vide l’approvazione della maggioranza dei cittadini (con un quesito generico «volete voi maggiore autonomia», che non necessariamente corrispondeva alle richieste gigantesche poi formulate); mentre l’Emilia-Romagna si è attivata, su impulso del presidente, con l’approvazione da parte dell’Assemblea regionale di una risoluzione per l’avvio del procedimento finalizzato alla sottoscrizione dell’intesa con il Governo. È stato calcolato che, con il trasferimento alle tre Regioni delle materie richieste, verrebbero trattenute, per spendere sul proprio territorio, gettiti fiscali per circa 190 miliardi, consentendo quindi un rafforzamento del controllo politico dell’elettorato e la gestione diretta delle risorse.
Il fallimento del referendum del 2016 e la pandemia
Successivamente altre Regioni, pur non avendo firmato alcuna pre-intesa con il Governo, hanno espresso la volontà di intraprendere un percorso per l’ottenimento di ulteriori forme di autonomia (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania). Si deve ricordare anche il tentativo della riforma del Governo Renzi che prevedeva un buon aggiustamento del Titolo V della Costituzione. Essa fu però poi bocciata dai cittadini nel referendum del 2016, e tra l’altro fu respinta la proposta di alcune forze politiche di spacchettare la complessa mole riformatrice. C’è voluta poi la disgrazia della pandemia, con gli scontri fra Governo e il protagonismo delle Regioni sulla gestione dell’emergenza sanitaria, a dimostrare che il Titolo V della Costituzione così com’è non funziona, e non solo per la materia sanitaria. Saltiamo ai giorni nostri: il centrodestra vince le elezioni e forma una solida maggioranza parlamentare, grazie a una legge elettorale mai modificata dopo le promesse fatte all’indomani della riduzione dei parlamentari, altra riforma della quale sentiamo troppe critiche dagli stessi che l’approvarono.
Una nuova proposta del Governo Meloni e le critiche provenienti dal Sud
Sulla base del programma elettorale del centrodestra nel quale è sancito l’impegno per attuare il Titolo V della Costituzione, il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega) produce una prima proposta di legge immediatamente subissata da motivate critiche soprattutto per non aver tenuto conto dei «livelli essenziali delle prestazioni» e per bypassare le prerogative parlamentari. Dopo aver cassato la proposta Calderoli, lo scorso 2 febbraio il Governo Meloni ha presentato una nuova proposta definendo i principi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia e le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra Stato e una Regione. Non sono immediatamente mancate forte critiche da parte dell’opposizione. I modi in cui questa autonomia può attuarsi, tuttavia, sono molti, e quello scelto da Calderoli è stato criticato e contestato soprattutto da studiosi, dall’opposizione e da molti rappresentanti locali delle Regioni del Sud.
Il nodo “livelli essenziali di prestazione”
Oltre alle critiche sopra citate, la parte più problematica del disegno di legge sull’autonomia riguarda i «livelli essenziali di prestazione» (LEP) che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, che secondo la Costituzione riguardano «i diritti civili e sociali» dei cittadini e delle cittadine. La loro entità andrebbe stabilita prima della richiesta di autonomia differenziata, così da superare la questione della quantità di risorse da erogare a ciascuna Regione richiedente. Se si procedesse con l’attribuzione della spesa storica, si avrebbe come conseguenza che si assicurerebbero più finanziamenti alle Regioni del Nord (che, disponendo di più risorse, hanno quindi una spesa storica più alta), e meno a quelle del Sud, dove le risorse sono inferiori e quindi la spesa storica è più bassa. Ciò finirebbe per accentuare il divario tra Nord e Sud, almeno finché non verranno decisi i livelli essenziali di prestazione, con il rischio di avere cittadini di serie A e cittadini di serie B. Attenzione, non basterebbero pagine e pagine per descrivere le differenze oggi esistenti, a cominciare dal diverso costo della vita secondo il territorio di residenza per finire alle differenze tra cittadini che vivono in Regioni a statuto speciale rispetto a quelli che vivono nelle altre Regioni. Senza sottacere il fatto che spesso le differenze tra Regione e Regione sono frutto di amministratori e politici di categoria A, categoria B e oltre.
Rischio disuguaglianze
Nello schema di legge governativo è poi previsto, «anche nei territori che non concludono le intese», un fondo perequativo (voluto dalle amministrazioni del Sud) per evitare iniquità. Perché, se con questa riforma si darà il via a un nuovo modo di ripartire le risorse dello Stato, è anche necessario che tutte le Regioni partano dallo stesso punto di partenza. Altrimenti il rischio è che le disuguaglianze che si sono prodotte finora saranno ancora più ampie in futuro. Naturalmente questa perequazione comporta una montagna di fondi che i proponenti individuano senza citarne il reperimento e che chi governa deve attuare ponendo molta attenzione affinché un’eventuale riduzione alle Regioni avvantaggiate non porti poi tutti i cittadini alla categoria B o oltre. Del resto, è appurato che chi è più ricco diventa sempre più ricco e chi è povero diventa sempre più povero, facendo scivolare verso questa categoria sempre più cittadini.
Ipotetici (e incerti) scenari futuri
Occorre prendere atto che: il programma elettorale del centrodestra ha posto in evidenza la volontà di rendere effettiva la riforma del titolo V della Costituzione; che gli elettori hanno dato una solida maggioranza parlamentare al centrodestra; che il Governo si è già pronunciato favorevolmente su tale ipotesi; che le Regioni Lombardia e Veneto scalpitano per ottenere compiti e funzioni di carattere statale, cioè avere più potere. Ma cosa farà la Regione Emilia-Romagna? Riformulerà le proprie proposte, soprassederà o si pentirà di aver richiesto più autonomia? Del resto, oramai i pentimenti non si contano più: ad esempio, su riduzione del numero dei parlamentari, finanziamento pubblico ai partiti, Titolo V costituzionale, soppressione delle Province, legge elettorale ecc. E quale atteggiamento deve assumere l’opposizione parlamentare? Può tranquillamente e pregiudizialmente essere in tutte le occasioni contraria a qualsiasi ipotesi, condendo i dinieghi con i proclami antifascisti, forse sperando che passino altri ventidue anni senza sbocchi conclusivi? Invece, potrebbe cercare di introdursi nel processo di formulazione legislativa con l’obiettivo di migliorarla o di contenere i guasti che potrebbe recare ai cittadini. Oppure, ancora, promuovere referendum di riforma della riforma, utilizzando tutti gli strumenti che già esistono…
La speranza di un accordo pluralista
Infine un sogno: un’Assemblea costituente, eletta in modo proporzionale, per dare spazio a tutte le sensibilità, capace di rivedere l’intera seconda parte della Costituzione e non solo il Titolo V, che riesamini lo status delle Regioni a statuto speciale, che verifichi l’eccessivo numero di Regioni e l’alto numero dei piccoli Comuni, oramai impossibilitati a dar risposte alle esigenze dei cittadini, stabilisca il ripristino degli organi nelle Province e nelle Città metropolitane, anche queste da rivedere nel loro numero, ecc. E, ancora: che ripensi al sistema bicamerale, alla scelta di addivenire a una Repubblica presidenziale e di quale tipo o rimanere Repubblica parlamentare con elezione diretta o meno del presidente del Consiglio dei ministri. Per il momento, dobbiamo accontentarci dell’unica iniziativa in essere: la raccolta delle firme per la presentazione di una legge popolare, non di riforma della riforma, ma di sostanziale modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione. Poca roba dall’esito incerto.
Le immagini: dai siti istituzionali.
Franco Ecchia
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 207, marzo 2023)