Lunga intervista in esclusiva alla ex campionessa delle Farfalle azzurre che ha denunciato abusi e violenze verbali subìte all’interno dell’Accademia internazionale di ginnastica ritmica. Il suo sogno di bambina realizzato a caro prezzo. La sua vita fuori dalla Nazionale
Dal 2016 al 2020 Anna Basta ha fatto parte della Squadra nazionale di ginnastica ritmica, le cosiddette Farfalle azzurre. L’Italia ha ammirato le sue capacità sportive ed è stata orgogliosa di lei mentre, grazie al suo corpo atletico, vinceva una medaglia dopo l’altra (due ori, un argento e due bronzi ai Mondiali; un oro e due argenti agli Europei). E proprio a causa del suo fisico, l’ex campionessa ha dichiarato di aver subìto umiliazioni e violenze verbali dalle proprie allenatrici, da una in particolare, a séguito delle quali ha pensato perfino, un paio di volte, a un gesto estremo. In attesa che la giustizia federale faccia il proprio corso l’abbiamo incontrata, scoprendo di lei soprattutto il lato umano.
Parliamo innanzitutto di Anna bambina: quali erano i tuoi sogni nel cassetto e quando hai capito che cominciavano a prendere vita in un progetto concreto?
«Ho iniziato a praticare la ginnastica ritmica all’età di quattro anni e mezzo, alla Polisportiva Pontevecchio della mia città, Bologna. È stato letteralmente un colpo di fulmine: sembra incredibile ma, fin dal primo momento, ho iniziato a fantasticare su una mia futura presenza all’interno delle Farfalle azzurre. I primi tempi per me hanno rappresentato puro divertimento. A otto anni ho iniziato l’attività agonistica: assistendo anche alle esibizioni della Squadra nazionale, il mio sogno di entrarvi a far parte è divenuto più concreto».
Devi quindi buona parte del tuo percorso alla Polisportiva Pontevecchio…
«Proprio così. E fino a quando sono entrata in Nazionale, a ottobre 2016, non l’ho mai abbandonata. Mi ci sono allontanata soltanto in due occasioni. La prima quando, a dodici anni, sono stata chiesta in prestito alla società ferrarese Estense Putinati, per gareggiare in serie A. La seconda, nel 2015, quando ho trascorso qualche mese a Fabriano [Ancona, ndr] all’interno della squadra Juniores in occasione degli Europei. Per il resto, sono sempre stata fedele alla Pontevecchio, cui devo davvero tantissimo».
Nel 2016, anno in cui ti sei trasferita a Desio per entrare in Accademia, avevi appena quindici anni. Come ha vissuto la tua famiglia questo distacco?
«Sapendo che entrare nelle Farfalle azzurre era da sempre il mio sogno, sia mia madre sia mio padre erano molto felici per me; d’altro canto, la loro ex bambina stava per andare a vivere fuori casa e questo li rattristava. Ma non vi è stato un solo momento in cui non abbiano appoggiato la mia scelta; incoraggiati soprattutto dalla felicità che leggevano nei miei occhi per il risultato da me raggiunto».
Quante volte potevi incontrare la tua famiglia, nell’arco di un anno?
«I miei genitori venivano a trovarmi a Desio [Monza Brianza, ndr] una volta al mese. Io tornavo invece a Bologna un massimo di tre volte all’anno: una settimana a Natale; un’altra prima dell’inizio dell’allenamento estivo a Follonica [Grosseto, ndr]; da sette a ventuno giorni al termine dei Mondiali. Stavo pertanto con la mia famiglia complessivamente quattro o cinque settimane all’anno».
Come si svolgeva la tua giornata all’interno dell’Accademia internazionale di ginnastica ritmica?
«La sveglia suonava alle 7,30. Dopo colazione, alle 8,00 eravamo già in palestra. Lì ogni mattina venivamo pesate, una dopo l’altra: proprio a séguito di questa routine è iniziato il mio incubo. Alle 8,10 cominciavamo l’allenamento di ginnastica, che era suddiviso in due parti: la prima di riscaldamento, con preparazione fisica; la seconda di danza, cui seguiva lo studio del primo esercizio di gara. Verso le 13,30 l’allenamento si interrompeva per il pranzo e, al termine dell’ora di pausa, tornavamo in palestra. Qui ci riscaldavamo velocemente e poi studiavamo – fino alle 18,30 – il secondo esercizio di gara. A seconda dell’età delle atlete – nel mio caso specifico sì – seguivamo o meno le lezioni scolastiche serali, impartite in hotel da professori privati. Seguiva poi la cena e la giornata volgeva presto al termine».
Cosa ti manca, ora, di quel periodo?
«La pedana, senza ombra di dubbio. Gareggiare ha sempre costituito, per me, l’aspetto più bello. Ma anche la consapevolezza di aver lavorato duramente tutto l’anno per dare il meglio nel momento della competizione. Continuo ad amare la ginnastica ritmica ma, ora che sono fuori dalle Farfalle azzurre, so che queste emozioni non torneranno più. E poi mi manca la complicità personale con alcune ex colleghe».
Tu e le atlete della Nazionale vi siete trovate a trascorrere insieme ogni ora del giorno. Tra di voi si era quindi instaurato un rapporto di amicizia?
«In Nazionale eravamo complessivamente dieci ginnaste, di cui soltanto cinque gareggiavano. Ognuna di noi poteva esibirsi in qualità di titolare o di riserva, a seconda dell’esigenza del momento. Premesso questo, personalmente io non mi sono mai sentita in competizione con nessuna delle colleghe. Sono sempre stata convinta del fatto che, se lavori bene e te lo meriti, vai avanti; diversamente no. In realtà mi confrontavo con una sola atleta: me stessa. Con le altre Farfalle azzurre, invece, si era creato un rapporto di amicizia: in base alle personali affinità, con alcune di loro ero più legata mentre con altre ero meno in sintonia; come accade in ogni relazione umana, anche al di fuori del mondo sportivo».
A luglio 2020, dopo aver sopportato personali periodi bui, hai preso una decisione molto difficile: lasciare l’Accademia, porre fine al sogno della tua vita. Cosa ti ha portato a questo passo?
«Faccio una premessa. Nonostante il periodo di lockdown non potevamo permetterci di fermarci, pertanto ci allenavamo nelle stanze dell’hotel, senza interrompere la preparazione un solo giorno. Dagli ultimi mesi del 2017 ho iniziato a subire dalle allenatrici attacchi che non si limitavano all’aspetto atletico ma si estendevano alla sfera personale. A fine 2018 mi sono poi infortunata a un ginocchio e il non poter gareggiare mi ha molto rattristato. Nonostante la gamba gonfia, la pesatura quotidiana proseguiva con esiti infausti; inoltre, mi veniva rinfacciato il fatto che restavo in hotel invece di andare in palestra. In questa occasione ho seriamente rischiato la trombosi. L’unica persona ad averlo compreso – e ad avermi curato – è stato il medico della squadra, che mi ha portata in ospedale: sono seguìti lunghi giorni con stampelle e calze contenitive. Proprio da questo fatto ho iniziato a sentirmi realmente triste; tanto che, tornata a Bologna per le feste natalizie, a Capodanno 2019 non volevo più fare rientro a Desio».
I fatti invece dimostrano che è andata diversamente. Quale episodio ti ha definitivamente convinta a tornare a casa?
«Avevo imparato a convivere con questo stato d’animo che, considerando il mio carattere solare, per me era una novità. La decisione quasi definitiva di andarmene è arrivata a fine aprile 2020, lo avevo anche accennato alle istruttrici. Come noto, dai primi di maggio gli allenamenti sarebbero potuti riprendere in palestra: pertanto, mi è stato chiesto di attendere il rientro in pedana prima di prendere una decisione definitiva sul mio futuro. Ho ascoltato i loro consigli e sono rimasta in Accademia. Un paio di giorni dopo aver riferito loro la mia disponibilità a restare mi sono sentita male durante un allenamento di danza nella saletta dell’hotel. Ho cercato lo sguardo dell’allenatrice, le ho rivolto il mio “no” con la testa; avrei desiderato tornare a casa mia in quel preciso istante. Per tutta risposta mi ha detto di andare alla toilette. Io le ho obbedito ed è proprio lì che ho subìto l’attacco di panico più spaventoso della mia vita, fino a quel momento».
In cosa è consistito l’attacco di panico di cui parli?
«In generale, ogni volta che mi veniva un attacco sentivo sempre gli stessi sintomi: fiato corto, fatica a respirare, un irrefrenabile bisogno di piangere, male al petto, battiti cardiaci fortissimi, ansia. Parlando invece di quel particolare momento, arrivata alla toilette mi sono seduta per terra e ho iniziato a singhiozzare. La stanza era illuminata da una luce con sensore di movimento, quindi si è spenta dopo un po’ che ero rimasta immobile. Quando mi sono rialzata, si è riaccesa e lo specchio mi ha restituito un’immagine orribile: il volto di una ragazza che non avrebbe potuto continuare così un momento di più. Ho quindi ribadito alle allenatrici che sarei tornata a casa: loro hanno insistito per farmi rimanere, ma dopo quell’attacco di panico non sono più tornata indietro nella mia decisione».
Quando sono iniziati per te gli attacchi di panico?
«A inizio 2019, ma avevo imparato a conviverci. Sapevo infatti che, pur sentendomi malissimo, non rischiavo la vita. Proseguivo pertanto gli allenamenti, nonostante tutto. Ho compreso soltanto più tardi la loro origine: le umiliazioni personali e le violenze verbali subìte nel tempo, che hanno via via minato la mia autostima, facendomi addirittura pensare, per due volte, di porre fine alla mia esistenza».
Con grande coraggio e determinazione tu e la tua ex collega Nina Corradini avete denunciato quanto subìto all’interno dell’Accademia. Come hai ribadito più volte, hai lungamente tenuto tutto nascosto ai tuoi genitori: per quale ragione?
«Le situazioni pesanti da gestire per me sono cominciate a fine 2017. Inizialmente ne parlavo con mia madre che, seppur apprensiva, è molto abile nel gestire le difficoltà. Fino a tutto il 2018, pur vivendo già un difficile contesto, non mi trascinavo negatività pregresse, essendo entrata in Accademia l’anno precedente. Temevo che i miei genitori parlassero con le allenatrici del mio disagio; inoltre non volevo farli preoccupare in quanto vivevano lontani da me. Per proteggere la mia famiglia, quindi, a mia madre non raccontavo tutta la verità: quando le parlavo, lasciavo trasparire soltanto la mia rabbia, non anche la mia depressione. Quest’ultima è arrivata in seguito; allora, venendo io da un contesto familiare sano, non si era ancora impossessata della mia mente. A Capodanno 2019, non volendo rientrare a Desio, i miei genitori mi avrebbero tenuta a casa pur di vedermi nuovamente felice: da un lato mi spronavano a non arrendermi, insegnandomi la vita; dall’altro comprendevano quello che facevo loro trasparire del mio disagio. La decisione di tornare e non lasciare l’Accademia è stata esclusivamente mia. Ripreso il mio posto in Nazionale, sono proseguite per me le umiliazioni, anzi nel 2019 sono decisamente peggiorate. Quando sentivo mia madre al telefono mi sfogavo con lei ma mai completamente. Nelle nostre chiacchierate non entravo mai nel dettaglio di ciò che accadeva, limitandomi a dirle che ero arrabbiata. Lei aveva la capacità di calmarmi e, a fine chiamata, mi sentivo rasserenata e pronta ad affrontare diversamente i problemi».
Diventando maggiorenne le cose sono cambiate?
«Ho compiuto diciotto anni a gennaio 2019: da quel giorno la decisione se restare a Desio o tornare a casa è diventata totalmente mia, anche sotto il profilo formale e giuridico. Proseguiva, per me, la determinazione a non far preoccupare i miei genitori. Pur mangiando pochissimo ed essendo piuttosto magra, il mio corpo non è mai cambiato drasticamente. All’epoca mi alimentavo nella maniera sbagliata: non potendo mangiare adeguatamente, considerando l’agonistica praticata quotidianamente, mi imbottivo di integratori. Io adoravo letteralmente gareggiare, pertanto durante le esibizioni sorridevo e fisicamente non parevo malnutrita. I miei genitori sapevano che stavo passando un momento difficile, nulla di più. Ho capito in séguito che i disturbi alimentari si annidano nella mente: e, non vedendosi riflessi sul mio corpo, riuscivo a nasconderli molto bene».
Entrare nelle Farfalle azzurre era la tua aspirazione fin da bambina. Essertene tirata fuori volontariamente è stato un grande atto di coraggio e di rispetto verso te stessa. Quando sei tornata nella tua Bologna come hai affrontato la tua nuova dimensione?
«Nei primi cinque giorni trascorsi a Bologna mi sono sentita la persona più felice al mondo. Era finita, per me, una vera e propria prigionia: non dovevo pensare più a niente, non avevo più l’incubo della bilancia, né restrizioni di cibo. Non mi ero però liberata dei disturbi alimentari, che i miei genitori hanno scoperto soltanto in quel momento. Passavo velocemente dalla gioia al pianto; mi arrabbiavo per qualunque cosa e non vedevo un futuro davanti a me. Non mi sentivo capace di fare nulla se non l’atleta delle Farfalle azzurre. Da un certo lato, era come se fossi appena venuta al mondo in una nuova vita, che però non mi sentivo capace di affrontare. Prima di lasciare l’Accademia, infatti, non avevo progettato un’esistenza diversa e questo fatto mi ha ulteriormente distrutta a livello psicologico. Ho così iniziato un percorso da un analista, impiegando più di un anno per convincermi che io e la mia vita non eravamo sbagliate. Posso affermare di aver trovato soltanto ora la mia giusta dimensione. Adesso guardo nuovamente il mio futuro con positività e con la consapevolezza delle opportunità che questa può offrirmi».
A metà 2019 tu e la tua squadra titolare vi siete arruolate nel Gruppo sportivo dell’Aeronautica militare, ricevendo i gradi di aviere scelto. Stai proseguendo la tua attività lavorativa nel corpo militare?
«No: l’ho interrotta a novembre 2021, appena mi sono resa conto che non era la mia strada. A séguito della mia uscita dall’Accademia avevo proseguito questa attività in quanto costituiva, per me, un lavoro che consisteva nell’esibizione sportiva della ginnastica ritmica».
Come si svolge ora la tua giornata tipo?
«Non esiste una giornata tipo nella mia vita odierna. Amo improvvisare per non annoiarmi: non posso pensare di fare sempre le stesse attività. Nell’arco della settimana organizzo e gestisco autonomamente i miei lavori, compreso quello di allenatrice, che mi è stato proposto. Sto anche frequentando il corso universitario on line di Sport e Management: mi piace perché coadiuva materie psicologiche con quelle inerenti alle scienze motorie ed economiche. Offre svariate opportunità lavorative, a livello sia di sport sia aziendale. All’interno di questo corso di studi è inserito anche l’insegnamento del giornalismo sportivo: mi piacerebbe proseguire in questo ambito ma lo deciderò una volta laureata. Inoltre ho svariati hobbies, che gestisco in base ai miei impegni: le partite di beach volley con il mio fidanzato la domenica sera, la danza contemporanea, il canto, le uscite con le amiche. Amo crearmi tante abitudini che, con il tempo, sono disposta a cambiare. In linea generale, riservo la continuità ai soli rapporti interpersonali».
Nonostante ciò che hai subìto, il tuo amore per lo sport non è diminuito e ora lo esprimi allenando le bambine. A quale aspetto attribuisci maggiore importanza nell’insegnamento della ginnastica ritmica che impartisci loro?
«Seguendo le fanciulle di età da nove a sedici anni, mi occupo della loro formazione agonistica. Ciascuna delle mie giovani allieve deve sentirsi felice durante l’allenamento in palestra: attribuisco infatti un grande peso all’umore di ciascuna. Mi piace spiegare, inventare insieme nuove strategie; pongo attenzione alla passione che ognuna mette nell’attività. Da un lato, esigo da loro il rispetto delle regole che la ginnastica ritmica richiede in termini di prestazione. Dall’altro, desidero che siano tutte coinvolte e serene nella stessa maniera: l’allenamento infatti non deve essere fine a se stesso. A fine lezione non lascio mai andare via una bimba senza essermi chiarita con lei in relazione a eventuali suoi errori tecnici. Le spiego cosa deve migliorare e le chiedo se ci sia qualcosa che la blocca; non voglio che vada via arrabbiata con me».
Fra queste bambine potrebbe essercene qualcuna che farà il tuo stesso percorso. Quali consigli ti senti di dare in vista di una carriera sportiva?
«Direi uno soltanto ma che considero fondamentale: ricordarsi sempre che lo sport deve far star bene. Nel momento in cui fa stare male se ne deve immediatamente comprendere il motivo, non sentendosi mai in difetto, né inadeguati al ruolo che si riveste. Ho imparato che la vita pone dei limiti ma anche che occorre coltivare sempre l’amore per lo sport e soprattutto per se stessi».
Dal 2016 al 2020 hai vinto innumerevoli medaglie. Qual è il segreto per non montarsi la testa e restare una ragazza “acqua e sapone” nonostante il successo raggiunto?
«Io sono rimasta sempre quella che ero prima di entrare in Nazionale: questa è la chiave. Quando si esce dalla palestra dopo un giorno di allenamento non si hanno in mano le medaglie vinte; non si viene valutati per aver partecipato alle Olimpiadi. Penso che, entrando in relazione con qualcuno, ci si affezioni alla persona che è e non ai trofei che ha vinto. Chi ho conosciuto dopo aver smesso di far parte delle Farfalle azzurre ha scoperto molto più tardi il mio trascorso da atleta in Nazionale. Io sono “Anna”, non “Anna la ex campionessa”: desidero essere giudicata per la persona che sono, non per i risultanti raggiunti».
Ultima domanda, ma non per importanza: se tu potessi tornare indietro, ci sarebbe qualcosa che non rifaresti o che cambieresti?
«Se mi dicessero “Ci riprendiamo indietro tutte le medaglie che hai vinto ma, in cambio, tu non soffrirai” non ci penserei due volte: restituirei immediatamente i miei trofei, uno dopo l’altro. Ma, per carattere, non rimugino mai con i “se”. Il passato è passato e non lo posso cambiare, né può scomparire. L’unica cosa che posso modificare è l’atteggiamento con cui lo affronto e lo porto nel mio futuro. Voglio convertire tutto il dolore che ho provato in questi anni in una forza: quella necessaria per far del bene agli altri, per fare in modo che le future atlete non si trovino nella situazione che ho vissuto io. Guardando il mio passato, rifarei senz’altro il percorso nella Pontevecchio. Non so se entrerei nuovamente in Nazionale: anzi, a pensarci bene, forse sì, in quanto è la sofferenza provata ad avermi permesso di aiutare il prossimo. Perciò farò di tutto per ricordarmi, negli anni, il dolore provato: desidero tenermelo addosso come una coperta. Il male a volte non si può evitare, ma occorre assolutamente imparare a conviverci».
Le immagini: Anna Basta, durante l’esibizione in gara con le Farfalle azzurre e oggi, per gentile concessione della stessa atleta; i cinque cerchi olimpici, a uso gratuito da pixabay.com.
Emanuela Susmel
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 204, dicembre 2022)