Qualche mese fa la rivista Intelligent Life, supplemento di The Economist, ha posto un interessante quesito che ha scatenato un curioso dibattito tra scienziati, professori, politici e giornalisti di tutto il mondo. Si trattava di stabilire l’anno più importante della storia: un modo per riflettere su cosa siamo, chi siamo, da dove veniamo e soprattutto dove andremo. Gli esperti consultati dalla rivista naturalmente non hanno raggiunto un accordo. E così sono volate date di tutti i tipi: il 44 a.C., per la morte di Giulio Cesare, il 1492, per la scoperta dell’America, il 1945, per la fine della Seconda guerra mondiale e del nazismo, il 1989, per la fine del comunismo, o l’anno zero, per la nascita di Gesù.
Anni importanti, fondamentali per la storia degli eventi e dell’umanità. Ma alla fine si sono espressi gli autori stessi del sondaggio e hanno concluso provocatoriamente (ma neanche tanto) che l’anno più importante della storia sarà il 2009: «Se a dicembre al summit di Copenaghen sul cambiamento climatico le potenze della Terra non si metteranno d’accordo, avremo sprecato l’ultima chance di salvare il pianeta e, dunque, noi stessi».
Cosa abbiamo fatto
«In un istante storico questo insignificante mammifero umano ha sottomesso le altre specie e sconvolto la natura». Giorgio Ruffolo, nel suo saggio Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi, collana Gli Struzzi, 2008, pp. 295, euro 16,00), è quasi romantico nel raccontare questo secolo-Titanic, tanto per citare il celebre disco di Francesco De Gregori, che nel “lontano” 1982 aveva lucidamente paragonato gli scorsi cento anni a una nave folle, forte, suicida.
Una nave guidata da un capitano, l’uomo del Ventesimo secolo, che lì, seduto sul cassero, a fumare la pipa, si gustava le prodezze della sua creatura. E nel frattempo, come ci racconta Ruffolo, consumava in poco tempo e una volta per tutte masse sterminate di combustibili fossili accumulati per miliardi di anni nel grembo della terra, foreste primigenie e oceani di plancton depositati nella forma di carbone e di petrolio. Seppelliva sotto tempeste di sabbia milioni di ettari di terre vergini distruggendone la fertilità e desertificando interi continenti. Asserviva pesci, uccelli e animali terrestri andando ben al di là della prescrizione biblica. Contaminava le falde acquifere introducendo inusitati veleni. Liberava masse enormi di metano dalle deiezioni di gigantesche concentrazioni di allevamenti. Distruggeva buona parte del miliardo e mezzo di ettari di foreste tropicali. Diffondeva nel terreno, nell’acqua e nell’aria dieci milioni di composti chimici inquinanti. Provocava la strage delle altre specie vegetali e animali, determinando una contrazione drammatica della biodiversità, passando, in pochi decenni da un ritmo di estinzione di una specie ogni quattro anni a circa mille estinzioni all’anno.
Tutto in questo secolo, in quest’istante storico, «in questa notte elettrica e veloce, / in questa croce di Novecento, / il futuro è una palla di cannone accesa / e noi lo stiamo quasi raggiungendo» (Francesco De Gregori, I muscoli del capitano, da Titanic, 1982).
A cosa andiamo incontro
Ma, nonostante tutto, c’è qualcosa di peggio, qualcosa di più grave, di più urgente, qualcosa per cui vale la pena riunire tutti i capi di governo del mondo e prendere delle decisioni impellenti e coraggiose: i cambiamenti climatici.
E sì, perché il precedente elenco di immani e, forse, irreversibili disastri è davvero poco in confronto al progressivo innalzamento della temperatura che viviamo e a cui andiamo incontro: si parla di un innalzamento medio globale di 5,5-7,1 gradi centigradi entro il 2100. Sei gradi, dunque: sembra quasi una sciocchezza di fronte alle escursioni di 10-15 gradi a cui siamo abituati nei mesi di aprile o di settembre-ottobre. Ma, in realtà, sei gradi sono tanti, troppi, e hanno conseguenze che vanno oltre le nostre sensazioni corporee.
Per esempio: un quinto delle specie animali a rischio estinzione, 1-2 miliardi di persone senz’acqua, lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya e dell’intera Groenlandia, e, alla fine del secolo, l’Amazzonia, che ospita metà della biodiversità del pianeta, tramutata in un’arida savana.
E se questo non dovesse bastare, National Geographic Channel ha presentato una mappa dei diversi scenari possibili nei prossimi cento anni per ogni grado di aumento della temperatura globale. + 1 grado: niente più grano sul mercato mondiale; + 2 gradi: distruzione delle barriere coralline; + 3 gradi: continui cicli di siccità e tempeste di sabbia fino all’Europa centrale; + 4 gradi: scomparsa di Venezia, New York e di tutte le grandi città costiere; il Nord del Canada diventerebbe la zona più fertile del pianeta; + 5 gradi: al posto delle fasce temperate dei due emisferi si creerebbero due enormi zone inabitabili; + 6 gradi: il pianeta ritornerebbe alle condizioni ambientali del periodo del Cretaceo.
A chi ci affidiamo?
Dunque Copenaghen, 17 anni dopo Rio e 12 anni dopo Kyoto. Tra il 7 e il 9 dicembre 2009 l’ennesima, secondo molti l’ultima, possibilità di cambiare qualcosa. Il tavolo danese è diviso in due: da una parte abbiamo il green Obama, che intanto non ha ancora ratificato il rientro degli Stati Uniti nel protocollo di Kyoto, dopo il clamoroso ritiro nel 2001 con l’avvento di Bush. Insieme a lui una serie di governatori apparentemente predisposti a prendere posizioni intransigenti: l’inglese Brown, il neoeletto premier democratico del Giappone Yukio Hatoyama e pochi altri.
Dalla parte opposta il nutrito gruppo di paesi in via di sviluppo (Cina, India, Brasile, Indonesia) che rivendicano la possibilità di adeguarsi al mondo occidentale e di raggiungere quel benessere che noi abbiamo prepotentemente raggiunto negli anni Sessanta. A questi vanno uniti i vari Berlusconi, Putin e Sarkozy che, usando un eufemismo, sono poco sensibili alle tematiche ambientali.
Si tratterà solo di scegliere. Tra il denaro e la vita, tra il presente e il futuro, tra la guerra e la pace, tra la collaborazione e la sopraffazione, tra un nuovo patto, un altro Kyoto, con degli impegni seri, vincolanti, responsabili e un nuovo rinvio, lasciando alla sensibilità e alla buona volontà dei singoli paesi l’arduo compito di proteggerci da un infausto futuro. E di sensibilità e volontà, come abbiamo visto, in giro ce n’è poca! Soprattutto dalle nostre parti…
Quale speranza
Le attese, dunque, si trasformano in un’unica, tenue speranza. Debole, ma viva. La speranza che la storia ci abbia insegnato a non guardare ciecamente e ossessivamente solo al presente, ma a volgere sempre uno sguardo al futuro, consapevoli che ogni traguardo raggiunto, ogni vetta conquistata, perde immediatamente di significato e di importanza se non possiamo garantirla anche a chi viene dopo di noi.
Una speranza che, tuttavia, deve essere preceduta e accompagnata da una presa di consapevolezza, da parte di tutti, che il nostro stile di vita non è evidentemente accettabile e sostenibile e che qualche rinuncia è indispensabile.
Ma questo sarà possibile solo quando ci renderemo conto che il Titanic non è inaffondabile e che il mare che abbiamo davanti è impervio e insidioso, e che di fronte alla montagna di ghiaccio bisognerà agire più responsabilmente e umilmente di quel fanatico capitano che cantava De Gregori: «Giovanotto, io non vedo niente. / C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. / Andiamo avanti tranquillamente».
L’immagine: ghiacciaio Perito Moreno in Argentina. Foto gentilmente concessa da Massimo Musetti (maxim970@tiscali.it) e inserita in Cile e Bolivia. Diario di viaggio gennaio 2003 (copyright 2003).
Simone Jacca
(LM MAGAZINE n. 9, 15 ottobre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 46, ottobre 2009)