Preziose annotazioni sul racconto “Il pellegrinaggio ad Atar’sh”, tratto dal recente libro di Rino Tripodi
Di Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi tra Kafka e Cioran (pp. 104, € 10,00; anche in versione ebook, presso Amazon, a soli € 1,70) di Rino Tripodi – seconda uscita della collana di letteratura Nerissima delle nostre edizioni – la critica letteraria Rosa Maria Suriano ha scelto di “leggere” criticamente il racconto che apre la pubblicazione, Il pellegrinaggio ad Atar’sh. Il risultato è costituito dall’illuminante esegesi che pubblichiamo di seguito.
Una scrittura contenuta, uno stile piano che non conosce strappi, oscillazioni, ridondanze. Quando il narratore giunge al culmine dell’edificazione del quadretto surreale, nella cui cornice si muove lo straniero senza speranza di cittadinanza, il gomitolo del filo narrativo s’interrompe.
Lo “straniero” è abbandonato alle coordinate indefinite della sua origine e della sua fine, al non-sense e all’unico senso del silenzio. Innamorato di Dio, quest’uomo, nel vuoto immenso della sua assenza ingombrante, si disorienta, è perduto, naufrago senza meta, senza senso.
È lì per giungere a percepire l’immanenza nell’essere e con essa la sua salvezza, l’ancora di senso per sé e l’esistente, ma si consuma nel viaggio e giunto alla porta sul confine non ha più energia.
I pellegrini “invasi” dal desiderio del mistero divino abbandonano la città dell’uomo con le sue strade ordinate, i giardini curati, i ritmi familiari e sociali regolari. Percorrono sentieri devastati dalla fame e dalle miserie umane (ignoranza, sporcizia, violenza). Procedono senza fermarsi, senza sentirsi trascinati a intervenire, a mutarne il volto, a trasferire parte della propria superiorità – civile? etica? estetica? -, mentre qua e là sono attaccati e colpiti da quella violenza “estranea”.
Il gruppo dei pellegrini si trova internamente lacerato anche dalle debolezze, piccole miserie, consuete compagne di ciascuno. La coesione appare superficiale, estremamente tenue nel ritrovamento conclusivo di fronte alla soglia del buco nero.
Ci troviamo davanti a due paradigmi, entrambi simbolici. Il primo si connota nella figura dello “straniero” che si rivolta senza pace nelle sue ignote coordinate e aspira a raggiungere la propria identità nella relazione con un Dio trascendente e distaccato, muto o indecifrabile. Caduto il filo della comunicazione con Dio, a quella corda resta abbindolato, inutilmente, fino a essiccarsi, fino alla sterile consunzione, quando la consapevolezza della sua condizione non si traduce in denuncia, grido d’un amore perduto o tradito.
Il secondo consiste nella figura del “pellegrino”, eroicamente capace di ritornare allo stadio precario originario e terminale dell’esistenza, avvolto nell’ignoto. Questo lascia una “patria”, abbandona “radici”, umane architetture ordinatrici del caos e del mistero del mondo, cornice esistenziale “ristrutturata” solo superficialmente, evidentemente, anch’essa fondata sul principio trascendente cui si finalizza ogni ordine, ogni equilibrio.
Nel suo bisogno d’incontrare l’arcano, mette alla prova la fede e cade ogni impalcatura prima innalzata, esaurisce nello stesso tempo vanamente il tempo dell’esistenza. Il rimando alla condizione dell’uomo davanti alla porta nel racconto di Kafka Davanti alla legge è immediato.
Lo scacco è dietro l’angolo, davanti ai passi dello straniero e del pellegrino. Il buco nero, il nulla, l’annullamento della coscienza, dell’azione, è la prospettiva prima e dopo l’esistente.
Se suonano vuoti i passi dello straniero e del pellegrino, come i giorni della loro esistenza, se ciò che lasciano è la voce silente, l’urlo-rivelazione, di fronte al baratro assurdo, forse, il verso da percorrere è un altro. Forse, il nostro Dio, come, nella mitologia mesopotamica, Tiamat, è esploso in un’infinita cascata di gocce divine che ha invaso ogni cosa. Forse, un valore più alto dobbiamo assegnare a quel soffio divino che si trova in ciascuno.
Forse, il divino si può cercarlo vicino in quell’“ama il prossimo tuo come te stesso”. Che sia all’origine un’infinita bontà o che questa sia successivamente limitata, non può essere elemento di passività per l’uomo, immobile in un atteggiamento di rifiuto quasi infantile.
Dai passi dello straniero e del pellegrino il cammino dell’uomo verso l’assunzione della responsabilità della propria vita potrebbe riprendere, emergendo dall’assurdo, sulla traccia del pensiero leopardiano che dal pessimismo storico perviene, alla fine, al riscatto della condizione umana nel cosiddetto pessimismo etico o titanismo solidaristico:
«Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune».
(Giacomo Leopardi, da La Ginestra)
E, ancora:
«E gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro dell’Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi».
(Sant’Agostino, da Confessioni, in Ascesa al Monte Ventoso di Francesco Petrarca).
L’immagine: la copertina di Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi tra Kafka e Cioran di Rino Tripodi (inEdition editrice/Collane di LucidaMente), libro da cui è tratto il racconto d’apertura analizzato dalla Suriano.
Rosa Maria Suriano
(LucidaMente, anno III, n. 32, agosto 2008)