Una narrazione struggente e umanissima, che ci porta in giro per l’Europa centro-orientale
Abbiamo atteso che passasse un po’ di tempo dalle solite, sterili polemiche del 25 Aprile (c’è chi ancora va in piazza a fischiare e insultare), prima di pubblicare il seguente bel racconto-diario di un viaggio. L’autore è Roberto Aldrovandi di Budrio (Bologna), che ci narra una vicenda singolare, commovente, magica, dalla quale traspaiono soprattutto affetti domestici e calda umanità, al di là dei rancori legati alle tragiche, per non dire orribili, vicende storiche.
Da giovane mia nonna Medea doveva essere stata una bella donna. Alta, occhi azzurri, lineamenti fini con zigomi pronunciati… me la ricordo sempre col sorriso sulle labbra. Ha vissuto 92 anni. Mio nonno, Leone, era più basso di lei, con due baffetti alla Adolf. Cavaliere di Vittorio Veneto, nella sua vita aveva letto un solo libro, che però recitava a memoria: I promessi sposi.
Dicevano che, prima della vecchiaia, fosse stato un marito e padre terribile, di quella severità indotta dalla miseria, nelle famiglie numerose e povere. Da vecchio, si era rabbonito. Mi raccontava tante storie e fiabe. Mi insegnò l’amore per gli animali: da piccolo, al pomeriggio, andavo a dormire appoggiato al grande ventre della mia mucca preferita, che chiamavo P’rina (Perina) perché le portavo, di nascosto, qualche pera da mangiare che lei gradiva molto. I miei genitori avevano paura, temevano che lei, alzandosi, mi potesse calpestare; ma, finché non mi alzavo io, lei rimaneva sdraiata.Per tutta la vita i miei nonni soffrirono la perdita di un figlio in guerra. Nonna Medea parlava sempre, con gli occhi umidi, del pòvàr Quartéin (il povero Quartino) come se, degli altri cinque figli, due maschi e tre femmine rimasti, non le importasse più di tanto. Mi raccontava di lui, di come fosse stato meno fortunato dei fratelli, del suo fisico gracile e malaticcio… Spesso le mamme concentrano le loro attenzioni sui figli più deboli. Mi raccontava dei suoi sospetti sul fatto che lui, nonostante la malattia, fosse partito per il fronte, in Grecia, forse al posto di qualche riccone che aveva “pagato per stare a casa”. Dopo l’armistizio, fu fatto prigioniero dei nazisti e morì nel campo di lavoro di Lobositz-Lovosice, vicino al Lager di Terezín (ma questo l’ho scoperto poi…).
Quando, dopo aver preso l’autotreno nuovo, cominciai a viaggiare per tutti i paesi dell’Est (cosa che prima non potevo fare, con l’autoarticolato), cominciai a pensare che, forse, sarei potuto passare vicino a dov’era sepolto… Ma non fu cosa semplice come potrebbe essere oggi: non c’era internet e non c’erano i navigatori satellitari. Programmavo ogni viaggio in anticipo, studiandomelo sulle carte e scrivendo un brogliaccio con i punti strategici da attraversare, proprio come oggi ti propone il sito “ViaMichelin”, calcolando le distanze e i tempi come un capitano di vascello. Ancora oggi, se dovessimo partire per le stesse destinazioni, saprei già dire, fin dal mattino, dove ci fermeremmo a pranzo, e dove a dormire.L’occasione “vincente” la fornì un cliente libanese: caricavamo in Germania Est, quella “comunista”, bestiame da macello, che poi, attraversando Cecoslovacchia, Ungheria e Slovenia, portavamo al porto di Arsia-Raša, in Croazia (dove gli animali venivano trasbordati sulla nave per il Libano). Così, appreso un “minimo” di lingua tedesca, cominciai a chiedere, in ogni dove, della città di Lobositz; ma nessuno ne aveva mai sentito parlare…
Il destino mi fece comprare una carta stradale bilingue (tedesco/ceco): lì trovai Lobositz, che, dopo la guerra, era diventato territorio cecoslovacco, cambiando il nome in Lovosice. C’ero passato, senza saperlo, almeno dieci volte! Però il lavoro del Libano era concluso. Dovevo pazientare un po’. Mi occorreva una destinazione compatibile con quel tragitto e la possibilità di partire con almeno un giorno di anticipo. Finalmente arriva l’occasione. Parto spronato ormai dal sacro fuoco della ricerca e dalla vicinanza che sento, con il mio obiettivo. Giunto in zona Praga, imbocco al contrario la strada tante volte, inconsapevolmente percorsa. Pochi chilometri prima di Lovosice, sulla mia destra, c’é il grande cimitero del Lager di Terezín. Sono le 9 o le 10 del mattino, comincio ad aggirarmi come un cane sperduto in mezzo alle croci, cercando di ricostruire un filo logico che mi permetta di rintracciare lo zio. Verso le 13, avvilito e deluso, sospendo per un frugale pasto a bordo del camion.Quando torno nel cimitero, per riprendere la mia vana ricerca… l’incontro!
Un distinto signore, incuriosito dal mio enorme autotreno parcheggiato, nonché dall’errabondo proprietario, si avvicina, poi mi chiede, prima in ceco e poi in tedesco, cosa mai stessi cercando. È una delle tante occasioni in cui mi rendo conto che i miei sforzi di imparare le lingue non sono stati inutili: un po’ nella sua lingua, un po’ in tedesco, gli spiego cosa sto cercando. Lui scuote la testa, dice che lì, a Terezín, i morti sono quasi tutti ebrei, o zingari boemi. Mi suggerisce di cercare nel cimitero civile di Lovosice, mi spiega la strada e cosa troverò nel cartello che indica il cimitero: Hřbitov. Riparto con un presentimento nel cuore che, man mano mi avvicino, diventa quasi emozione.Finalmente arrivo al cimitero, entro e, in fondo, vedo una specie di ufficio. La custode, un donnone di mezza età, alta una buona spanna più di me, che sembra una “cattiva” della Spectre nei film di James Bond, mi attende, incuriosita dall’arrivo di quel fiammante autotreno che, in quel Paese percorso da claudicanti e vecchi rottami arrugginiti, faceva uscire la gente dalle case, quando attraversavo paesini sperduti.
Parla solo il ceco ma, forte anche dei vocaboli appresi qualche ora prima parlando con quel gentile signore, le spiego cosa sto cercando. Lei annuisce e mi dice di seguirla. Da un vecchio e polveroso archivio, tira fuori un librone che sembra uscito dai film di Indiana Jones, lo sfoglia e mi invita a guardare: “Quarto Aldrovandi, ital” più i numeri della posizione. Senza riuscire a trattenermi, scoppio in un pianto dirotto. Il donnone cerca di calmarmi, battendomi sulla spalla una manona che sembra un prosciutto e, quando finalmente riesco a contenermi, scusandomi, mi invita a seguirla e mi accompagna fino alla tomba dello zio, per poi, discretamente, andarsene.I cechi, pur sotto il giogo del comunismo, pur con le ristrettezze in cui vivevano in confronto a noi, mi hanno dato una lezione di civiltà: mio zio, straniero nonché “nemico”, morto oltre quarant’anni prima, era lì, sepolto insieme ad altri sei compagni di sventura, di diverse nazionalità, con la sua bella lapide con tanto di nome e data di morte, perfettamente curata, intorno. Da noi, forse, sarebbero tutti in un anonimo ossario.
Sono rimasto a lungo, in silenzio, pregando mentalmente per lo zio Quarto, che non avevo mai conosciuto, ma che avevo, finalmente, incontrato. Era arrivata l’ora della chiusura. Il donnone, quasi scusandosi, me l’é venuto a dire. Le ho regalato tutto ciò che potevo, raccomandandomi di tenere la tomba come l’avevo trovata. Poi, esausto, ma con uno strano senso di pace nel cuore, mi sono addormentato in cuccetta. Credo di aver sognato, quella notte, l’immagine incerta di un viso maschile, che mi sorrideva da molto, molto lontano.Al rientro da quel viaggio, quante ne avevo da raccontare a papà e agli zii… Avevo anche scattato qualche foto, con una macchinina che portavo sempre con me, da usare in caso di incidenti. Quanto mi sarebbe piaciuto poterle mostrare a nonna Medea, ma lei era andata avanti tanti anni prima.
Il commento di mio padre fu: “Ah, cioè, ma noi l’abbiamo sempre saputo, che era sepolto a Lobositz…”. I commenti degli zii furono di gratitudine e ammirazione: avevo fatto loro un grande regalo! Purtroppo, i miei tentativi di rimpatriare la salma, pur con il supporto di un caro amico d’infanzia (che, sebbene sia mio coetaneo, è iscritto all’associazione partigiana dell’Anpi) e, nonostante la mia caparbietà, era impresa impossibile: sarebbe occorso rintracciare in tanti Paesi lontani i parenti degli altri sei sepolti insieme allo zio, per avere il consenso all’esumazione!Ma, in fondo, che importa il luogo dove riposano spoglie mortali? L’importante è rimanere nel ricordo dei nostri cari.
Tanti anni dopo, il mio complicato genitore, un giorno, distrattamente mi fa: “Ho parlato anche con i tuoi cugini, mi piacerebbe andare dalla tomba di mio fratello”. Nella disapprovazione di mia moglie, che è sempre stata un po’ gelosa del poco tempo che dedicavo ai miei parenti, e di mio suocero, che vedeva partire per qualche giorno le possenti braccia che era riuscito, finalmente, a trascinare nell’azienda di famiglia, organizzo, a Pasqua 2006, la “spedizione a Lovosice”. Erano sei anni che non facevo più “giringiro”…Partiamo alle sei del mattino, con la mia fida Volvo, io, mio padre, i cugini Sergio e Quarto (eh, sì, zia lo aveva ripreso, quel nome). Itinerario programmato: Brennero, sosta pranzo a Kiefersfelden (la vecchia dogana di quando andavo in Germania), poi Plzeň (o Pilsen) e pernottamento a Praga.
Puntuale come un orologio, alle 12,20 arrivo a Kiefersfelden: la dogana, quella dogana che transitavamo sperando di non essere controllati dalla severissima B&G (Bunden und Grenze Polizei, o una roba del genere), capace anche di controllare se il camion avesse freni e ammortizzatori a posto, quella dogana non c’era più, e a questo ero preparato; ma non c’era più nemmeno il ristorantino in legno dove noi camionisti ci fermavamo a divorare un mitico gulash. Al suo posto, uno squallido discount della Lidl! Mi avvicino a un paio di camionisti, che stanno mangiando dal cassettone del rimorchio (dentro il cassettone c’è una minicucina da campo, con tanto di frigorifero, si tirano fuori sedie e tavolino, e si fa “picnic”) e, riesumando il mio tedesco di allora, mi faccio indicare dov’è una Gasthaus.La sera, alle 20, arriviamo a Praga, dove, in prossimità della statale per Dresda, che dovremo fare l’indomani, prendiamo le stanze in un piacevole albergo con tanto di garage sotterraneo. Ci cambiamo e usciamo a cercare un ristorantino che ci aveva indicato il portiere, perché la sera presso l’hotel non c’era cucina. Ottima grigliata di carne, che però lascia un po’ perplessi i miei compagni di viaggio, fossilizzati sulla cucina di casa. Se non fosse che sono sposato, troverei anche compagnia: due ragazze del posto, al tavolo di fronte, mi “puntano” decisamente… Beh, almeno due chiacchiere con loro, potrò concedermele? Mio padre, con un sorriso compiaciuto, mi rimprovera: “Occhio, che lo dico a Elena…”.
Il mattino, dopo un’abbondante colazione, partiamo. Ci restano da percorrere ancora un’ottantina di chilometri. Ecco il Lager di Terezín. Propongo: “Al ritorno, se volete, ci fermiamo anche qui”. Ed ecco Lovosice: la strada è stata modificata, ma non ho difficoltà a farmi indicare, da un benzinaio, dove sta lo hrbitov. Anche il cimitero è cambiato, lo hanno ingrandito notevolmente… Oddio, non avranno…. No, entriamo nella parte vecchia e, facendomi guidare dall’istinto, in un attimo sono – siamo – davanti alla tomba. Stavolta, per me, l’impatto non è così devastante, ma per chi è alla sua “prima volta” sì.Vedendo gli altri che non riescono a trattenere le lacrime, mi commuovo nuovamente anch’io. Mio cugino Quarto, di qualche anno più vecchio di me, esclama: “Hai fatto una bella cosa, guarda tuo padre, come si è emozionato… grazie, anche da parte sua”.
Mi avvicino al granitico genitore che, imbarazzato, si asciuga gli occhi. Vorrei abbracciarlo ma, fra di noi, queste cose non usano. Però lui dice: “Cioè, non avrei mai pensato che mi facesse questo effetto, venire qui…” Ha sempre abbondato in “cioè”, quando fa discorsi seri, in italiano. Andiamo in cerca di un fioraio, ma è domenica, sono tutti chiusi. Una donna che abita vicino al cimitero mi spiega (è incredibile come riusciamo a ripescare le conoscenze, dalle stanze della memoria) che lì vicino c’è un vivaista. Ci andiamo, compriamo i fiori e, con un ultimo, silenzioso raccoglimento, ci accommiatiamo dal nostro consanguineo, e dai suoi compagni di riposo. Dopo aver pranzato in un ristorantino di Lovosice – dove, finalmente, riesco a ordinare pietanze che piacciono anche agli altri commensali – raggiungiamo Terezín.Il parcheggio, che la mattina era vuoto, ora è abbastanza affollato, qualche pullman e anche auto con targhe straniere. Fatto un breve giro nel negozietto di souvenir, dove compro un po’ di bigiotteria boema per i miei, entriamo a visitare il lager.
Una ragazza, una specie di guida turistica, si propone di accompagnarci, ma io, dopo aver studiato la planimetria, le rispondo che preferiamo girare da soli. Inoltre un cartello in quattro lingue reca un breve resoconto della storia di quel luogo, un’antica fortezza che, nei secoli, più o meno era sempre stata usata dagli uomini per rinchiudere e brutalizzare altri uomini. I muri sembrano impregnati di tutte le sofferenze di cui sono stati muti testimoni. Quando si visita un luogo simile l’angoscia prende sempre più, la fantasia partorisce il film delle atrocità che nostri simili hanno dovuto subire. È un’esperienza atroce, visitare un lager. È quasi sera, chiedo agli altri se sono stanchi, perché vorrei fare un po’ di strada verso la Germania, prima di fermarci ancora, per la notte.In tutto il viaggio, avrò ceduto il volante a Quarto per non più di un paio d’ore. Lui mi guarda come fossi un marziano chiedendomi se ero un mangiachilometri così anche quando giravo col camion.
In tre orette, sotto una pioggia battente, arrivo quasi a Monaco di Baviera. Esco dall’autobahn e, lo ammetto, grazie ad un colpo di fortuna, una serie di segnali mi conduce a un microscopico paesino bavarese, dove trovo un Gasthof mit Zimmer (osteria con cucina e camere). Le camere sono libere, e decidiamo di fermarci lì. Dall’altra parte della strada, c’è una stalla di mucche. Ottima cucina, l’unica rottura di palle è il gruppo di ”locali” che parla ad alta voce e, ahimè, fuma! Ho sempre odiato mangiare con qualcuno che mi fuma vicino. La mattina lascio dormire i miei compagni di viaggio, sentendomi un po’ in colpa per il ritmo incalzante che ho imposto ai due ultrasettantenni, ma, d’altra parte, anche loro volevano farcela in tre giorni.Dopo un’abbondante colazione (adoro le colazioni continentali, con le uova al bacon, il formaggio, il succo d’arancia, e quei “secchi” di caffè lungo che di solito gli italiani guardano con perplessità) e dopo aver dato un’occhiata alla stalla insieme a Sergio, partiamo. Ma, prima del rientro, decidiamo di visitare Monaco.
Quasi senza accorgercene, ci ritroviamo, con l’auto, in pieno centro, trovando anche subito da parcheggiare. Altra cosa stupefacente: non ci sono vucumprà, punkabbestia, tossici… Sembra di stare nella piazzetta virtuale di un outlet aperto da poco. Curiose “sculture” di cartapesta, raffiguranti animali domestici e selvatici, poste lungo la strada, per pubblicizzare la fiera in corso in quel periodo. Entriamo in un caffè, per una piccola sosta: il proprietario è un italiano… il mondo è veramente piccolo, e rotondo. È ora di rientrare a casa. Partiamo lancia in resta, e, dopo un frugale pasto in autogrill a Bolzano a pomeriggio inoltrato, arriviamo, a tarda sera, a casa. Abbiamo fatto 2.200 km in tre giorni. Per me è abbastanza normale, ma Sergio (che non si era mai mosso da casa) a riprendersi ci ha messo poi otto giorni. Un pomeriggio mio suocero mi racconta la storia di quando, durante la guerra, suo fratello più grande fu preso dai tedeschi, durante un rastrellamento, e lui, coraggioso ragazzino tredicenne, sfidando il coprifuoco e chissà cos’altro, riuscì a rintracciare dove l’avessero portato, salvandolo, forse, da una fine simile a quella di mio zio.Una storia commovente per entrambi: almeno lui aveva capito il senso e il valore del mio viaggio a Lovosice.
Roberto Aldrovandi
Le immagini che corredano la narrazione sono dello stesso autore.
(LucidaMente, anno XI, n. 127, giugno 2016, editing e formattazione del testo a cura di Gabriele Bonfiglioli)