In questo processo ideologico-linguistico la Chiesa ebbe un ruolo molto pesante e ciononostante, proprio in base alle indicazioni che trapelano dalle proibizioni o dalle ridicolizzazioni messe insieme dai ministri del culto e dai pensatori cristiani contro i pagani, si riesce a raccogliere qualche elemento su cui investigare… purché si respinga la voglia di far rivivere i riti e gli dèi pagani in vesti romantiche e in contesti assolutamente non storici!La religione come sistema mitologico
Sarebbe pure il momento di farsi un’idea di che cosa sia una religione, ma qui non è la sede per discuterne a fondo (si è scritto tantissimo e si è dibattuto altrettanto) e noi semplificheremo dicendo che, dal punto di vista scientifico, una religione non è altro che un sistema mitologico che tenta di offrire (ognuna meglio di altre) spiegazioni “scientifiche” sul significato del nostro essere vivi nel mondo e di come possiamo rapportarci con l’eventuale creatore. Nel passato furono introdotti dagli etnografi europei molti termini ambigui allo scopo di distinguere le religioni dominanti, sedicenti portatrici di verità e di etiche universali, dalle altre sparse nel mondo coloniale.
Di conseguenza un termine come animismo (secondo cui ogni oggetto ha una natura viva e divina) ascritto più spesso al paganesimo nordico e alla sua mitologia ha avuto una sua ragion d’essere esclusivamente nel porre quelle credenze su un gradino più basso per svalutarle sul ricco mercato delle idee. Anche il termine politeismo non ha niente di degradante per una religione diversa dal cristianesimo perché, se guardiamo meglio nelle cose, il monoteismo cristiano è molto ambiguo…
Oggi perciò queste distinzioni artificiali e capziose non hanno più valore e, a ben riflettere, non è forse il cristianesimo spontaneamente ad ammettere l’esistenza degli dèi pagani definendoli demoni o emanazioni del diavolo, esortando chiunque a disprezzarne la venerazione (riti satanici) perché diretta a un essere, pur divino, di rango inferiore (un angelo ribelle) al Dio creatore cristiano? E infine perché una mitologia, per il fatto d’esser pagana, deve essere ostracizzata come “superstizione” (parola che, seppur carica di significati negativi in quasi tutte le lingue europee, significava pratica religiosa esistente al di là dei riti ammessi dallo stato imperiale romano) e un’altra mitologia, in quanto cristiana, deve essere considerata “la religione superiore” a tutte le altre?
L’affermazione del cristianesimo
Mito e mitologia sono parole derivate dal greco che indicano peraltro ora un racconto orale ora una loro raccolta organica. Attenzione, però!
Mentre il paganesimo greco-romano e la sua mitologia erano tenuti in ottima stima dal pensiero cristiano, almeno quali predecessori del “sapere medievale teologico” (la Santa Sofia), per i popoli nordici su questo argomento tutto resta pressoché sconosciuto. Ammettere l’esistenza presso queste genti di una loro propria mitologia di tipo classico in quel periodo storico era impossibile, giacché si sarebbe attribuita loro una civiltà alla quale non avevano ancora diritto. Forse il cristianesimo che era nato e stava fiorendo a spese della civiltà greco-romana, radicata e antica con la sua religione di Stato pagana a fondamento del potere (Giulio Cesare, ad esempio, assunse il ruolo sacrale altissimo di pontifex maximus nel 63 a.C.!), temeva un’analoga evoluzione nel Nord Europa.
Di fatto i romani avevano una mitologia ufficiale ben elaborata in un corpus letterario importante e sistematizzato da secoli che aveva dato lustro e importanza politica al latino come lingua che la stessa Chiesa ha adottato da ormai 2000 anni. Il pantheon pre-cristiano, per di più, si arricchiva di nuovi dèi ogni qualvolta l’Impero conquistava una regione nuova col suo popolo e, seppur raramente, i romani qualche peculiarità delle religioni dei loro sudditi e degli dèi rispettivi la annotavano, per poterle poi sistemare negli schemi ufficiali. Ad esempio, Plinio il Vecchio o Tacito scrivono delle credenze germano-baltiche…
La Chiesa, intanto in ascesa all’interno del potere dell’Impero, impose prima d’ogni altra cosa che si lasciasse lo spazio più rilevante al dio maggiore di tutti, quello cristiano, e in più, giacché i confini dell’Impero per molti anni ancora rimasero il Vallo di Adriano in Britannia e il bacino del Reno e il Danubio in Germania, fece sì che delle mitologie dei popoli slavi e baltici (o delle steppe) si continuasse a parlare sempre meno.
Il confronto fra due religioni
Comunque sia, gli scontri fra i centri di propaganda cristiani e i focolai pagani furono frequentissimi, sebbene gli osservatori contemporanei li considerassero episodi di secondo ordine.
Per quanto ci riguarda potremmo già partire da Gregorio Magno che nel VII sec. d.C. fu uno dei primi ad avere notizie di prima mano sugli Slavi in movimento migratorio verso il Sud, in una corrispondenza con Massimo, vescovo di Tessalonica (Salonicco). Il papa tentò di circoscrivere l’ostilità contro i pagani raccomandando, tra l’altro, non tanto di combattere gli usi e i costumi o di distruggere i luoghi di culto eventuali ed eliminarli con la forza (malgrado tutto, le armi comunque non furono mai bandite), quanto invece di integrarli nella morale cristiana, assimilando possibilmente le loro feste e i loro riti alla protezione dei santi venerati dalla Chiesa (a volte inventandone di nuovi all’uopo). Se si tiene conto che il cristianesimo era una “religione cittadina” e che in quel tempo era all’acme del successo, la soluzione suggerita allora era la migliore per prevalere.
Quattro secoli dopo il cristianesimo appare invece in regresso mentre i pagani non sono assolutamente scomparsi. Anzi! Lustrati dalla benedizione con acqua santa cristiana, perseverano imperterriti nelle loro religioni e nei loro riti, talvolta nella clandestinità o (specie in ambito slavo) nella cosiddetta doppia-fede. Nuovi espedienti furono perciò implementati da Roma (e da Costantinopoli) per aggirare il problema delle conversioni troppo forzate e per smorzare in qualche modo l’odio reciproco crescente, visto che la nuova fede comportava sempre l’assoggettamento ai poteri secolari sponsorizzati dalla stessa Chiesa. Le manovre cristiane, al di là della spiritualità che non interessa toccare qui, in realtà più che una lotta per l’affermazione di una spiritualità religiosa erano di natura prettamente economica: un piano di investimenti a lungo termine per l’ampliamento del consenso popolare alla raccolta di prebende e alle imposizioni delle corvées!
Per di più, mentre allora la mitologia cristiana aveva il sapore di novità straniera (la sua origine mediorientale), oggi quella pagana nordica per noi è più interessante, poiché appare essere molto antica ossia una rielaborazione di materiale addirittura attinto dal fondo preistorico e prezioso comune indoeuropeo! La nostra idea è, dunque, che eventuali raffronti della mitologia classica con quanto è “spremibile” dalle cancellazioni effettuate dalla Chiesa dovrebbero poterci servire a una ricostruzione accettabile del paganesimo slavo-russo, sebbene con una cronologia molto incerta.
L’origine della famiglia
Torniamo quindi al mito. Un racconto orale? Sì, ma non basta! I miti in sé fanno parte della vita umana (e perché dovrebbe essere altrimenti?) e capire a che (e se) servono è molto importante.
Immaginando un viaggio a ritroso nel tempo e, tenendo pure conto di quanto sappiamo del mondo medievale slavo, iniziamo il nostro discorso dalla nascita, dal momento in cui un nuovo piccolo uomo entra nell’universo “terreno”, luogo sconosciuto e alle prime apparenze ostile e irto di pericoli. Qui, dove avviene il primo impatto fisico con oggetti e altri esseri viventi e dove vive l’unica vera e riconoscibile genitrice e fonte di vita e di cibo, probabilmente il nuovo venuto passerà il resto della vita. Sua madre, conoscendo già da lungo tempo (grazie all’età e all’esperienza) lo spazio in cui si muove, è in grado invece di districarsi fra gli ostacoli esistenti e, a parte il fatto di essersi dapprima assicurata che il neonato all’apparenza è sano e che vivrà, sente dentro di sé il compito assegnatole dalla natura (prima a lei e poi al padre o ai padri) di trasmettere le conoscenze da lei accumulate fino a quel momento, affinché il bimbo possa acquisire sufficienti gradi di libertà per continuare a vivere dove si trova.
La famiglia (il raggruppamento umano dominante nel Medioevo slavo formata da numerosi membri conviventi) è ormai da qualche secolo paternalistica e con la nascita se ne è parte per definizione. Tuttavia il neonato per diventarne membro rimarrà legato alla madre strettamente per un certo periodo di tempo di “tirocinio alla vita” prima dell’ingresso nel mondo degli adulti e, se dovesse morir prima, la colpa sarebbe certamente della sua genitrice.
Abbiamo parlato di comunità e del bisogno di farne parte, ma perché? A che serve un gruppo organizzato di più persone e perché esso è così importante per il nuovo piccolo uomo? Non abbiamo la competenza necessaria per una definizione scientifica in termini antropologici e culturali, né per discutere i principi generali con cui in etnografia si classificano le comunità umane esistenti e quindi lasciamo il lettore alla ricerca più specializzata su questo aspetto della questione. Quel che ci preme dire qui è che la necessità di uomini e donne adulti di stare insieme in modo stabile sorse moltissimi millenni fa. Probabilmente occorreva alla donna-madre per difendersi dagli assalti di animali predatori sui propri piccoli come pure serviva per dividersi meglio il lavoro di ricerca e di produzione del cibo (attività fondate e dirette dalla donna) con il maschio. Per la riproduzione della specie, inoltre, una comunità permetteva e agevolava che uomo e donna s’incontrassero e si accoppiassero senza difficoltà. Sottolineiamo queste necessità e notiamo che sono sempre connesse intimamente fra di loro, se si pensa che per la riproduzione occorre non solo essere giunti all’età giusta, ma essere in buone condizioni fisiche e psicologiche (cioè sazi e contenti) e avere un luogo protetto dove compierla.
E qui s’inserisce anche la questione del territorio che una comunità occupa come “suo” spazio riservato e col quale è ben relazionata. Un vero e proprio nuovo universo!
La civiltà del parlare
Dalle esperienze e dalle osservazioni fatte finora sul campo dagli antropologi in quasi tutto il mondo nelle società cosiddette pre-moderne (ma anche moderne che noi di solito chiamiamo esotiche!) e in consonanza con l’ambiente, il primo passo da fare per accedere al mondo degli adulti è l’iniziazione, ossia il processo che il nuovo membro (di solito giovane) percorrerà con gli appropriati riti (altro termine da chiarire meglio).
Logicamente è da pensare che l’aspirante-membro abbia imparato a governare tutte le funzioni del proprio corpo (pubertà) prima di essere iniziato e quindi c’è da aspettarsi una verifica anche in quel senso. Si procede prima di tutto a incutere nel novizio il rispetto per l’autorità costituita, ovvero per le gerarchie d’età (e di sesso) esistenti nella comunità. L’obbedienza alle regole occorre inculcarla immediatamente, se si vuole rendere credibile la procedura di trasmissione della cultura tradizionale paternalistica. Inoltre l’iniziazione è accompagnata, per il tramite di persone vicine al novizio, dall’apprendimento di come si costruiscono e come si adoperano certi arnesi o, ad esempio, come lavorare il legno o spaccare le pietre o come seminare o come usare le armi e tante altre cose, giacché gli arnesi e le attività lavorative sono elementi tradizionali esclusivi (magici) di quella comunità e questo insegnamento fa parte dei riti iniziatici.
Non essendoci ancora l’uso dello scrivere, a questo stadio è inutile cercare dei “libri di testo” e la verbalità è il mezzo di comunicazione eletto, specialmente se le notizie da trasmettere si riferiscono a circostanze e a effetti non riproducibili nell’immediato, ma prevedibili invece nel futuro. L’istruzione perciò parte dalla parola, per cui la facoltà più importante richiesta al novizio per apprendere il mito (e per capirlo) è la dominanza della lingua parlata nella comunità.
E qui entriamo nel campo di quella che possiamo chiamare la civiltà del parlare, che sembra distinguere l’uomo dagli animali, ossia l’uso del linguaggio articolato per rapportarsi l’un con l’altro! Avete mai notato che all’udire persino un semplice suono, emesso o no da bocca umana, immediatamente nella mente (addirittura prima di saper parlare o comprendere una lingua) si generano degli “oggetti mentali”?
Noi li abbiamo riordinati in tre tipi: 1. sensazioni (paura, meraviglia, apprensione, allegria, soddisfazione etc.) o memorie olfattive o tattili; 2. immagini di oggetti a noi noti da esperienze passate (nel nostro archivio mentale personale) con le loro relazioni con altri oggetti e, infine, 3. immagini di persone o di figure che assomiglino a uomini (mostri o qualcosa di simile), composte dai tanti pezzi estratti dalle immagini mentali pre-archiviate. Proprio a causa dell’archivio mentale diverso fra le persone esiste il pericolo che l’immagine creata nella mente di chi ascolta sia diversa da quella trasmessa da chi parla per cui, onde evitare fraintendimenti, la lingua fornisce la possibilità di ricorrere a descrizioni gradualmente più dettagliate, all’aggiunta un po’ alla volta di particolari più intimi etc. etc., finché i due “oggetti mentali” (del parlante e dell’ascoltante) alla fine coincidono.
Chiaramente esiste un linguaggio mitico (aulico, poetico) e uno d’ogni giorno quasi contrapposti che però non devono far mai pensare che il mito sia favola o invenzione, a seconda del linguaggio usato. È anche vero che nel mito si ricorre a parole reboanti, si evocano personaggi straordinari, si parla di eroi ed eroine coinvolti in eventi straordinari e fantastici, ma si fa ciò perché serve mettere in risalto certi tratti dell’evento rispetto ad altri.
La funzione antropologica del mito
Vediamo un po’ più in concreto. Da un libro di fisica traiamo la seguente descrizione di un’esperienza abbastanza comune: «Definiamo un piano inclinato un piano che incontra un altro piano orizzontale di riferimento con una certa angolazione. Ogni volta che poniamo una sfera sulla parte più alta del piano inclinato, vedremo la sfera rotolare verso il basso. Di qui deduciamo che qualsiasi corpo posto su una superficie inclinata rispetto al piano orizzontale terrestre da una certa altezza tende a cadere sempre verso il basso per gravità».
Passiamo ora alla mitologia greca e leggiamo il mito di Sisifo: «Sisifo, figlio di Eolo e Enarete, era un re rinomato per i suoi atti fraudolenti, tanto che riuscì persino ad ingannare la Morte. Gli dèi lo punirono per l’orgoglio di voler diventare immortale come loro e lo condannarono nell’Ade ad un supplizio eterno. Con l’aiuto delle mani e dei piedi doveva portare in cime ad una montagna un masso facendolo rotolare. A breve distanza dalla cima, il masso però ogni volta gli sfuggiva e cadeva rotolando verso il basso, per cui Sisifo doveva ricominciare tutto daccapo».
Nei due testi è stata descritta la stessa esperienza e noi l’abbiamo letta una volta in “versione scientifica” e un’altra volta in “versione mitica”. È chiara la differenza?
Tuttavia non occorre dare tutto per scontato nel mito e Socrate, una grande autorità del passato, dice infatti nel Gorgia, raccontando a Callicle di come gli dèi si divisero il dominio sul mondo: «Ascolta un racconto molto bello, che tu considererai un mito, credo, e io invece un vero discorso». Il filosofo intende dire che il mito normalmente racconta un evento vero accaduto nel passato e, siccome forse non si ripeterà più uguale nel futuro o nel presente, va accettato, creduto e tramandato così com’è, facendo ricorso a una libera scelta personale. Non a caso il filosofo fu condannato a morte per la sua convinzione che l’intelletto umano fosse libero, ispirato dal daimonion, una forza divina autonoma che penetra nella mente e che dà la possibilità di parlare in modo diverso dal tradizionale. Un tal modo di far uso del mito già a quei tempi faceva paura, perché poteva cambiare la visione del mondo e distruggere la tradizione in un periodo (VI-V sec. a.C.) in cui il pensiero greco stava passando con fatica alla cosiddetta scientificità del discorso libero (logos), rispetto a quello mitico (mythos).
Per concludere, linguaggio e mito sono logicamente collegati e il mito con la sua trama e i suoi personaggi è il miglior espediente materiale per fissare un contenuto orale nella mente umana, se il “ricevitore” non è ancora abituato a scrivere o non conosce o non ha tempo di assimilare il messaggio lanciato in altra maniera più durevole. Questo è il mito: un racconto stratificato nel tempo di un’esperienza reale (o imposta in sogno, sebbene in modo diverso e non libero, come si credeva) subita o compiuta dai membri di una definita comunità e poi fissata in una serie di parole (per principio immutabili, ma in realtà modificabili non appena il contenuto diventa obsoleto o cambia la lingua in uso) che il neofita ascolterà e ripeterà allo scopo di incorporarlo letteralmente negli atteggiamenti propri e nei modi propri di affrontare gli ostacoli quotidiani.
Il mito, nel raccontarlo, è inoltre accompagnato da canti, litanie e danze che non sono altro che delle tecniche mnemoniche antichissime adoperate affinché la trasmissione orale ottenga maggior successo. È persino utile che così avvenga, poiché l’intervento del genio artistico (scaldo, aedo, vate, pevez) alla fine trasforma il racconto in un patrimonio da conservare come orgoglio nazionale. E l’efficacia di queste tecniche è tanto vera che il cristianesimo le sfruttò tutte, queste tecniche, per diffondere la propria mitologia. Con drammi sacri, con cori ed altri tipi di insegnamenti cantati e suonati, la Chiesa tese – si noti bene il caso cristiano – a deviare e legare l’attenzione del “catecumeno” sempre più verso lo scritto, perché i miti cristiani (il Vangelo, la Bibbia) si fissassero immutabili, ma soprattutto s’imponessero come culturalmente superiori alle mitologie non scritte del resto d’Europa.
Assodato così che il mito è la parte essenziale della tradizione di una certa cultura, i suoi tratti accertati ci sembrano ora chiari: 1. una descrizione del mondo in cui viviamo; 2. una morale pedagogica da apprendere affinché siano evitati danni fisici al proprio corpo e a quello degli altri; 3. suggerire che il comportamento, il personaggio e l’evento mitici sono modelli da imitare affinché l’ordine naturale comunitario non venga inutilmente disturbato.
E di qui balza subito agli occhi un’altra equazione importantissima che avvolge la lingua articolata al mito: il mondo esiste perché è stato creato dalla parola!
La sopravvivenza della cultura pagana
È un dibattito antichissimo e affollatissimo di dotti pensatori che nel mondo medioevale “scritto” dell’Europa cristiana addirittura s’inaugura intorno al 600 d.C. con la famosa Enciclopedia di Isidoro di Siviglia e le sue fantastiche (ma, a suo dire, pedagogiche) etimologie!
Tutto ciò in definitiva è notevole, dato che magia della parola è pure il contenuto “pagano” degli scongiuri, delle formule per i sortilegi e per gli incantesimi o, sul versante cristiano, delle benedizioni, degli anatemi e della nascita di… Cristo e della sua presunta missione! Noi però qui insistiamo sul punto che, comunque sia, la mitologia pagana nordica tramandatasi di generazione in generazione non scomparve del tutto in quanto tradizione orale, sebbene resti a volte arduo distinguerla da quella cristiana o, genericamente, sia problematico discernere l’una dall’altra quelle dei diversi popoli del Nord.
I legami personali o le partecipazioni interreligiose di tanti secoli fa fra europei nordici di etnie diverse rendono però più facile mettere a confronto le varie mitologie presenti, viste le pochissime notizie disponibili e, quando la ricercatrice russa contemporanea T. I. Sen’kina ammette che «i racconti popolari della Carelia (finnica) attirano l’attenzione per la le loro strette relazioni con le byline (russe)», ci conforta ulteriormente registrare l’indicazione (ma non è l’unica!) di una situazione d’intima ibridazione culturale fra Slavi, Balti e Finni già in tempi lontani.
Purtroppo, come scrive E. Levkievskaja, la mitologia russa in particolare è troppo giovane (non supererebbe i 1000 anni d’età!) e metterla insieme è un lavoro molto difficile quando occorra individuare un mito, caratterizzarlo e sistemarlo in uno schema classico dato. A nostro avviso, sarebbe oggi una perdita di tempo, dacché i miti russi ormai sono cristallizzati nella grande massa dei racconti popolari o byline che circolano nel mondo contadino: marchiare questi miti (meticolosamente raccolti soprattutto da A. Afanas’ev e V. I. Dal’) come puro folclore popolare per il divertimento degli spettacoli di piazza non significa affatto che essi abbiano perso la loro natura etnica mista o la loro spinta religiosa pagana, ovunque quest’ultima si nasconda nei testi.
Dalle ricerche appassionate di V. Propp (prima di altri) si riesce ad individuare nelle byline addirittura un loro fondo storico dal quale ricostruire qualche evento passato con una certa approssimata sicurezza. In conclusione, non sarebbe neppure troppo sbagliato nella ricerca presente abbandonare la parola mito per sostituirla con quella slavo-russa di bylina (ma non lo faremo) visto che il mito non è prescindibile dalla cultura che lo ha creato, se non fosse che le byline slavo-russe in Italia e nell’Occidente sono poco conosciute e altrettanto poco studiate.
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Il testo costituisce una “Prima lezione di paganesimo” (Первый Урок про Язычество Древней Руси) nell’ambito di un corso tenuto dallo studioso.
L’immagine: idolo di pietra dalla forma fallica, in cui è riprodotto un dio a quattro facce (Sventovit?), trovato a Zbruc’ (Vistola, Polonia) nel XIX sec., probabilmente infisso nel centro del santuario a lui dedicato.
Aldo Marturano
(LM EXTRA n. 16, 15 settembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 45, settembre 2009)