Un professore di liceo, le sue insicurezze e… Giulio Cesare, sullo sfondo del famoso fiume romagnolo ai tempi del Duce, sono i protagonisti di un inedito racconto della scrittrice ferrarese Antonella Chinaglia, che pubblichiamo dopo il grande successo del precedente sulla nostra rivista
Visto il notevole numero di contatti ottenuto dal racconto “La storia di Arancino”, uscito sul numero di agosto della nostra rivista LucidaMente dedicato alla lettura, pubblichiamo ora Al Rubicone, un altro breve testodella scrittrice ferrarese Antonella Chinaglia, che questa volta ci porta sulle sponde del fiume che dà il titolo allo scritto. In un’epoca passata ma non troppo lontana, il 1933, un protagonista tanto colto quanto insicuro e misterioso troverà interessanti risposte ai suoi dubbi di toponomastica nella storia dell’antica Roma e nella figura di Giulio Cesare. I suoi sforzi per bloccare un “battesimo” sbagliato serviranno a qualcosa? Ovviamente, ad accompagnare il lettore fino alla fine, una costante e sana curiosità verso il non scontato epilogo e la voglia di sbirciare quella che sarà la pomposa cerimonia – una festa? – che avrà come protagonista Savignano sul Rubicone.
Il professor P.S.A. trascorse insonne le notti delle ultime settimane, arrovellandosi su cosa e, soprattutto, come fare, arrivando alla conclusione che per il bene del Duce non avrebbe aspettato l’irreparabile. Da decenni insegnante al liceo, sebbene ambisse a ben più alti incarichi, e coscienzioso studioso quale si riteneva ed era riconosciuto, non accettava che quell’errore venisse perpetrato.
I suoi pensieri erano coraggiosi e sorretti dalle migliori intenzioni, rafforzate di giorno in giorno, ma quel mattino l’innata timidezza pareva frenarlo più del solito, tanto da farlo sudare. Se nell’anno 1748 il sacerdote di San Vito, accogliendo il consiglio di un riminese, aveva fatto apporre sul ponte romano l’iscrizione latina «Heic italiane finis quondam Rubicon», non capiva perché si dovesse perseverare a sbagliare. Se vi era una parte a sostenere che il Rubicone corrispondesse a quel corso d’acqua che scorreva a lato di Sant’Arcangelo di Romagna, l’altra diceva il contrario, malgrado l’antichissima via Emilia corresse proprio in prossimità di San Vito. Chi, dunque, meglio di Lui, appassionato insegnante di Lingua e Letteratura latina nonché di Storia romana, avrebbe potuto fermarli? Chi meglio di Lui, che conosceva a memoria i Commentarii di Cesare, De bello Gallico e De bello civili, avrebbe potuto bloccare coloro che stavano mal consigliando le autorità competenti?
Mancavano quaranta giorni alla cerimonia. Il nome del paese sarebbe stato cambiato da Savignano di Romagna a Savignano sul Rubicone e, pertanto, irrimediabilmente, il Duce sarebbe stato legato a quel battesimo accettato per dirimere la disputa tra riminesi e cesenati. Chiunque avesse gli strumenti per comprendere il corso della storia e gli accadimenti succedutisi nel territorio al passare dei secoli – si era detto allo specchio – avrebbe dovuto fare qualcosa. Se lo era ripetuto con crescente sicurezza; tuttavia, il suo carattere schivo, timoroso d’affrontare con disinvoltura la più semplice decisione, sembrava ancora una volta trattenerlo. Fermandosi alla finestra puntò lo sguardo sulle tre arcate del ponte sul torrente. Senza dubbio aveva origini ben più remote, nascoste dai termini “romano” e “consolare”con cui veniva definito.
Da sempre, lì, un ponte vi era stato, per necessità. Forse spostato un po’ più a monte o più a valle, o forse nel medesimo punto, prima di legno, poi di sassi, poi di mattoni, e sempre vi sarebbe stato. Semmai di ferro, largo quanto una strada di Cesena, tanto da farvi transitare carri e filobus allo stesso tempo. E quante generazioni di donne come quelle che stava osservando erano scese dagli argini con i sacchi pieni di panni e le loro tavole per lavarli. Con i grembiuli e i fazzoletti neri in testa, piegate in ginocchio per battere meglio il bucato fradicio contro il legno, sembravano dei corvi all’abbeveraggio. Più in là, due in piedi, una di fronte all’altra, strizzavano un grande lenzuolo tenendone i capi e ruotandoli sino a che l’ultima goccia d’acqua non fosse scappata. Così, da lontano, gli sembrò che quel lenzuolo fosse stato attorcigliato con tanta energia da apparirgli una sottilissima corda. Si trattava, appunto, di «una questione di prospettiva», si disse. Una prospettiva «storica, non da poco», aggiunse, riferendosi al giudizio dei posteri. E, dopo qualche secondo, affiancò pure «di toponomastica».
Tutto quanto sarebbe continuato, pur se con alcuni mutamenti. Anche il corso del torrente aveva subìto delle variazioni a causa dei cambiamenti morfologici nella profondità del terreno e di quelli climatici, ma le sue acque ancora scorrevano. Sospirò forte. Il torrente che stava guardando non era il Rubicone, Lui lo sapeva. Non perché fosse un capriccio dettato dal desiderio senile di protagonismo. Ne era convinto poiché il trattato del Boccaccio, datato 1360, parlava chiaro riconoscendo il “Rubicone” nel torrente Pisatellum, chiamato Urgòn, dal colore rossastro dell’acqua che scendeva sino all’antica pieve. Ed era stato in misura doppia convinto da quella pergamena conservata a Ravenna, che Lui stesso aveva avuto la fortuna e l’onore di leggere nell’approfondimento degli studi: un documento dell’anno Mille denominante la pieve come «di San Martino in Rubicone».
Proprio per il fatto che il corso avesse nei secoli sicuramente deviato, Lui era stato in triplice misura convinto dai toponimi: per esempio, Calisese, da callis Caesaris, cioè sentiero di Cesare, che identificava la zona, molto più a nord del paese, dove si accamparono le truppe di Giulio Cesare e da cui si mossero seguendo il futuro Imperatore. Si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte, con il fazzoletto sempre pronto in una tasca dei pantaloni per le situazioni di iniziale imbarazzo antecedenti a tutte le sue definitive decisioni: avrebbe sfoderato le proprie argomentazioni a coloro che, per dovere, se non per sensibilità culturale, avrebbero capito. L’incubo dei preparativi per festeggiare il nuovo nome del paese quella notte non lo perseguitò e, pertanto, il professore pensò che ciò fosse di buon presagio all’intenzione di procedere. Per il sentimento di amicizia che li univa decise di renderne primo partecipe il capo della milizia. Il professore venne preso sottobraccio come ai tempi della scuola frequentata assieme. Il vecchio amico lo ascoltò attentamente. Annuì e, dopo essersi fermato, serio e meditabondo, gli chiese: «Sei proprio sicuro?».
Le parole pronunciate dal professore risuonarono nell’ampia sala tali e quali a un’orazione mattutina in un convento: «De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminis, stagnis…». Tuttavia, sebbene avesse soltanto accennato il titolo del trattato del Boccaccio, venne immediatamente zittito: «Ho capito, ho capito, non posso che inchinarmi alla tua erudizione. Hai fatto bene a spiegarmi come realmente stanno le cose». L’amico capo della Milizia lo aveva ringraziato e, dopo aver affermato con convinzione «Ora dobbiamo provvedere», lo aveva accompagnato personalmente sino al portone sul corso e lo aveva salutato come si doveva, raccomandandogli di non preoccuparsi ulteriormente. «Lascia fare a me», gli aveva detto per rassicurarlo.
Trascorsero i giorni, l’atmosfera in paese non cambiò. Al professore venne il dubbio che l’autorità dell’amico non bastasse. Anzi, se lo immaginò in difficoltà nel perorare e sostenere il motivo per cui quella cerimonia non dovesse tenersi. Pertanto, avvalorando la decisione presa con l’intento di difendere una vecchia e sincera amicizia, sicuro e determinato come non mai, andò a far visita al segretario di sezione. Pur se conosciuto e stimato, il professore dovette dare la precedenza ad alcune importanti e inderogabili telefonate. Poi venne ricevuto e fatto sprofondare in una comoda poltrona con una tale sollecitudine da suggerirgli che fossero al corrente del suo nobile e stimabile intendimento. La timidezza lo fece annaspare, avanzò il senso di dignità, con il risultato che la sua fierezza, venuta finalmente a galla, non lasciò contaminare la pertinenza dell’espressione. Il segretario lo ascoltò, seduto all’altro capo della scrivania, impugnò persino il pennino per appuntarsi qualcosa, quando Lui gli parlò dell’archivio arcivescovile e della pergamena di Ravenna, e infine commentò: «Caro camerata professore, le tue argomentazioni sono più che convincenti, la tua competenza in materia sembra sbaragliare qualsiasi altra teoria». E, prima di salutarlo come si conveniva, lo rassicurò: «Faremo il possibile. Lascia fare a noi».
Il professore tornò a casa ripetendosi all’infinito quelle tre parole, «faremo il possibile», che lo facevano sprofondare nel vago, aggrottare la fronte e sudare più dell’inguaribile insicurezza. Se fosse stato ascoltato come sperava, i posteri non avrebbero potuto tramandare che il 1933 era stato l’anno in cui il Duce aveva assegnato il nome “Rubicone” al fiume sbagliato. Battezzare “Savignano sul Rubicone” avrebbe voluto dire ciò e non poteva permetterlo. Lui, si confermò, avrebbe davvero fatto il possibile: anche andare a parlare con il federale, a Cesena. Così fece. E non si meravigliò di se stesso quando, uscendo dall’udienza concessagli, esclamò «Alea iacta est», il dado è tratto, proprio come Cesare, nel 49 a.C., al “Rubicone”. Infatti, tutti quelli che contavano, grazie a Lui, sapevano. Tutti loro, nessuno escluso, gli avevano infine assicurato che avrebbero organizzato soltanto una bella festa di paese, a ricordo dell’Imperatore passato da quelle parti, per accontentare le aspettative della popolazione. «Carissimo camerata professore, si sa, il popolo ama divertirsi», aveva affermato il federale.
Il torrente scorreva, i preparativi correvano, il giorno arrivò. Il professore, incurante e tranquillo, si sedette alla finestra. Gli sembrò troppo fastoso l’andirivieni e troppo pomposa la banda per quella che avrebbe dovuto essere una semplice festa di paese: egli stesso trovava difficile immaginare quale altra forma, di certo ancor più sfarzosa e opulenta, avrebbero preso i festeggiamenti se non vi fosse stato il suo intervento. Trascorse buona parte della mattinata ai vetri, concordando sul fatto che il popolo amasse divertirsi e ricordando che indiscutibile testimonianza ne fosse la storia dei ludi circensi nell’antica Roma, sino a che il suonare del campanello alla porta dell’abitazione non lo distolse dall’osservazione della folla in strada e dalle sue meditazioni squisitamente erudite. Scese, ritirò un telegramma dal fattorino delle Poste e telegrafi il quale, con aria grave e viso rubicondo per la veloce pedalata fatta, soltanto quando lo vide sulla soglia si staccò dal tirante. Richiuse, risalì, si risedette. Aprì, lesse e quasi scivolò dalla sedia comprendendo in pochi istanti quanto la sua rimozione dovesse essere apparsa a qualcuno la soluzione più semplice al problema: «Illustrissimo professore P.D.A., comunichiamo Vostra promozione a Preside del regio liceo Carducci in Campobasso. Pregasi presentarsi entro tre giorni a competente…».
Il fragoroso sbattere dei piatti che scandiva il passo della banda lo risvegliò dai presentimenti in cui era sprofondato. Si sforzò d’essere misericorde immaginandosi, cinquant’anni dopo, i cittadini dei territori in questione, ovvero anche i nipoti dei suoi concittadini plaudenti, ancora divisi in opposte fazioni, associati pro e contro il battesimo a nome “Rubicone” di questo o di quell’altro torrente. Per quanto gli concerneva, reagì con una prontezza inconsueta dirigendosi dove custodiva il proprio certificato di nascita in una sdrucita cartella e, ritrovandosi davanti all’armadio, venne preso dal fresco pensiero che la sua vecchia valigia sarebbe bastata soltanto per l’iniziale trasferimento. Il suo primo cognome iniziava per “S”, non per “D”, non vi erano dubbi, mentre riguardo al resto, si ripromise, scuotendo la testa, infossandosi nelle spalle e chiudendo fuori dalle ante della finestra i rumorosi ed erronei festeggiamenti, di scrivere un saggio sull’argomento con la ferma intenzione di spedirlo all’attenzione del Duce in persona. Non appena la sua identità fosse stata siglata in modo esatto su qualsiasi tipo di documento, innanzi tutto, e quando il trasloco e l’inizio del nuovo anno scolastico gli avessero lasciato del tempo libero a disposizione, ovviamente.
Le immagini: il famoso ponte sul fiume Rubicone, citato anche nel racconto di Antonella Chinaglia; una foto del torrente e il relativo cartello che ne indica il nome; il busto di Giulio Cesare e una rappresentazione dell’Imperatore sul Rubicone nel 49 a.C.; una panoramica dall’alto di Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì-Cesena.
Antonella Chinaglia
(LucidaMente, anno XI, n. 130, ottobre 2016, editing e formattazione del testo a cura di Maria Daniela Zavaroni)
Brava Antonella…nn ti smentisci mai.Il racconto mi è piaciuto.Breve ma intenso.Vedi l’ ora di arrivare alla fine per sapere se il prof.riuscirà nel suo intento.Mi rimane solo da dire che avrei gradito la traduzione di alcune frasi in latino…io ignorante nn capisco.Leggetela è molto interessante.
Ti ringrazio Rita…mi fai notare che devo migliorare, senza dare alcunché per scontato. Mi rammarico di non aver pensato alle note a piè pagina grazie alle quali la lettura sarebbe stata più agevole.
Mi scuso con i Lettori e rimedio subito.
Per quanto riguarda l’iscrizione latina sul ponte…
heic, avverbio, significa ‘in questo luogo’, ‘qui’;
fīnis, is, sostantivo maschile, significa ‘confine’, ‘limite estremo’;
quondam, avverbio, a seconda che sia riferito al passato o al futuro significa ‘un tempo’/’anticamente’, oppure ‘in avvenire’.
Il corso d’acqua in oggetto segnava allora, ai tempi di Giulio Cesare, il confine tra il territorio della Gallia Cisalpina (cisalpina, vale a dire ‘al di qua delle Alpi’, cioè la parte meridionale della Gallia) e quello di Roma. Si può presumere che attraverso questa iscrizione nel Settecento si intendesse segnalare e ricordare ai contemporanei, oltre che ai posteri, l’importanza di quel preciso e determinato luogo, infatti, se il passaggio di quel ‘limite’ da parte di Cesare aveva segnato l’inizio della guerra civile, avrebbe potuto di nuovo avere un peso politico.
La frase dell’iscrizione si presta a traduzioni letterali di similare sostanza:
‘Rubicone (è) in questo luogo anticamente limite estremo dell’Italia’;
‘In questo luogo vi è il Rubicone un tempo confine italiano’;
per cui semplificando e fondendo i significati e i concetti espressi si può arrivare alla seguente frase
‘Qui è il confine d’Italia detto Rubicone’, che sembra sancire un dato di fatto…nonostante si sia ancor oggi incerti (perlomeno per quanto io sappia)!
Inoltre,
callis, is, sostantivo maschile, significa ‘sentiero di montagna’,
e nel titolo del trattato si traduce il complemento di argomento reso con il ‘de più Ablativo’ pertanto leggilo “Sui monti, i boschi, le sorgenti,i laghi, i fiumi, le lagune…” poiché si tratta dell’elenco degli argomenti considerati nel trattato.
Ti ringrazio ancora, gentile Rita, spero di aver chiarito.
Migliore lettura a tutti!
Ciao,
Antonella Chinaglia
Il racconto è gradevole ma secondo me dovevi scavare di più sugli stati d’animo del professore dando una sfumatura più burlesca al tutto.
Direi che lo scavo psicologico del filologo pignolo è efficace e il tono ironico c’è. Ricordiamoci che durante il fascismo – e non solo – chi rompeva le scatole non faceva una bella fine. Tutto sommato, al protagonista è andata anche bene. E la “burla” è proprio il suo trasferimento. Il racconto è ben equilibrato tra realtà storica e vicenda quasi surreale.
Gentile Cinzia, ti ringrazio per il tuo commento.
Cimentarsi in un racconto breve significa raccogliere una sfida per vincere la quale occorre dare importanza al dettaglio poiché quanto potrebbe essere spiegato in una pagina deve essere sintetizzato in poche righe. Avendo scelto di seguire il principio di verosimiglianza la sfida mi si è presentata oltremodo difficile. Non a caso nel mio testo originale avevo puntato molto sull’utilizzo, o meno, delle maiuscole che mi permetteva di sottolineare denominazioni, definizioni, sigle e aggettivazioni: ‘rubicone’ stava per qualsiasi corso dalle acque rese rossastre da minerali oppure da alghe in qualche periodo dell’anno; ‘il Professore’ era riconosciuto tale nel territorio indipendentemente dal nome e dai cognomi; ‘il Capo della Milizia’, ‘ il Federale’ in quel contesto storico-sociale conferivano l’autorità e il potere del ruolo, e ciò intendevo trasmettere al Lettore, a qualsiasi lettore, anche a quello che non abbia “gli strumenti per comprendere il corso della Storia e gli accadimenti succedutisi nel territorio…etc.” . ‘Storia’ con la ‘esse’ maiuscola, mentre la storia della contesa tra riminesi e cesenati …è tutta un’altra storia.
Nella sintesi in poche pagine, la singola parola viene ad assumere un peso maggiore…se scritta in un modo o se scritta in un altro (ad esempio con la maiuscola iniziale, o in corsivo) viene percepita in un senso differente e connota in maniera diversa quanto l’Autore intenda esprimere.
Mi è stato detto (altrove, e molte volte ripetuto!) che l’editing è sacro ( e lungi da me l’intenzione di ‘rompere le scatole’!).
Ciò solo per dire che la sottile ironia sottesa all’intero racconto è un filo sorretto da una fitta serie di segnali, di ‘battesimi’, che, probabilmente non sono riuscita a far cogliere.
Avrebbe dovuto far sorridere che nella realtà storica in cui molto acquisiva alto significato grazie alla maiuscola venga scritta in maniera errata proprio l’iniziale del primo cognome del protagonista e a ciò si affianchi la portata di fatto minima del riconoscimento del corso d’acqua…e che, pure per il Professore, per il quale l’importanza dell’abbinamento nome del ponte-nome del dux/Duce sembrava fondamentale, si declassi a cosa da risolversi in data da destinarsi dal momento in cui la sua stessa identità vacilli…. ma essendosi perse in fase di editing numerose maiuscole (ed essendone fiorite altre) la percezione di ironia del Lettore è fatta slittare, ed è costretta a permanere, soltanto sul concetto ‘promosso e rimosso’ .
Di nuovo grazie, gentile Cinzia, per l’opportunità offerta anche dal tuo commento,
ciao,
Antonella Chinaglia
Brava, Antonella! Il racconto è piacevole e istruttivo!
ancora brava!
Purtroppo i professori non vengono quasi mai ascoltati!!! Alla fine non sai se rallegrarti per la promozione o rammaricarti per l’allontanamento. Il racconto mi ha tenuto in sospeso fino alla fine. Complimenti come sempre, è stata una lettura molto piacevole.
Fine come sempre! Delicato, e si vede che dietro c’è sempre un accurato studio prima di scrivere, su cui poi basi il racconto! Bravissima! Aspettiamo il prossimo!
Complimenti per il racconto… molto interessante, fluente e intriso di cenni storici… e soprattutto dà degli spunti riflessivi… infatti, è bello, sotto certi aspetti, riscontrare che, nonostante siano passati decenni, chi comanda utilizza sempre lo stesso modo per chiudere la bocca a coloro che hanno voce in capitolo…
Complimenti ancora, attendo il prossimo racconto.
Ad un certo punto ho pensato che gli venisse un coccolone, al professore!
A me è piaciuto, non è facile raccontare una storia in così poche righe. Brava, Anto;
non vedo l’ora di leggere qualcos’altro!!
Un racconto mozzafiato fino alla fine… ce la farà il prof? Consigliato.
Molto interessante e piacevole… a quando il prossimo ?
Bravissima! Mi è piaciuto tanto. Non era un argomento semplice, ma sei riuscita a renderlo gradevole e simpatico. Complimenti… al prossimo racconto.
Una meticolosa conoscenza storica rende affascinante e scorrevole, questo racconto… e, per quel che mi riguarda, grazie… per avermi dato conoscenza di una sfaccettatura della mia amata Romagna, che non conoscevo… brava… come sempre…
Bello! Complimenti! Aspettiamo il prossimo…
Brava, Antonella: nonostante sia un genere che non leggo, m’è piaciuto e l’ho trovato molto istruttivo.
Brava Antonella, il racconto è molto carino e scorrevole si percepisce bene il clima politico di quegli anni e non manca l’ironia, la promozione del professore mi sembra più una beffa!
Complimenti per i tuoi lavori.