Intervista allo scrittore imolese, uno dei massimi esperti italiani di aforistica
Sessantenne, residente a Imola, Antonio Castronuovo è saggista, traduttore ed editore. In quest’ultimo ambito dirige varie collane per la Editrice la Mandragora di Imola e ha fondato la piccola Babbomorto Editore, che pubblica plaquette d’autore in poche copie numerate. Dirige anche La Piê, la più antica rivista di cultura regionale. Tra i suoi saggi, Libri da ridere. La vita, i libri e il suicidio di Angelo Fortunato Formiggini (Stampa Alternativa, 2005); Macchine fantastiche. Manuale di stramberie e astuzie elettro-meccaniche (Stampa Alternativa, 2007); Alfabeto Camus. Lessico della rivolta (Stampa Alternativa, 2011); Ossa, cervelli, mummie e capelli (Quodlibet, 2016).
Tuttavia, il campo che padroneggia meglio è l’aforistica. Infatti, è nella giuria del premio “Torino in Sintesi”, unica competizione italiana totalmente dedicata a questo genere letterario. Come aforista ha pubblicato Rovi (Stampa alternativa, 2000), Tutto il mondo è palese (Mobydick, 2006) e il saggio storico Aforismi del Novecento (Stampa Alternativa, 2015). A proposito di questo stile, illuminante e trasgressivo, atto a urtare le anime belle e quanto mai provvidenziale in tempi di tiepido buonismo, ci ha concesso un’intervista, per la quale lo ringraziamo.
La passione per l’aforisma nasce dalla sua vicinanza culturale con il professor Gino Ruozzi, docente di Letteratura italiana nella Scuola di Lettere e Beni culturali dell’Università di Bologna, o si tratta di un “vizio” personale?«Conosco bene Gino Ruozzi, che è stato per noi tutti un maestro, uno dei primi a far conoscere in Italia il genere dell’aforisma, a sdoganarlo, come si suol dire, e con un’operazione di rango: il duplice Meridiano Mondadori dedicato agli Scrittori italiani di aforismi, un’antologia amplissima e immancabile sugli scaffali di chi si interessa a questo genere letterario. Credo che il gusto per l’aforisma nasca dalla mia naturale inclinazione laica e sintetica, ma riconosco che a frequentare la saggistica di Ruozzi ho ricavato non poca spinta a continuare. Ricordo che tra le mie prime scritture giovanili – quelle che restano poi allo stato manoscritto di quadernetti e agende riempite di parole – primeggiavano i pensieri brevi e caustici: è del tutto probabile che l’inclinazione aforistica mi sia entrata presto nel cuore».
Nel suo saggio pressoché esaustivo su “L’aforisma italiano del XXI secolo”, pubblicato sul n. 3/2017 della rivista “Nuova Informazione Bibliografica”, edita da il Mulino, divide il genere aforistico in almeno sei sottogeneri. Quale ama di più?«La divisione in famiglie aforistiche che ho operato in quel lungo saggio serviva soprattutto a rendere più agibile una materia abbastanza omogenea: tutti gli aforisti tendono a essere dei pessimisti e degli ironici al contempo. Non corre molta differenza tra i pessimisti, i demolitori e gli ironici/umoristi. In fondo, fotografare l’esistenza mediante l’aforisma è un’operazione che serve a svelare la tragedia dell’uomo, i suoi vizi, le imperfezioni e la precarietà. E per farlo è inevitabile atteggiare lo stile al lieve sorriso dell’ironia: solo con un lieve sorriso è possibile affrontare la tragedia dell’esistere. Grandi aforisti come Kraus, Ceronetti, Cioran, ma anche Longanesi, Flaiano, Rigoni, hanno lavorato usando una straordinaria miscela di pessimismo e ironia. Allora le posso rispondere dicendo che amo tutti i sottogeneri aforistici, perché tutti, alla fine, finiscono nel grande sorriso tragico con cui l’uomo dovrebbe osservare l’esistenza».
Nella bellissima operetta morale Dialogo di un passeggere e di un venditore di almanacchi, Giacomo Leopardi individuava nella cecità dell’umanità l’idea che, seppure tutto alluda al contrario, vi sia un futuro migliore ed esista la felicità. Questo è uno dei motivi per cui le masse (e non solo) accettano religioni consolatorie, buonismi politici, sdolcinati polpettoni televisivi, e lincerebbero chi dice loro la verità nuda e cruda, ma spiacevole?«La cecità umana, l’accettazione a-critica del mondo: ecco, lei ha individuato i bersagli verso cui si dirige la freccia aforistica. Che in fondo serve a far pessimisticamente capire che non esiste felicità possibile se non nell’illusione dei pochi momenti estetici che la vita ci offre. Tutto questo, in certo modo, è contenuto nella grande filosofia leopardiana della vita. E Leopardi, non a caso, è considerato dagli aforisti un maestro, una guida. Non perché fosse aforista, ma in quanto creatore di buona materia di fondo per ogni buon aforista».
Ultima domanda, un po’ di parte. Sappiamo che ha letto il libro “maledetto” (Decomposizione di Dio) del nostro direttore, Rino Tripodi. Una strana opera, che, pur non rientrando strettamente nel genere aforistico, vi si avvicina per l’amara visione metafisicamente scettica, anzi disperata. Cosa ci dice al riguardo?«Dico che si tratta di un libro molto interessante, che ho letto con trasporto. Le sue pagine non sono aforistiche, ma vi tendono sempre, come se l’autore nutrisse in sé lo spirito migliore dell’aforista: vedere come stanno realmente le cose – in tema di esistenza dell’uomo e di funzionamento della società – e inclinare a dirlo con motti sintetici, brevi narrazioni, illuminazioni fugaci. Io credo che quello della fugacità sia ormai il solo stile concesso a chi scrive: in un mondo in cui nulla più di stabile esiste, come poter continuare a edificare lunghe forme letterarie? Non c’è bisogno di inventare uno stucchevole romanzo per far capire quel che Tripodi dice in una riga: che al centro della galassia c’è un enorme mare inutile. È il mare delle nostre illusioni: per cantarne la fugace bellezza, ed esprimere anche la provvisorietà stessa della bellezza, basta una riga. Basta un aforisma».
Antonella Colella
(LucidaMente, anno XIII, n. 149, maggio 2018)