Quando si parla di riprendere il processo di pace in Medio Oriente di solito si fa riferimento agli accordi di Oslo del 1993 (ufficialmente Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim). Intese che di fatto sono naufragate ma che comunque non avevano, e di proposito, preso in considerazione una serie di elementi fondamentali per la vita quotidiana mediorientale: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, gli insediamenti israeliani nei territori occupati, i confini e l’acqua. Cinque macigni che bloccano la strada della speranza che dovrebbe condurre alla fine del conflitto arabo-israeliano che ormai si prolunga, con pochi spiragli di luce, da oltre cinquant’anni.
Nell’annosa “questione” israelo-palestinese, per dirla con lo storico ebreo israeliano Ilan Pappé, quello che più conta è il “processo” e non la “pace”. Solo da questo punto di vista è stato possibile considerare la Dichiarazione di Oslo una pietra miliare verso la pace in Medio Oriente. Accordi che prevedevano la progressiva autonomia della Palestina verso la creazione di uno stato per tappe e aree diverse, ma che di fatto l’hanno resa un territorio a macchie, e un labirinto. Da allora la Cisgiordania, territorio che Israele ha occupato nel 1967 durate la Guerra dei sei giorni (prima era sotto il regno di Giordania), è stata divisa in tre zone: A, B e C. La prima è sotto la giurisdizione dell’Autorità nazionale palestinese: c’è una sorta di amministrazione autonoma, nonostante il fatto che per uscire dal territorio, per questioni relative alla costruzione di case, a documenti per l’espatrio e qualsiasi cosa riguardi il rapporto con l’esterno, occorra chiedere l’autorizzazione a Israele. Nella zona B la gestione è mista, palestinese e israeliana. La zona C è sotto amministrazione israeliana.
Non bisogna però pensare a una divisione netta, con aree A, B e C ben distanti e separate: ci sono città divise al loro interno in zone A, B e C, come Hebron, per dirne una. Qui si materializza il paradosso dell’intera questione. Hebron è luogo sacro sia per ebrei che per musulmani, per la Tomba dei Patriarchi, dove pare ci siano i resti di Abramo e Sara, Isacco e Rebecca. Tutti personaggi fondamentali per entrambe le religioni, quindi moschea e sinagoga sono nello stesso grande edificio. Che però è stato spezzato in due, più o meno da quando nel 1994 un colono ebreo ha ucciso 29 palestinesi in preghiera. Ora si può visitare la moschea accedendovi dalla zona A palestinese, oppure fare un giro di chilometri intorno alla città, immettersi nell’insediamento israeliano, con relativi check-point e controlli, e da qui entrare nella sinagoga, controllata a vista da soldati armati dentro e fuori l’edificio. Una volta che sei circondato dai fucili, l’aspetto sacro passa in secondo piano. Tra una zona e l’altra, oltre a centinaia di check-point e soldati israeliani, l’elemento pervasivo è il filo spinato. Armi, videocamere, soldati che ti controllano, che frugano nella tua borsa, a cui mostrare carta d’identità, fanno parte del quotidiano.
Gli insediamenti in Cisgiordania rendono bene l’idea di cosa significhi avere un problema da risolvere con l’acqua, e in una zona come quella, desertica con scarse fonti idriche, ne è chiara l’importanza. Basta dare un’occhiata alle villette col tetto rosso, immerse in giardini di un verde brillante, circondate da filo spinato, e accanto gli aridi villaggi palestinesi, color sabbia, tutti pietra e argilla, con canali prosciugati accanto alle strade. Gli insediamenti mettono in campo anche un altro problema: quello dei confini. Perché ci sono centinaia di migliaia di ebrei israeliani che ci abitano, e difficilmente se ne andranno se mai in un futuro si arriverà a costituire il fatidico stato palestinese. Basti pensare a quello che è successo quando nel 2005 l’allora Primo ministro Ariel Sharon ha deciso di far sgomberare i coloni da Gaza: si è scatenato il finimondo e non erano che qualche centinaio. Per Gaza bisognerebbe aprire un’altra pagina. Amministrata da Hamas, che ha democraticamente vinto le elezioni nel 2006, da tre anni è completamente isolata dal resto del mondo a causa dell’embargo israeliano, a causa del quale non riesce a riprendersi dall’Operazione Piombo fuso che nell’inverno 2008-09 ha ucciso 1.400 persone, di cui 300 bambini.
Passiamo invece al muro, costruito dagli israeliani lungo il perimetro della Cisgiordania per impedire l’entrata ai kamikaze palestinesi, ma così, con loro, anche alla maggior parte dei civili. Muro che non è stato costruito lungo la linea verde, quella tracciata dagli accordi arabo-israeliani nel 1949, subito dopo la guerra per la fondazione dello stato di Israele, ma tagliando verso l’interno, cioè rosicando territori alla Palestina. Un muro che vicino a Gerusalemme è alto 8 metri, condannato senza successo dall’Onu e dalla comunità internazionale. Muro che spezza Gerusalemme, sul cui status non si sa come agire. Considerata capitale sia da Israele che dall’Autorità palestinese. Occupata sempre nel 1967 e subito annessa: agli ebrei israeliani non è sembrato vero di poter tornare dopo 2000 anni a piangere sul muro del Primo Tempio. E poco importa se la Spianata delle Moschee, esattamente accanto, sia dal VII secolo il terzo luogo più sacro dell’Islam. L’Autorità nazionale palestinese considera Gerusalemme la propria capitale, ma persino i membri del governo devono chiedere il permesso all’amministrazione israeliana per poterci andare. E così la capitale di Israele è Tel Aviv per la comunità internazionale, mentre quella palestinese è Ramallah.
I milioni di rifugiati sparsi nel mondo, o anche quelli nei campi profughi dentro lo stesso territorio palestinese, continuano a sognarla, Gerusalemme, ma il diritto al ritorno è un tema che Israele considera uno dei più spinosi. Lo stato ebraico ha già al suo interno un 20% di popolazione non ebraica, cioè composta principalmente dai palestinesi che nel 1948 sono riusciti a resistere, che non sono scappati: i cosiddetti “arabo-israeliani”, che sarebbe meglio chiamare palestinesi che vivono in Israele. Un 20% in continua crescita. Anche senza il ritorno dei rifugiati, è questione di tempo prima che Israele si trovi ad affrontare il fatto di non poter continuare a essere uno “Stato ebraico”. Gerusalemme, confini, acqua, rifugiati, insediamenti: cinque questioni tralasciate da Oslo, e su cui trovare un accordo sembra impossibile. C’è chi per questo parla sempre più volentieri di accantonare la “soluzione a due stati” per portare avanti quella a “uno stato unico”. Soprattutto gli intellettuali palestinesi in esilio. Idea che però suona inverosimile alla maggior parte di chi in Medio Oriente ci vive.
L’immagine: Gerusalemme, uno scorcio della Cupola della Roccia, nella Spianata delle Moschee (foto della stessa Brugnettini).
Eva Brugnettini
(Lucidamente, anno V, n. 57, settembre 2010)