Viaggio in una delle questioni più spinose dei nostri tempi, attraverso le vicende di alcune delle protagoniste che ne hanno segnato le tappe. Storie di sconfitte e conquiste, di amarezze e liberazione
Quando si parla di aborto, ci si dimentica spesso delle donne. Del volto delle donne. Della solitudine di quei volti. Del loro riscatto. Una catena di visi si guardano da un capo all’altro dell’Europa (e non solo) e si riconoscono in una causa comune: la battaglia all’oscurantismo. Voglio raccontarveli, conscia del fatto che essi sono solo un piccolo numero, in questa battaglia tenace e ininterrotta.
Siamo in Irlanda. Un murale a tinte rosse lampeggia. Raffigura una donna: è bella, giovanissima. È un volto. Il sorriso smagliante si confonde, nelle strade uggiose della città, coi passanti frettolosi, si mischia ai mille volti distratti che la popolano; i due occhi scuri, segnati, incorniciano un piccolo amuleto brillante, un terzo occhio. Sono gli occhi di Savita Halappanavar: indiana di nascita, irlandese d’adozione. Savita non c’è più. A sua memoria, quel souvenir pop su un muro d’Irlanda. È morta il 28 ottobre 2012, dopo che il personale medico del Galway University Hospital le ha rifiutato un intervento di aborto alla diciassettesima settimana. All’epoca, il codice penale irlandese non permetteva di interrompere la gravidanza oltre la dodicesima settimana, ed entro questo termine solo di fronte a pericoli gravi, e accertati, per la salute fisica o morale della paziente. Ma gli occhi di Savita sono rimasti fermi, presenti, sorridenti, coraggiosi. E oggi, nella sua Irlanda, le cose sono cambiate.
È il 25 maggio del 2018: l’aborto è depenalizzato. L’ottavo emendamento della Costituzione irlandese, che sanciva «pari diritto alla vita», alla madre e al nascituro, sarà depennato, a detta del premier Leo Varadkar, entro un anno. È il 25 maggio 2018, e tre donne, Grainne Griffin, Orla O’Connor e Alibhe Smyth, coordinatrici di Togheter4Yes entrano nella sede del movimento, attorniate da una folla gremita di occhi lucidi ed emozionati. Si abbracciano, festeggiano. Ma sanno che la partita è appena iniziata.
L’obiettivo è Belfast, Irlanda del Nord, ultracattolica e in piena crisi di governo da più di un anno. Un sogno: fermare l’oscurantismo e liberalizzare ovunque l’aborto. Gli occhi di Savita hanno continuato a brillare e sono diventati un simbolo, la marcia di una lotta, la speranza di un cambiamento. Nel cuore di tutti, questa è la Savita’s law, la “legge di Savita” (per un approfondimento sulle altre battaglie civili in Irlanda, leggi l’articolo: L’Irlanda è cattolica, ma dice sì alle nozze gay). Lasciamo l’Irlanda, e voliamo in Francia. «Merci, Madame»: così la omaggia un manifesto. Una tomba drappeggiata di rosso, bianco e blu, il primo luglio scorso, entra nel Pantheon di Parigi, il mausoleo laico nel cuore della città. Tra fazzoletti sventolati al vento, lacrime, emozione, trasporta una signora: Simone Jacob, congiunta Veil. Scampata alla tragedia del genocidio nazista degli ebrei; prima presidentessa donna del Parlamento europeo; una delle prime a diventare ministro. Simone Veil è stata, tra l’altro, la promulgatrice della legge sull’aborto nel 1974. Mi sembra un porto sicuro, quello tra i grandi illuminati di Francia: Voltaire, Zola, Hugo.
Facciamo finalmente capolinea in Italia. Gigliola Pierobon è nata a San Martino di Lupara, in provincia di Padova. Classe 1950. Ha i capelli ricci e una postura androgina: jeans a zampa, catenella al collo. Il viso atteggiato a sfottò, ma gli occhi dolci, calmi. Ha diciassette anni quando rimane incinta. E decide di interrompere la gravidanza inaspettata, non voluta, non accettata. A quei tempi (1967) l’aborto (Codice penale Rocco, 1930) rientrava nei «delitti contro la integrità e la sanità della stirpe».
Qualche anno dopo, viene processata e, grazie anche al brillante lavoro dell’avvocato Bianca Giudetti Serra, il suo diventa un caso mediatico. Le sue parole hanno il sapore acerbo della gioventù, e la consapevolezza della maturità: «La mia storia è quella di tante altre donne e il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre milioni di donne». Anche grazie a donne come Gigliola oggi possiamo celebrare il quarantesimo anniversario della 194, la legge per «la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg)≫ (si possono leggere le fasi del processo Pierobon cliccando qui). Ripenso a Gigliola Pierobon, a Savita Hallapanavar, a Simone Veil, ai loro volti genuini e fieri quando, proprio il giorno dell’importante ricorrenza, il 22 maggio 2018, vedo i cieli di Roma colonizzati da iconici manifesti antiabortisti del Movimento pro-life, con tanto di pancione di donna, inneggianti: «Aborto, prima causa di femminicidio». L’articolo di Roberta Antonaci, Citizengo:«Aborto, prima causa di femminicidio», apparso proprio sullo scorso numero di LucidaMente, ci aiuta a fare chiarezza sull’accaduto.
E ripenso ancora a quelle donne lo stesso giorno, a Bologna, l’Associazione No 194, organizza una veglia di preghiera, e per tutta la città autovedette civetta senza volto urlano frasi contro l’aborto, a “favore” della vita. E a quando, per mostrarsi più credibili, chiamano l’attuale ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, «uno di noi». Ed è vero: un fedelissimo, tesserato dell’anno 2011 (per un ritratto del ministro: Chi è Lorenzo Fontana, il ministro della “Vera” famiglia (e dei feretri). E penso che tanto sacrificio non debba essere stato compiuto invano.
Lorenza Cianci
(Lucidamente, anno XIII, n. 151, luglio 2018)
Minuzia: usate, come altri media e infinitamente la parola “murales”, che é il plurale di “mural”, che basta e avanza. o sempre é più di uno?
Gentilissimo Tanto, ha perfettamente ragione e la ringraziamo per il suo intervento. Ma, ormai, l’uso del plurale “murales” per il singolare “mural” o “murale” è dilagato. Comunque, correggiamo.
Continui a seguirci e a segnalarci i nostri “peccati”.